Immaginando la
lapidazione di Amina, madre nigeriana
UNA PIETRA SOPRA
di Dacia Maraini
I
giudici del tribunale religioso hanno confermato la condanna alla lapidazione
per Amina Lawal, la giovane madre che ha avuto un figlio fuori dal matrimonio.
Del perché, in un Paese democratico e in parte cattolico e animista, debbano
essere gli inquisitori islamici a emettere sentenza di morte contro una
cittadina della Repubblica, è un mistero. Ovvero sappiamo, per conoscenza
storica, che appartiene a quel genere di abusi per cui anche da noi
l’Inquisizione invadeva e utilizzava i luoghi del giudizio civile per condannare
a morte qualsiasi cittadino che non si sottoponesse alle leggi della Chiesa. La
magistratura civile acconsentiva e i governi e lo Stato tacevano imbarazzati,
come succede oggi in Nigeria. L’Inquisizione usava la tortura e il supplizio in
nome di un dio severo e vendicativo. I cattolici più sensibili e ragionevoli non
approvavano, comprendendo la natura arbitraria e violenta, spesso fine a se
stessa, di tale rigore cieco e morboso che non corrispondeva agli insegnamenti
del Cristo.
Così oggi chi ama veramente il Corano si ritira scandalizzato di fronte a questa
interpretazione faziosa, spietata e ingiustificata del giudizio divino. C’è
sempre un dio sanguinario e feroce dietro a queste pratiche di potere. Erano i
più deboli e i più umili che pagavano allora sotto l'Inquisizione, e ancora oggi
sono i più deboli e i più umili, le donne soprattutto, in un regime patriarcale
e teocratico, le vittime preferite dell’intolleranza religiosa.
Per i severi giudici della Sharia dovranno essere i compaesani di Amina Lawal a
scavare la buca in cui seppellirla. E questo certamente per renderli complici.
Non basta condannare l'adulterio infatti, ma si dovrà diventare boia fra i boia
ufficiali, per eseguire una punizione che viene anticipata come collettiva.
Tutti conniventi e tutti partecipi, nessuno risulterà innocente di questa
condanna a morte. Con la ferocia di un rito arcaico, la donna sarà calata nel
fosso scavato dai suoi stessi concittadini, da coloro che la conoscono, che
l’hanno vista bambina, e poi adulta, giovane sposa e poi madre. Da coloro che
hanno lavorato la terra con lei, che hanno mangiato con lei nei giorni di festa,
che hanno raccolto la legna, trasportandola poi per chilometri chiacchierando
d'amore, gli stessi con cui è andata mille volte alla fonte per prendere l’acqua
per cucinare e lavare. Ci sarà pure l'uomo che si è giaciuto con lei, ma che non
verrà punito, perché la legge religiosa non lo ritiene responsabile.
I giudici controlleranno che il corpo della giovane donna sia ben sepolto nella
fossa verticale, lasciando allo scoperto solo le spalle e il collo che dovranno,
assieme con la testa, fare da bersaglio alle pietre. Le braccia saranno ben
serrate sotto la terra, in modo che la donna non possa difendersi, proteggersi
gli occhi, la fronte, la bocca.
A questo punto comincerà il lancio delle pietre che saranno raccolte e
ammonticchiate da una parte. Qualcuno avrà pure calcolato quante pietre
occorreranno per darle la morte. E non saranno pietre troppo grandi che la
ucciderebbero subito, nè troppo piccole che la ferirebbero soltanto. L’agonia
dovrà essere prolungata e spettacolare. Dovrà pur imparare qualcosa la
peccatrice prima di morire, no? Ma soprattutto dovranno imparare le altre donne
che rimarranno in vita, ma attanagliate per sempre dalla paura.
Si può immaginare che le tante persone che conoscono Amina e l’hanno vista
crescere, rimarranno un poco incerte, un poco perplesse: come colpire una vicina
di casa, la loro amata nipote, la loro cugina, la compagna di giochi, a
pietrate? Qualcosa di umano si muove nelle loro coscienze addormentate:
veramente Allah vuole che noi uccidiamo questa donna solo perché ha avuto un
figlio? Ma ci sarà il guardiano della Sharia che inciterà a procedere: dirà loro
che il mondo si è guastato, la corruzione è entrata nelle case come una serpe,
bisogna scovare questa serpe, schiacciarle la testa e scuoiarla per il bene di
tutti. Quindi agguanterà con una mano una pietra, la prima, e la lancerà
prendendo la mira. Starà attento a non colpire la condannata sulla fronte né
sulla nuca. Lo spettacolo finirebbe subito. Quindi centrerà l’attaccatura dei
seni, lì dove la giovane madre ha tenuto abbracciato il figlio perché si
abbeverasse al suo seno. Quel figlio che, per volere di un dio insensato, da
domani rimarrà orfano e solo.
Di fronte all’inerzia un poco pavida degli astanti, sarà forse un ragazzo ad
afferrare con qualche titubanza e una smorfia di piacere un’altra pietra. Nella
sua mente resiste preciso il ricordo di un ceffone datogli dalla donna il giorno
che aveva sporcato un suo vestito appeso al sole. La pietra arriva rapida,
potente e colpisce la donna sul naso. L’effetto è proprio quello desiderato dai
giudici. La donna non ha ferite da suscitare pietà, ma il suo naso sanguina e il
sangue prende a colarle copioso sul mento, sul collo, sul seno. Questo sì che è
uno spettacolo degno di essere osservato! Il sangue chiama sangue, si sa, gli
animi si surriscaldano e le pietre cominciano a volare rapide e precise.
Ma smettiamo di immaginare una scena che ancora è lontana da venire e che
speriamo davvero che non avvenga mai. Se ho insistito sulle immagini è perché le
parole spesso sono troppo astratte. Lapidazione: tutti la pronunciano questa
parola, ma non sanno bene come si svolga la cerimonia arcaica.
Il diritto di immaginazione è quello che fa l’uomo libero. Le religioni infatti
temono come la peste l’immaginazione che fa maturare desideri illeciti, suscita
dubbi, cova intelligenze segrete. Io chiedo ora, in nome di questa immaginazione
e della pietà che la anima, di muoversi, di darsi da fare con lettere e
telegrammi all’ambasciata nigeriana in Italia o al ministero degli Esteri a
Lagos, per impedire che lo scempio si compia.
testo integrale tratto da il "Corriere della Sera" - 22 agosto 2002