Una provocazione che si fa esame di coscienza
Poveri invisibili. Per tutto il sistema
di Domenico Rosati
I poveri, questi sconosciuti. Ci sono. Tanti, anche se diversi da quelli di ieri. Statistiche, rapporti, analisi di sicuro affidamento. Ma dei poveri, chi si occupa davvero con l'attenzione assidua e l'impegno severo che la loro presenza richiede? Giovanni Berardelli, sul "Corriere della Sera" di ieri chiama in causa il declino di sensibilità sociale di una sinistra venuta al mondo per patrocinare i diseredati e ormai ridotta, o rassegnata, a tutelare i diritti acquisiti di quelli che…li hanno acquisiti. E gli altri? Spazzatura da nascondere sotto il tappeto buono? La questione è fondata ma, posta in tali termini, riduce il campo e compie una semplificazione eccessiva. Non ci sarebbe motivo di cedere all'angoscia se la bandiera della giustizia sociale fosse raccolta da altri, su altri versanti. Ma non è così. Semmai, il dato della denuncia induce a rilevare - e qui senza neppure un giudizio di valore - un calo di densità della vocazione sociale di tutta la politica sulla frontiera della lotta all'esclusione. Ed anche - perché negarlo? - un deperimento, di fatto, degli strumenti di effettivo intervento in quella direzione. Lasciando in disparte la disfatta dell'esperimento sovietico, estraneo alla tradizione democratica dell'Occidente, si deve allora constatare che qui il nodo della povertà non è stato finora sciolto né con le ricette del capitalismo originario (l'effervescenza diffusiva della ricchezza), né con quelle del capitalismo riformato (lo stato corregge in senso perequativo), né infine con quelle del capitalismo restaurato (competitività e flessibilità), oggi alla prova in gran parte del mondo sviluppato. Se poi agli scenari dei Paesi dell'abbondanza si aggiungono le cifre di quelli della miseria e della fame, la sensazione di smacco si fa ancora più cocente e persuasiva. Ma c'è coscienza di ciò ?
Da anni è in campo, a livello scientifico, l'invito a
leggere il sistema sociale, interno e internazionale, come un edificio di
quattro piani sovrapposti: gli esclusi, i precari, i garantiti, i
privilegiati.
Con
movimenti interni limitati. Passare dall'esclusione al precariato e viceversa è
abbastanza facile; meno agevole circolare verso e tra i livelli superiori.
Le tendenze segnalano un'estensione dell'area del disagio
e dell'insicurezza anche perché, come sostiene il sociologo Bauman,
il sistema produttivo, a differenza del passato, non sembra più interessato a
farsi carico della "manutenzione" della forza-lavoro.
Mettere all'ordine del giorno il tema della povertà diventa allora, se non si
vuole imboccare un'improbabile via di fuga, una vera provocazione per l'azione
politica nel suo svolgersi e soprattutto nei fini che si assegna.
Basta la sorveglianza sui meccanismi automatici del mercato o diventa necessario aprire nuove piste di umanizzazione dei modi di produrre, di distribuire, di vivere in comunità? C'è spazio per questa esplorazione nelle maglie strette di una prassi politica sempre più avvezza a specchiarsi in se stessa senza curarsi del destino degli altri? C'è modo, ad esempio, di riaprire il discorso, in Italia, su quel percorso di fuoruscita dall'esclusione che va sotto il nome di "reddito minimo d'inserimento"? Tra i cristiani la ricerca sociale non si è interrotta e tantomeno la testimonianza della carità, in risposta alla domanda dei poveri. Ma proprio tale non insignificante circostanza accresce, per essi, l'obbligo di concorrere a dimostrare che la "povera gente", come la chiamava Giorgio La Pira, è oggi più che mai l'autentica unità di misura, universale, dell'azione politica e dell'esercizio del potere.
testo integrale tratto da "Avvenire" - 9 agosto 2002
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