|
Le
questioni poste da Giovanni Fiandaca dalle pagine di questo quotidiano
richiedono una valutazione assai attenta. Naturalmente il confronto su temi come
questi, che talvolta rischiano di appassionare e dividere, deve essere
improntato a un dialogo sereno e rispettoso dell'altro.
Ma veniamo al merito della questione. È vero, alcuni studiosi utilizzano il
paradigma della globalizzazione per sostenere che Cosa nostra, come le altre
mafie del nostro Paese, è in una fase di declino. A conforto di tale ipotesi si
mette in luce il rapporto mafiaterritorio, visto anche questo come sintomo di un
ancoraggio al passato.
Stesso ragionamento, sempre secondo costoro, vale per la presenza delle
organizzazioni criminali nel campo del racket e, in una certa misura, anche
della gestione degli appalti pubblici.
Devo dire con molta onestà che non mi trovo affatto d'accordo con questa
possibile analisi.
Cosa nostra, infatti, è stata sempre capace di mettere insieme una certa
tradizione e una certa innovazione e di adattarsi alle trasformazioni che via
via il contesto politico, economico e politico andava esprimendo.
Lo stessa cosa accade oggi.
La mafia di oggi non è in declino, anzi è in
piena sintonia con due bisogni entrambi espressione dell'attuale dimensione,
contraddittoria e ambivalente, della modernizzazione: territorialità e
globalizzazione.
La territorialità
non è di per
sé segno di arretratezza, anzi in tutto il mondo essa è il più delle volte punto
di forza per attivare forti processi economici e sociali.
La
territorialità
quindi può essere elemento di appartenenza
positiva, di radicamento culturale, di autosviluppo sostenibile e a misura
d'uomo.
Dall'altro lato, spesso, questa
dimensione si trasforma in localismo asfittico, in appartenenza chiusa, in
fattore di esclusione e di conflitto regressivo, dove le diverse organizzazioni
criminali svolgono una funzione devastante.
La mafia sa utilizzare la categoria della
territorialità nella seconda accezione.
Ad esempio, il racket viene
imposto oggi con una modalità diversa rispetto al passato: la mafia oggi chiede
il "pizzo" per offrire una sorta di falso servizio di "protezione". La minaccia
e la violenza diventano così solo una sorta di estrema ratio e non, come
accadeva prima, quasi una precondizione.
La stessa infiltrazione nel settore degli appalti
è vissuta per mettere insieme controllo del territorio e affari, dimensione
collusiva con le istituzioni e con l'economia e capacità di rimotivare
l'appartenenza mafiosa dei propri affiliati.
Tali attività che
anche sul versante economico non sono affatto residuali, visto il loro carattere
pervasivo e capillare.
I dati sulla gestione degli appalti parlano di un
controllo quasi assoluto del settore. La mafia, infatti, è in grado di
controllare a monte le gare e a valle la gestione dei cantieri. E
persino le piccole opere pubbliche non sfuggono a questa funzione di radicamento
territoriale, senza la quale di certo non vi sarebbe stata e forse non vi sarà
Cosa nostra in futuro.
Tale radicamento ha consentito all'onorata società di superare la fase
repressiva scaturita dalla stagione delle stragi. Così pure di limitare i danni
causati da un certo rigetto generalizzato verso di essa che, in una certa fase
della nostra storia, vi è stato nella società.
Per analizzare la forza delle mafie non dobbiamo,
quindi, contrapporre la territorialità alla globalizzazione. La
'ndrangheta, ad esempio, ha saputo proiettarsi nella globalizzazione solo perché
fortemente radicata nel territorio.
L'elemento stesso della tradizione per selezionare i propri affiliati nel
contesto rigido delle famiglie mafiose le ha permesso di arrestare la possibile
emorragia dei collaboratori di giustizia e non le ha impedito, di contro, di
lanciarsi nel mercato internazionale degli
stupefacenti.
Cosa nostra ha anche un altro punto di forza che la rende assai lontana dal
supposto declino.
Ed è la sua capacità di "fare sistema", cioè di puntare contemporaneamente alla ricchezza e al potere e di mettere insieme aspetti politici ed economici, sociali e culturali, organizzativi e militari.
Da qui la necessità di operare un salto culturale e altrettanto sistemico nel contrasto alla mafia.
Dobbiamo quindi colpirla sia nella sua dimensione territoriale che in quella globale costruendo, ad esempio, un omogeneo spazio giuridico europeo e internazionale. Nello stesso tempo è necessario costruire una progettualità ampia e in grado di saper procedere sui diversi versanti: repressivogiudiziario, economicofinanziario, socialeculturale e, infine, politicoistituzionale.
Tale lavoro va realizzato cercando di comprendere per tempo e quindi di
anticipare tutti i potenziali conflitti oggi esistenti e che rischiano di farci
ripiombare in un'ennesima stagione di violenza. Sappiamo che i fronti aperti
sono almeno tre.
Quello fra la mafia che sta "dentro" le carceri
(con boss di calibro che devono scontare pene pesanti e con il regime del 41
bis) e quella che ne sta "fuori" e che, tentando di
"inabissarsi", fa affari e si arricchisce.
Quello, inoltre, fra Cosa nostra e quei politici,
oggi sotto tiro, che assai probabilmente hanno "trattato" o hanno fatto
"promesse" adesso difficilmente mantenibili.
E quello,
infine, fra la mafia e chi (magistrati, giornalisti, esponenti della società
civile, politici) la combatte con rigore, perseveranza e coraggio.
Giuseppe Lumia
deputato
nazionale
e capogruppo Ds
in commissione Antimafia
testo integrale tratto da "Repubblica - Palermo" 7 agosto 2002