20/9/2002 - ''La guerra, la paura, la solitudine'' di don Vinicio Albanesi, presidente del C.N.C.A.  


 

C.N.C.A. - Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza

COMUNICATO STAMPA

La guerra, la paura, la solitudine

di don Vinicio Albanesi,

presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza

Ogni giorno diventa sempre più possibile una nuova guerra in Iraq. Non è questo l’ambito nel quale discutere le ragioni che possono giustificare o no un nuovo conflitto: altre voci più competenti e autorevoli possono suggerire i motivi della giustezza o no della guerra che si prospetta.

Pensiamo invece ai cosiddetti “effetti collaterali” che ogni guerra comporta. Chi è avanti negli anni ricorda almeno l’ultima guerra mondiale che ha coinvolto l’Italia, con tutta la serie di tragedie, di solitudini e di sofferenze della popolazione intera. In ogni angolo d’Italia, nelle piazze, nelle cappelle o nei cimiteri le lapidi con i nomi dei ragazzi ricordano i giovani che hanno dato “la vita per la patria”, i racconti dei sopravvissuti descrivono le sofferenze patite. Noi abbiamo sperimentato direttamente l’ultimo conflitto in Kossovo, avendo dato aiuto alle popolazioni di quel paese rifugiate in Albania, nei “campi profughi” che rimangono terribili, nonostante ogni sforzo di renderli umani.

La prima reazione che ti raccontano è la paura. La paura di morire. Nelle guerre moderne non muoiono più i soldati, ma la semplice popolazione. Che un villaggio, una famiglia o una persona si ritrovi in mezzo al rischio di vita è un dato assoluto, non gestibile. Dipende dalle operazioni militari, dallo svolgimento del conflitto, da circostanze alle quali si può rispondere solo scappando. E guai a trovarsi in un “territorio” dove si svolge un vero e proprio conflitto. Scappi come un animale, non sapendo se una bomba, una granata, un missile o un cecchino mette fine alla tua vita, come il fatto più naturale del mondo.

Lo scappare produce un effetto di sbandamento che è interiore, prima che fisico. Non hai riferimenti locali e affettivi. Rimani solo al mondo, perché senza la normalità della vita, della casa, dell’ambiente dove sei vissuto, sei come sradicato. Coloro che soffrono di più questo sradicamento sono i bambini: sembrano normali, continuano a giocare, ma avverti degli improvvisi vuoti. Si fissano muti, pensando a qualcosa che non riesci a decifrare. È la paura che, nella fantasia dei piccoli, diventa incubo, ossessione. Ricordo le infinite richieste di visite mediche che gli adulti, ma che soprattutto le mamme chiedevano per i propri figli, nei campi profughi: persone, sane come pesci, che insistevano in malori e sensazioni che non sapevano nemmeno loro descrivere. Ma anche senza malori, la visita medica aveva l’effetto di placare la paura.

Impressionante è anche la solitudine che la guerra comporta. Tra la popolazione inerme non è vero che scatta la solidarietà. Sradicato dal proprio ambiente, ognuno è costretto a sopravvivere. L’ansia di non farcela, le effettive condizioni di povertà portano all’isolamento più totale, con la conseguente diffidenza verso tutti, anche perché la guerra produce una diaspora molto più grave di quanto si immagini. Chi è costretto a scappare sceglie una propria strada che lo isola dal resto degli amici e dei conoscenti. Sono le donne, i bambini e gli anziani a costituire il nucleo delle vittime. Gli uomini adulti sono sempre lontani a combattere; rimangono i deboli, costretti a badare da soli a se stessi.

La solitudine produce il torpore della vita, che porta la popolazione profuga a sopravvivere. Non c’è iniziativa od occasione che possa scuotere i lunghi giorni o mesi di permanenza lontana dalla propria casa. Gente attiva, concreta, abituata nella vita normale a lavorare, improvvisamente si fa esigente, passiva, incapace di organizzarsi. L’unico pensiero che rimane è quello del ritorno alla propria casa; comunque sia ridotta, comunque esista.

Quando scoppiò “la pace” in Kossovo, i primi a partire furono coloro che avevano un’automobile. La radio e la televisione avevano annunciato che sarebbe stato dato l’ordine di rientro solo dopo aver verificato le condizioni minime di permanenza. Non ci fu nulla da fare: chi aveva possibilità ripartì immediatamente, incurante dei probabili pericoli. Ricordo che fui circondato, il pomeriggio dell’annuncio di pace, da un gruppo di donne sole con i bambini. Mi chiesero esplicitamente di rientrare. Alle mie osservazioni che dovevo rispettare gli ordini del possibile rientro, si fecero minacciose. Mi gridarono che solo perché erano donne sole e povere mi stavo permettendo una ingiustizia.

Capii l’ansia di quel momento. Promisi che avrei trovato dei pullman e dei camion e appena possibile sarebbero partite. Mi sorrisero e mi ringraziarono. Qualche giorno dopo andammo nel Kossovo e trovammo solo macerie. Nonostante questo la gente era più serena: aveva ritrovato quel minimo che desse speranza di vita e di futuro.

Non sappiamo se la guerra scoppierà in Iraq e quale andamento concreto prenderà. Conosciamo le sofferenze della popolazione e sappiamo che sono uguali in tutto il mondo. Per questo, con tutte le nostre forze, speriamo che non scoppi. Che colpa può avere la stragrande parte della popolazione per ingiustizie di cui è vittima, prima che promotrice?

Roma, 20 settembre 2002

Per informazioni: Ufficio stampa C.N.C.A. - Laura Badaracchi tel. 06/44230395 - fax 06/44117455 - cell. 339/5397805; e-mail laura.bad@libero.it

www.cnca.it