speranza per l'Africa
la svolta Storica intesa a Pretoria: Kigali ritirerà le sue truppe e Kinshasa si impegna a fermare i miliziani hutu Ma il Paese resta ancora diviso

Congo, è pace Firma con il Ruanda dopo 2 milioni di morti

di Barbara Uglietti

Qualcuno l'ha definita la guerra mondiale africana e sarà pure una contraddizione semantica ma rende bene l'idea: due milioni e mezzo di morti in quattro anni, otto Stati coinvolti; uno, il più ricco, il Congo, dilaniato politicamente e annientato economicamente, un conflitto senza fronti e sostanzialmente senza confini che ha contagiato, ammalato, quasi ucciso il continente più povero. Comunque sia, è finita, o almeno dovrebbe: ieri a Pretoria (capitale politica del Sudafrica) i presidenti della Repubblica Democratica del Congo (l'ex Zaire), Joseph Kabila, e quello del Ruanda, Paul Kagame, hanno firmato uno accordo di pace. Accordo storico, come si dice, che, indipendentemente dagli esiti a venire (tutti da valutare) e al netto di tante complicazioni, segna una svolta significativa, attesa dal 1994. L'anno del genocidio, dei corpi gonfi e straziati a colpi di machete che galleggiavano ovunque, nella zona dei Grandi Laghi: 800.000 tutsi e hutu moderati uccisi in tre mesi dagli estremisti hutu del Ruanda, i miliziani Interahamwe che poi fuggirono e si stanziarono nel Congo Orientale. Guerra civile, prima, interafricana poi: dal 1998, quando il Ruanda invase la zona orientale del Congo (ricchissima di giacimenti di diamanti, oro e coltan, minerale usato nell'industria aerospaziale, degli armamenti, e dell'elettronica) per tentare di frenare le azioni dei miliziani hutu. L'allora presidente congolese Laurent Kabila aveva chiesto l'aiuto di Zimbabwe, Angola e Namibia; Uganda e Burundi avevano invece appoggiato i ruandesi. Il gioco delle alleanze, instabili e confuse, riconoscibili solo per una comune ferocia di metodo ma così sfuggenti da resistere a qualsivoglia tentativo di contenimento o pressione da parte della Comunità internazionale, è continuato fino a qui. Da tempo Angola e Namibia ne erano fuori; lo Zimbabwe vi ha speso le ultime energie e gli ultimi soldi. Si è poi fatto indietro il Burundi; quindi l'Uganda. Restava, appunto, il Ruanda. Ieri, l'intesa. Lo Stato africano si è impegnato a ritirare le sue truppe dal Congo (tra i 35 e i 40.000 uomini) entro 90-120 giorni. Mentre il Congo si è impegnato a disarmare e arrestare i circa 25.000 ruandesi hutu presenti nella zona orientale dal 1994. Resta da capire come e chi lo farà. Perché i miliziani non hanno proprio nulla da perdere e certamente non si lasceranno cacciare via in modo indolore; perché difficilmente dell'operazione si incaricheranno i soldati del governo di Kinshasa (che, accanto ai ribelli, hanno combattuto e vinto per otto anni di seguito); perché i soldati dell'Onu sono formalmente impegnati (la missione in Congo, Monuc, è ufficialmente passata alla «fase tre»: la Ddrrr, cioè smobilitazione, disarmo, rimpatrio, risistemazione e reintegrazione), ma è tutto da vedere se e come potranno. Kabila, ieri, si è detto ottimista: «Posso certificare le buone intenzioni del Congo e ho fiducia in quelle del governo ruandese», ha spiegato in un'intervista alla Bbc. E, insieme al presidente Kagame, ha chiesto che la Comunità internazionale si impegni in modo più concreto per il processo di pace. Quel che è certo, il Congo (il Congo soprattutto) non ha altre carte da giocare. Esce (almeno questa è la speranza) da quattro anni di guerra nella condizione peggiore che le organizzazioni internazionali riescano a individuare: «catastrofe umanitaria», così si legge nei tanti (e spesso inascoltati) documenti di denuncia.

                                 testo integrale tratto da "Avvenire" -  31 luglio 2002