Idee

Noi, narcisi insoddisfatti

di Vittorino Andreoli

La distinzione tra artificiale e naturale è alquanto ardua perché il termine di paragone – natura – si presta a molte definizione e può essere interpretato in maniere differenti. La natura cambia, non solo per la forza della evoluzione che riguarda ogni essere vivente, dalle piante agli animali, ma anche per una azione diretta dei singoli. Un predatore interviene sulla vita delle specie predate e si può giungere fino alla loro estinzione. Il che accade anche senza considerare l’uomo che si è mostrato un vero bulldozer, capace di sconvolgere e di trasformare, disboscando intere foreste o costruendo dighe che modificano il corso naturale delle acque. Mi pare di poter affermare che l’uomo del nostro tempo tende a farsi sempre più artificiale, fino a smarrire la propria natura, o almeno quella che ha dominato fino ad oggi. Penso che la ricerca spasmodica della metamorfosi artificiale sia tra «le follie del mondo», sempre per stare nell’ambito di quelle variazioni estreme che non trovano cause nel singolo o non solo in lui, bensì nella cultura, nel modo di pensare, dentro spinte extra o sopra individuali. Mi riferisco all’uomo che si munisce di protesi di cui non è dotato naturalmente, che cambia il proprio volto perché non si piace e per questo va in una clinica estetica, che assume sostanze per raggiungere una potenza muscolare di cui non è dotato e così sviluppa muscoli da body building, che vince con il doping i cento metri raggiungendo una velocità che, senza quella sostanza, sarebbe impossibile. Artificiale l’uomo che, se manca di un’erezione, usa una pillola che gli dà potenza virile e toglie al pene cinquant’anni di età. È artificiale un vecchio che si mette in jeans e che dopo intrugli vari va a giocare a tennis mostrando un vigore e una volé da campione. Incontriamo un’altra difficoltà, nella distinzione tra farmaco e tossico, o meglio tra uno scopo terapeutico, che toglie un danno, e una somministrazione che invece intossica anche se soggettivamente l’effetto può essere considerato di benessere. Non è facile distinguere un effetto antidepressivo (e la depressione è una malattia da combattere) da uno stimolante. E allora qual è il confine tra terapia e intossicazione? Quale, se si misurano le facoltà mentali e i vissuti che dipendono dal singolo e cambiano da soggetto a soggetto? Qual è il limite tra l’azione antiansia di una droga e invece la dipendenza che toglie all’uomo la libertà? Ma, ancora, come definire la libertà? Ginepraio di questioni che contribuisce non solo all’attuale approdo nell’uso dell’artificiale, ma anche al significato delle azioni umane. Non ci si deve meravigliare allora quando in un simile clima si arriva a discutere se sia lecita l’eutanasia oppure l’aborto. Il contendere di fondo è che cosa sia naturale e cosa, dunque, non vada modificato. Senza aver fondato queste radici, persino il principio della vita entra in discussione e si giunge al desiderio della morte che uno poi ottiene buttandosi dalla finestra mentre qualcun altro vuole reclamare il servizio sanitario per ottenere lo stesso scopo, a spese della mutua. Per ritornare al naturale, persino la vita può apparire un artificio e quindi una condizione su cui intervenire drasticamente e negarla. Il punto centrale di questo ragionamento è, però, psicologico, non filosofico, nè subito etico: e si identifica nell’insoddisfazione. Questa società è fatta di insoddisfatti ed è la cultura stessa a generare un simile stato d’animo di massa e – si sarebbe tentati di dire – generale. na cultura infatti che fa desiderare sempre qualche cosa che non si ha, produce insoddisfazione. Quando si pone la serenità negli oggetti e non dentro l’uomo, si genera insoddisfazione e frustrazione. Se si fonda la forza trainante del mercato nell’invidia per chi ha di più, si riuscirà a incrementare la produzione, ma ancor più l’insoddisfazione, l’infelicità. Una società che presenta il mondo come nemico e il prossimo come un pirata, un extracomunitario come un predatore della ricchezza, genera paura e la paura è insicurezza. Io non conosco nessuno che si dichiari felice di essere quello che è, e sono sicuro che se, in ipotesi, ci fosse, dovrebbe nasconderlo per non presentarsi sotto le vesti del diverso, del folle. Uno che non desidera di più, è fuori del tempo. Ecco: di più, aver di più. La società del sempre di più. Il motore sta l’invidia, e per promuoverla ormai ciascuno di noi afferma di avere ciò che non ha per generare invidia in chi così soffre per la mancanza di ciò che l’altro ha, o dice di possedere. Nel migliore dei casi questo meccanismo porta alla menzogna, come regola dei rapporti interumani e la bugia rende sospettosi e sfiduciati. Un bambino piange perché vuole quello che ha l’amico d’asilo e questa sofferenza la passa alla madre che così glielo regala assieme a qualcosa che il figlio della vicina non ha, e così vince la sfida. Fino a domani, quando parte il contrattacco. Una guerriglia di condomino perenne. L’adolescente non si piace per struttura: odia la casa dov’è, i genitori, e vorrebbe tutto diverso da quello che ha. L’adulto è malato di successo e il successo è esattamente l’arrivare alla posizione che non si è ancora raggiunta. Un delirio a tappe che non finisce mai. E c’è gente che sale nel potere ed è disposta a tutto per la posizione un po’ più avanzata. Pronta, alla fine, a sacrificarsi per occupare il Quirinale. Un mondo di insoddisfatti che tendono a cambiare. Vedo adolescenti stupendi ai miei occhi che vogliono accorciare un naso o aumentare il volume di un seno che non serve a nulla, poiché attaccarvi un figlio sarebbe antiestetico e abbruttente. Conosco vecchie che odiano le pieghe e eliminano metri quadrati di cute per cucirsi ancora addosso una giovinezza artificiale. A parte i denti che tutti hanno almeno rinnovati, a parte il testosterone che gli uomini prendono disperati, a parte gli estrogeni della mestruazione perenne per le donne. È come se domani una farfalla imparasse a invidiare un esemplare di specie diversa, per via del colore più brillante, finirebbe per non volare più con quella eleganza di cui è capace. La voglia di metamorfosi porta a rovinare l’uomo, alla ricerca di dotazioni che non gli competono, artificiali appunto. Come Icaro che voleva le ali. Una società che emargina i vecchi, fa della vecchiaia una menomazione che si vuol nascondere. Eppure ci sono culture in cui i vecchi hanno un senso. E io che sto diventando vecchio, sono contento di appartenere a questa fase dell’esistenza e voglio tessere un elogio della fragilità, del bisogno dell’altro, dell’importanza dei legami stabili che servono particolarmente ora. E se un giovane pensasse anche a questa età e non la dimenticasse, allora imparerebbe che una moglie vecchia è straordinaria più di una aitante giovanetta dell’avventura e cercherebbe una compagna della vita non per il fine settimana, la donna da discoteca. Una società che offra un modello solo estetico dell’adolescente, genera un’insoddisfazione proporzionale al suo scarto rispetto al modello e se non conta né il sapere, né l’onestà, allora si darà da fare per ottenere artificialmente ciò che gli manca e nemmeno si chiederà cosa abbia. e la propaganda è: «o il motorino o la morte», allora un giovane può essere un forziere di talenti, ma li spreca e cerca il motorino, magari lo ruba. Se la cattedrale del tempo presente è un televisore colorato che passa omelie di successo idiota, è inutile ricordare che un Cristo è la «via», dovrebbe andare almeno con una station wagon. Qual è il potere di convincimento di un sacerdote rispetto a quella che mostra la felicità di indossare una griffe per il successo sulla spiaggia? Come può attrarre un monastero se compete con le isole Seychelles? Ma anche la lettura di un Dostoevskij, quando tutti citano soltanto i seni della Ferilli e gli scritti di Giobbe Covatta, o i pensieri di Celentano invece che di Blaise Pascal?

E si continua a parlare di «quel giovane» o «dei giovani», e non della follia che prende almeno tutta la società.

 La stupidità della società, la follia del mondo. Già. Insomma, i desideri del tempo presente sono artificiosi e generano chimere di uomini che non sanno più riconoscersi e si definiscono per le loro prestazioni, non per il significato di pellegrini del mondo alla ricerca di un mistero.

testo integrale tratto da "Avvenire"  30 Luglio 2002