LIBIA, SOLO ANDATA
Nel
2003 il Governo italiano ha finanziato la costruzione di un campo di prigionia
nel nord della Libia, e un programma di voli charter della Air Libya Tibesti e
della Buraq Air per il rimpatrio verso i paesi d’origine per gli “immigrati
illegali”.
Nella
finanziaria 2004-2005 è stato previsto uno stanziamento speciale per la
realizzazione di altri due campi nel sud del paese, ad Al Kufr, al confine con
l’Egitto sulla rotta per il Sudan e uno a Sebha, anch’esso nel deserto.
Tra
novembre e dicembre del 2004 una missione tecnica (capo delegazione è Marc
Pierini) della Commissione europea ha visitato varie zone del paese e i campi in
questione. Alla missione hanno partecipato gli inviati di 14 paesi della Ue (per
l’Italia Renato Franceschelli, capo dell’Unità affari internazionali del
ministero dell’Interno, e Angelo Greco, ufficiale di collegamento della
polizia all’ambasciata italiana a Tripoli) e un funzionario dell’Europol del
Dipartimento reati contro la persona.
La
missione ha verificato che tra l’agosto del 2003 ed il dicembre del 2004 con
47 voli la Libia ha espulso 5688 persone verso Egitto, Siria, Pakistan, Niger,
Nigeria, Ghana, Bangladesh, Mali, Sudan ed Eritrea.
Se
per ognuno dei 47 voli sono indicati numero, nazionalità e destinazione degli
espulsi, per i rimpatri non registrati e quelli fatti a bordo di camion e
furgoni attraverso il deserto si sa forse in quanti partono ma non si sa in
quanti arrivano.
Soltanto
nel mese di febbraio le espulsioni sono state 14000 ed hanno causato 106 morti
accertati.
Tra
le persone espulse vi erano sia clandestini deportati da Lampedusa che immigrati
che in questi anni avevano trovato lavoro in Libia. Gheddafi sta infatti
utilizzando i finanziamenti e le strutture concessigli dal governo italiano
anche per fare rastrellamenti di pulizia etnica nel suo paese.
Gli
internati del campo di Sulman, completamente iso-lato dalla popolazione, sono
circa duecento provenienti da Niger, Ghana e Mali, e vivono in Libia dalla fine
degli anni 90 con un lavoro regolare. La loro deportazione è stata decisa sulla
base della loro nazionalità cioè dei voli pagati dall’Italia.
Nei
campi come Sulman, Ghat (al confine con Niger e Algeria) o come quello di
Tripoli, in El Fatah Street, ci sono anche intere
famiglie o bambini orfani; ci sono immigrati che decidono
“volontariamente” di tornare nel proprio paese e che restano internati finché
le loro pratiche non siano state sbrigate e non ci sia un volo o un camion
disponibile...
In
questi campi, come ha testimoniato qualcuno che è riuscito a fuggire e a
ritornare in Italia, gli internati ricevono un piatto di riso al giorno e acqua
ogni due.
Ovviamente
la Commissione era già a conoscenza di tutto anche prima della missione, che è
servita da cuscinetto alle critiche sulla questione delle violazioni dei diritti
umani in Libia e in Italia, mentre quest’ultima si adoperava per far passare
la sua linea (e quella maltese), cioè quella della collaborazione con la Libia
e di una condivisione degli oneri finanziari con gli altri paesi della Ue, in
contrasto con lo scetticismo di Francia, Germania e Svezia, preoccupate
dell’inaffidabilità di Gheddafi.
Una
seconda missione partirà a giorni per gettare le basi di una più ampia intesa
con Gheddafi su “formazione del personale amministrativo e di frontiera;
controllo delle acque tramite un’unità operativa temporanea con navi ed aerei
degli Stati mem-bri e centri per i rifugiati”.
Da
parte sua il leader libico, definito da Berlusconi “leader di libertà”, si
è impegnato a prendere in considerazione l’ipotesi di sottoscrivere la
Convenzione di Ginevra (formalità presentata dagli europei come la ragione
della cooperazione) e ad aderire al processo di Barcellona, per la cooperazione
dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Già
da subito l’accordo con la Libia fa parte a tutti gli effetti della strategia
dell’Aja sulla sicurezza interna.
Adesso
Germania e Danimarca vorrebbero addirittura estendere l’accordo a tutti i
paesi del Mediterraneo.
Izza Zice
DALLA
SICILIA
Di fronte a due taniche piene di benzina, con timer e innesco, lasciate nella notte tra il 7 e l’8 giugno davanti alla sede della Croce rossa di Caltanissetta, rivendicate con una A cerchiata ed una scritta contro i Cpt – e, secondo alcuni quotidiani locali, un foglio che esprime «solidarietà ad immigrati ed anarchici arrestati» –, non ci sarebbe molto da dire; se non dispiacersi perché non hanno preso fuoco.
Eppure questo piccolo esempio di come sia semplice attaccare il tentacolo di una struttura che gestisce ben sei lager per immigrati in Italia, ha scatenato un piccolo putiferio. Ben cinque comunicati su internet, in cui l’Hurrya di Caltanissetta, la Rete Antirazzista Siciliana, la Federazione Anarchica Siciliana (in un comunicato congiunto con la Fdca e la Fai di Palermo), il C.S. ex-carcere di Palermo e il Network Antagonista Siciliano, esprimono una dura condanna dell’azione.
Nello specifico la Ras e la Fas (e affini), oltre a parlare di provocazione bella e buona, lasciano intendere che il gesto possa essere un’intimidazione di stampo mafioso. Perché poi la malavita organizzata dovrebbe firmarsi con un simbolo anarchico, resta un mistero.
Ricordiamo che la Croce rossa gestisce, insieme alla coo-perativa Albatros 1973, non solo il Cpt ma anche il Centro di prima Identificazione – i centri di Caltanissetta sono quelli col più alto numero d’espulsioni in Italia, ben 905 nel quadriennio 2000-2004.
Questo è solo un esempio di come alcune organizzazioni che a parole lottano contro i Cpt e il razzismo, pur di ostacolare qualsiasi azione sfugga al loro controllo, pur di evitare le attenzioni della polizia, non si facciano scupoli anche nel nascondere le responsabilità della Croce Rossa, per oscurare dei pur modesti contributi alla lotta contro i lager ed il loro mondo.
Paro paro