COME COMBATTERE LE TOSSICODIPENDENZE
La repressione non basta

di Don Luigi Ciotti

Dall'ultima Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, nel luglio scorso, arrivano luci e ombre. Nel 2001 i decessi per droga sono diminuiti (822, erano 1016 nel 2000), ma due persone su tre erano sconosciute ai servizi. Si diffondono la cocaina, soprattutto tra gli adulti, gli episodi di ubriachezza e l'uso di droghe «ricreazionali» tra i giovani. Ritratto di una società dove il consumo di sostanze ha più di un significato: un'illusoria via di fuga verso un mondo a parte.

Il tentativo di aderire meglio a questo mondo, aumentando le proprie performance e sentendosi all'altezza. Una ricerca di sé che non trova altri luoghi per dirsi, come nel caso di molti ragazzi e ragazze. Basterebbe bloccare il circuito della droga una volta per tutte, può pensare qualcuno, per evitare la diffusione di queste forme di dipendenza. Se la repressione fosse più dura, la tolleranza azzerata, non staremmo ogni anno a contare i tanti amici che ci hanno lasciato (dieci sono morti per overdose in questa triste estate torinese), ogni sabato sera a trattenere il fiato per i nostri figli.

Ma basterebbe? Difficile crederlo, anche se è rassicurante pensarlo. Perché se anche riuscissimo a tagliare i canali del narcotraffico (obiettivo indispensabile per cui magistratura e forze dell'ordine da anni lavorano duramente), ma non affrontassimo il nodo che è legato alla persona e ai suoi mondi - una questione che sta sempre prima, molto prima della sostanza - non avremmo risolto il problema. Mettere la persona al centro significa oggi interrogarsi sulle possibilità di essere uomini e donne in questa società. Su quanto il consumo di droghe, oggi, abbia a che fare con modelli culturali centrati sulla prestazione, sulla ricerca del piacere, su un consumo individuale che ti fa sentire parte della società.

Vuol dire ragionare sullo scarto tra le mille opportunità che il mondo sembra metterti a disposizione, e la vita che non propone se non incertezze, iter di studio inadeguati, lavori precari. E sulla sofferenza che questo scarto produce. Perché se i conti alla fine non tornano, si crea un «vuoto» che va riempito in qualche modo. Ma vuol dire anche interrogarsi sulle nostre relazioni quotidiane. Quanto gli adulti sanno ascoltare i ragazzi, dire dei no spiegando il perché ma anche proporre, e soprattutto essere coerenti tra ciò che chiedono e ciò che praticano?

E viceversa, quanto i ragazzi sono capaci di interrogare fino in fondo una cultura che li vuole consumatori irresponsabili, quanto cercano di coinvolgere anche gli adulti nelle loro inquietudini e ricerche? Non basta allora - anche se è necessario - combattere la droga se poi non si creano le condizioni perché le persone trovino dentro di sé un significato, un obiettivo, un fermento, la forza per affrontare le proprie fatiche e darsi un progetto di vita. Oggi il rischio di ristagnare in un presente opaco riguarda anzitutto i giovani.

Le città devono ascoltare la domanda di senso, di valori, di prospettive, che sale dai ragazzi, almeno quanto ascoltano le richieste di sicurezza che provengono dagli adulti. Mai come in questo momento è responsabilità di una città aiutare le persone in ricerca a trovare, con autonomia e non in modo artificiale, questi significati. Ma è responsabilità anche non criminalizzare chi è coinvolto e travolto dalla fatica. Quei due terzi di persone morte l'anno scorso, nascoste ai servizi e alle comunità, sono un triste richiamo alle persone a essere più attente e alle città a farsi più inclusive.

Fondatore del Gruppo Abele

 

testo integrale tratto da "La Stampa" - 21 settembre 2002