l'anniversario
I nove anni dall'omicidio di
don Puglisi
di LUCA
TESCAROLI
A Palermo, nel piazzale Anita
Garibaldi, il 15 settembre del 1993 don Giuseppe Puglisi veniva assassinato con
un colpo di pistola alla nuca, esploso da una mano criminale sbucata dal buio.
Sono trascorsi nove anni da quell'omicidio, sono stati celebrati due processi,
cinque mafiosi sono stati condannati all'ergastolo e 16 anni sono stati inflitti
allo sparatore pentito Salvatore Grigoli. Se il percorso giudiziario è stato
ultimato, permane l'obbligo di gratitudine nei confronti di quel sacerdote.
Egli ha saputo offrire, sebbene isolato, un esempio di autentica e coerente vita
evangelica e di senso di legalità. Un uomo che aveva scelto di schierarsi, senza
veli di ambiguità e complici silenzi, dalla parte dei deboli e degli emarginati
e di porsi di fronte ai rappresentanti delle istituzioni perché fossero più
sensibili alle loro esigenze, di denunciare i soprusi ed i misfatti mafiosi
della zona di Brancaccio, di impedire ai potenti del quartiere di sponsorizzare
iniziative volte a raccogliere sostegni elettorali. Egli ha raccolto l'invito
del Papa, rivolto ai sacerdoti e vescovi nel suo celebre discorso del 9 maggio
del 1993 nella Valle dei templi, a «non essere tiepidi e deboli» nel combattere
«la mafia ed i mafiosi», rispettivamente, bollati come «peccato sociale» e
«assassini» mentre in Sicilia era in atto un faticoso percorso di mutamento
dell'atteggiamento della Chiesa siciliana di fronte alla realtà mafiosa:
dall'inerzia tollerante e indifferente a una presenza pastorale attiva tesa a
sottrarre ai boss il loro retroterra culturale, i giovani soprattutto. Un
processo fortemente avversato dagli uomini di Cosa nostra, che hanno reagito
colpendo la cristianità con gli attentati del 28 luglio 1993 ai suoi luoghi
simbolo: la Basilica di San Giovanni in Laterano, cuore della Roma cristiana, e
la chiesa più antica, quella del Velabro, nonché con una serie di innumerevoli
attività minatorie ed attentati incendiari nei confronti dei molti sacerdoti che
hanno raccolto il testimone lasciato da don Puglisi svolgendo il loro ministero
pastorale in parrocchie palermitane.
Don Puglisi deve essere considerato un moderno eroe rivoluzionario in seno alla
Chiesa, cui la società civile deve essere profondamente grata per varie ragioni.
Innanzitutto, per il coraggio dimostrato e per la spinta decisiva che la sua
morte ha impresso al faticoso cammino della Chiesa verso l'aperta abiura della
criminalità mafiosa. Egli era consapevole della pericolosità dell'opera che
stava svolgendo su quel fazzoletto di terra pervaso dall'agire mafioso, e ciò
nonostante non ha mai deflettuto dal proprio ministero nemmeno dinanzi alle
minacce: un esempio di coraggio e di adempimento del proprio dovere, che ha
fatto capire in concreto quanto sia importante il messaggio evangelico e
l'azione preventiva nel contrasto al crimine mafioso, che ha prodotto un effetto
di trascinamento per l'azione di altri sacerdoti. Un gruppo di loro, il giorno
seguente all'omicidio, inviava a Sua Santità una lettera, denunciando il fatto
che continuavano ad esserci preti che non erano «testimoni autentici della
liberazione che Cristo vuole per questa nostra isola». Molti sacerdoti sono
usciti dalle sacrestie, hanno cominciato a svolgere una seria azione di recupero
dei giovani, taluni all'interno di associazioni come Libera hanno attuato una
sistematica attività per diffondere in tutto il Paese la cultura della legalità.
Il nostro Paese deve essere riconoscente a don Puglisi anche perché ha saputo
impartire un insegnamento alla società civile, che conserva una straordinaria
attualità: la necessità della denuncia e del sostegno a chi ha il coraggio della
delazione. È questa la via maestra che occorre intraprendere per organizzare
un'efficace azione di contrasto alla mafia, tanto più importante in questo
momento storico, nel quale, in perfetta sintonia con il ciclo basso dell'impegno
dello Stato, la Chiesa che resiste alla mafia sembra essere oggi tornata sola e
sembra essere caduto per molti nell'oblio il monito e l'anatema del Papa. Solo
con il coraggio della verità da parte di tutti i cittadini si può infrangere
seriamente il muro dell'omertà, perché la vendetta della mafia non può arrivare
a colpire tutti.
testo integrale tratto da "La Repubblica -Palermo" - 15 settembre 2002