11 settembre, una storia ancora da raccontare Molti misteri dietro la ricostruzione ufficiale degli attentati di un anno fa

11 settembre 2002

 

di Giulietto Chiesa



UN anno dopo i dubbi sull’11/9 sono diventati più grandi di quanto non fossero subito dopo la tragedia. A dubitare, sulle spiegazioni finora fornite, circa la genesi dell’attacco all’America non sono soltanto gli esperti del mondo arabo. Decine di libri sono stati pubblicati nel frattempo, migliaia di pagine del web sono state scritte, piene di versioni che contraddicono quella ufficiale.

Alcune sono fantasiose, altre sono inquietanti, perché assai documentate. Alcune di queste versioni sono uscite anche sulla grande stampa americana, per poi sparire nel nulla subito dopo, quasi che una mano pesante fosse intervenuta per cacciarle in un qualche limbo. Eppure non è inutile riesumarle, ricordarle, in un’atmosfera di guerra imminente in cui la tentazione universale è quella di evitare ogni riflessione.

Quattro giorni dopo il «grande colpo» inflitto agli Usa vennero comunicati al mondo i nomi di diciannove kamikaze. Fantastica velocità, applicata in ritardo, che induce molti a pensare che il gruppo fosse stato individuato da tempo, cioè fosse sotto controllo, ma non fosse stato fermato. Perché? Si è detto che il 9 settembre il presidente Bush avesse sul suo tavolo, pronto per essere firmato, un ordine di attacco contro l’Afghanistan. Non firmò. Cosa si stava aspettando? Quello stesso giorno, in quelle stesse ore, nella lontana valle del Panshir, veniva assassinato Ahmad Shah Massud, il capo dei tagiki dell’Alleanza del Nord.

Assassinio straordinariamente tempista, che aveva come obiettivo l’uomo decisivo per condurre la guerra in Afghanistan con il sostegno dell’aviazione Usa. Che all’assassinio abbiano contribuito spezzoni dei servizi segreti pakistani e sauditi è altamente probabile. C’è un rapporto tra quel documento sul tavolo di Bush e la morte di Massud?

Tutto sembra indicare che, in quelle ore, fosse in atto una vera e propria corsa contro il tempo, in cui gli uni e gli altri conoscevano parzialmente le reciproche mosse. Molti analisti ritengono che lo schema semplificato di un attacco di sorpresa non corrisponda a questi dati. E’ in corso a New York il processo contro il, per ora presunto, ventesimo kamikaze. Si chiama Zacarias Moussaoui. Fu arrestato il 16 agosto 2001 a Eagan, Minnesota.

Il cittadino americano che dirigeva la locale scuola di volo della Pam Am lo aveva segnalato all’Fbi. E il locale ufficio dell’Fbi aveva provveduto ad arrestarlo. Ma il dossier, inviato a Washington, rimase fermo in qualche ufficio. Come se ci fosse stato qualcuno, da qualche parte, incaricato di insabbiare, bloccare. Il sospetto è tanto evidente che gli agenti Fbi che arrestarono Moussaoui hanno pubblicamente denunciato gli uffici centrali per la loro incuria. Solo incuria?

C’è chi avanza insinuazioni più gravi, ed è persona che non è saggio sottovalutare, perché di queste cose s’intende. Si tratta del generale-presidente pakistano Pervez Musharraf, che ha recentemente (e sorprendentemente) tirato le somme: «Osama bin Laden non può aver fatto tutto da solo.

Non si organizzano cose di questa complessità da una grotta afghana. Gli organizzatori dovevano conoscere molto bene le difese aeree degli Stati Uniti». Anche quella che concerne la cattura, nei giorni immediatamente precedenti l’11 settembre, di un gruppo nutrito di «studenti israeliani». Nella popolare trasmissione di Fox Tv, «Carl Cameron Investigates», si parla di 120 arresti. Un giornalista di «Le Monde» chiede di avere il transcript della trasmissione, che nel frattempo è sparito anche dal sito internet.

Infine, particolare di estrema importanza, alcuni di quegli «studenti», più di un terzo del totale, aveva dichiarato di risiedere in Florida; almeno cinque di loro erano stati intercettati a Hollywood; due a Fort Lauderdale. Dettagli importanti, perché almeno dieci dei kamikaze islamici avevano preso alloggio in Florida, altri a Hollywood, altri ancora proprio a Fort Lauderdale.

L’America è grande, le coincidenze sono fantastiche. Possiamo sospettare che gli agenti israeliani stessero pedinando i terroristi? Anche loro? Cosa sapevano? Ne informarono gli americani? Un’altra rivelazione (rimasta invece fuori dai grandi media americani, ma mai smentita) riguarda le notizie che, nei giorni immediatamente precedenti gli attentati, precisamente tra il 6 e il 10 settembre, le compagnie aeree American Airlines e United Airlines erano state oggetto di speculazioni azionarie tanto massicce da risultare evidenti alla Borsa di Chicago. Basti un solo esempio.

Le «put options» contro United Airlines (contratti futures che consentono grossi affari a chi si aspetta un crollo) si erano moltiplicate di novanta volte il normale (da sottolineare: non del 90% più del normale, proprio novanta volte) tra il 6 e il 10 settembre. Impossibile supporre che la Cia non fosse in grado di individuare questi movimenti.

Si sa che la centrale americana ha da tempo in funzione dei softwares molti sofisticati, in grado di registrare immediatamente movimenti di Borsa sospetti, proprio in funzione antiterrorista. E che dire della storia dell’antrace? Un certo «signor Zeta» fu messo sotto controllo in ottobre. Si trattava di un cittadino americano con «stretti legami con la Cia, il Dipartimento per la Difesa e il programma di bio-difesa degli Stati Uniti». (Questa e le successive virgolette si riferiscono ad un articolo del «New York Times», firmato Nicholas D. Kristof).

C’erano sospetti che il «signor Zeta» avesse una «connessione con la più vasta epidemia di antrace mai verificatasi, che colpì più di 10 mila farmers dello Zimbabwe dal 1978 al 1980». Poiché «ci sono prove che l’antrace fu diffuso dall’esercito dei bianchi rhodesiani», e poiché si sa che il «signor Zeta» era all’epoca arruolato nelle squadre speciali dell’esercito dei bianchi, chiamate Selous Scouts, ci si domanda come mai nel ministero della Difesa «avessero deciso di assoldare un americano che aveva servito nelle forze armate di due regimi razzisti».

Il «signor Zeta» ha avuto finalmente un nome soltanto lo scorso agosto. Si chiama Steven Hatfill e si proclama innocente e buon patriota. «Intervistato» quattro volte dall’Fbi è sempre stato lasciato in libertà e lo è ancora, sotto cauzione.


testo integrale tratto da "La stampa" - 12 settembre 2002