IN FUGA

Un bel mese intenso quello che va dal 25 marzo al 26 aprile 2004, con quattro episodi di rivolte e successive fughe dal Lager di via Mattei a Bologna.

Il 25 marzo, nel tardo pomeriggio, inizia una protesta provocata dal fatto che tre studenti, nonostante siano in possesso di una certificazione del Consolato che attesta la richiesta del permesso di soggiorno, vengono condotti dentro al Cpt. Qualcuno, dall’interno, manda un segnale fuori che qualcosa sta succedendo. Poco dopo iniziano ad arrivare sulla strada, che dà sulle mura di cinta, diversi “disobbedienti”ai quali presto si aggiungeranno altri solidali. Nel frattempo alcuni immigrati reclusi salgono sul tetto e un gruppo si dà alla fuga scavalcando il recinto di filo spinato aiutati da chi, fuori, ostacola gli sbirri che tentano di fermarli. Sono circa le sette di sera. Le radio di movimento tengono informati e invitano a presidiare il Centro, molti sono ancora sul tetto e ovviamente si teme per i pestaggi che regolarmente iniziano subito dopo le fughe. Sono sedici quelli che riescono a scappare mentre, verso le 21.30, scendono dal tetto gli altri tra i quali una donna che ingoia quattro pile e un ragazzo che mostra una lacerazione ad un braccio. Il presidio, con blocco stradale, che nel frattempo si è andato ingrossando, prosegue fino a dopo la mezzanotte mentre due deputate sinistre entrano nel carcere per assicurarsi, dicono, che non inizino i pestaggi, che naturalmente avvengono nonostante il loro intervento.

La mattina seguente vengono rimpatriati in quattro, tra i quali anche la donna che aveva ingerito le pile. Davanti alla Prefettura di Bologna si organizza un presidio contro il Centro di Permanenza Temporanea e contro le espulsioni, solita musica e soliti interventi. Una sola voce, quella di un ragazzo tunisino, porta un’accusa e un attacco precisi: «Per liberarsi dei Cpt occorre liberarsi di questa società».

L’8 aprile altri sette riescono ad andarsene scavalcando il muro alle 21 aiutati dal buio e da due diversivi: un ragazzo riesce a scappare e viene inseguito, per fortuna inutilmente, nei campi davanti al carcere; nel frattempo all’interno parte una protesta e gli altri, che erano pronti acquattati vicino al muro da scavalcare, si danno alla fuga indisturbati. La caccia ai fuggitivi sarà senza esito. Dopo l’evasione la solita vendetta degli sbirri gabbati, con pesanti manganellate in faccia e in testa a chi capitava sotto tiro, un immigrato viene colpito gravemente alle anche e un altro parlerà, in un’intervista al giornale di Bologna, dell’umiliazione di essere quotidianamente malmenati da ventenni arroganti dentro le loro divise. Il 18 aprile altri otto internati riescono ad andarsene, tra i quali una donna. L’inizio della rivolta è alle 21 quando qualcuno tenta di scavalcare il “gabbione”, una centralina dell’Enel che funge da scaletta; la fuga non riesce ma dopo mezz’ora ci riprovano e questa volta in diversi prendono la via della libertà. Alcuni invece vengono ripresi anche perché l’unica via di allontanamento possibile è attraverso i campi e quindi con un lungo percorso da fare allo scoperto. Intanto esplode la protesta perché un ragazzo è stato gravemente ferito. È un ragazzo tunisino di 23 anni che “cade” dalla recinzione, la cosiddetta tettoia delle rivolte, perché, mentre cercava di scavalcare, i poliziotti sotto battevano i sostegni della rete. In un primo momento le notizie danno il ragazzo in gravi condizioni, il giorno seguente si parlerà di dieci giorni di prognosi per ferite lacero-contuse alla testa. Cosa le avrà provocate? A seguito di una fitta sassaiola lanciata verso gli sbirri, per protesta contro il ferimento del ragazzo e per favorire i fuggitivi, cinque carabinieri e tre poliziotti rimangono feriti. Alle 23 si sentono ancora grida e rumori metallici dall’interno quando un immigrato è ricondotto dentro dopo essere stato ripreso. I soliti macabri rumori di pestaggi. Un uomo pakistano di 35 anni viene purtroppo arrestato e portato al carcere della Dozza. I giornalisti si lamentano per l’ennesima notte insonne dei cittadini della zona. Il sottosegretario al ministero degli Interni visiterà nei giorni successivi il prefetto di Bologna per redarguirlo e invitarlo a una maggiore presenza al fine di garantire la sicurezza e il buon funzionamento del loro Lager in città.

Il 26 aprile c’è un altro tentativo di fuga, alle 22 una ventina di immigrati scavalcano il muro e se ne vanno. Solo uno però riesce a non farsi riprendere, gli altri (dobbiamo al momento ancora capire se la polizia si è organizzata posizionandosi in mezzo ai campi antistanti) sono stati riportati dentro.


IL LAGER DI BOLOGNA

Indirizzo: Via Mattei, 60 Bologna

Gestione: Croce Rossa

Direttore: Roberto Sarmenghi

Direttore sanitario: Dott. Pasquale Paolillo - Via Allende,15 - Calderino Monte S.Pietro (Bo) - Tel. 051/6760116 338/1466999 - Il Dottor Paolillo, specialista in pediatria, è direttore sanitario anche del carcere della Dozza. Nota è la sua frase: «do gli psicofarmaci perché me li chiedono», pronunciata riferendosi alla notizia del gennaio scorso secondo la quale i reclusi di via Mattei vengono sistematicamente sedati grazie a farmaci mischiati al cibo.

Ditta appaltatrice per la ristrutturazione dell’edificio:

CO.GE Spa, via Nobel Alfredo 15/A - Parma - Tel. 0521/60703

CO.GE Costruzioni generali, strada dei Mercati 9 - Parma Tel. 0521/942594

   


  

IL RACCONTO DI UN EVASO

Un pezzo di carta. Un timbro. La firma di qualcuno che non conosci.

Quando lasci il tuo paese, i tuoi familiari, le persone a te care, tutto dovrebbe essere tranne che quell’oggetto insignificante possa improvvisamente determinarti l’esistenza.

Nel cuore della notte loschi figuri fanno irruzione a casa tua e ti ordinano di fare fagotto. Destinazione: via Mattei, alla periferia Est di Bologna.

Una ex caserma militare, completamente ristrutturata in funzione del suo utilizzo come lager per immigrati. Il corpo dell’edificio principale, in cui sono situate le celle dei clandestini, è circondato da una cancellata che delimita lo spazio di massima agibilità per i reclusi. Un secondo sbarramento è costituito da un muro di oltre due metri circondato da filo spinato. Più avanti si trova uno spazio aperto, largo una trentina di metri, a sua volta separato dall’ennesimo muro con l’ennesimo filo. Fuori, le guardie, molto simili a quelle che ti hanno svegliato la notte… Salvo casi particolari, negli spazi di reclusione gli agenti non fanno ingresso. Quando lo fanno, sono sempre cinque o sei, in tenuta antisommossa e molto arroganti. Tra i due sbarramenti e all’esterno della struttura stazionano gli sbirri che fanno da guardia al Cpt, compito in cui si alternano, a turno, polizia, carabinieri e guardia di finanza. L’unica possibilità di fuga è verso i campi, al di là della strada che passa davanti all’entrata, perché ai lati e sul retro il Centro è chiuso dalla suburbana (dopo la quale c’è una sorta di landa desolata con parcheggi ed edifici in cemento con spazi molto aperti e quindi visibili) e da capannoni artigianali a loro volta cinti da alte mura. Nel Centro di Permanenza Temporanea di via Mattei sono rinchiuse diverse decine di persone, divise tra uomini e donne nelle celle. Ma anche “all’aria” c’è un’inferriata che li separa: «Si può parlare, stringere le mani, anche baciarsi, ma sempre con il ferro in mezzo ». Le donne possono uscire solo due ore al giorno quando gli uomini vengono rimandati dentro. È raro trovare pakistani e cinesi dentro il lager che “contiene” soprattutto magrebini, centro africani, zingari ed est europei.

“Fuoco” (così si fa chiamare), un ragazzo tunisino di vent’anni circa, parla del posto dal quale è riuscito a fuggire, uno dei primi a farcela, diversi mesi or sono. Lo scorrere del tempo è segnato dalla noia continua e da un’angoscia latente che riempie i discorsi e le giornate. Ti poni ossessivamente la stessa domanda: «Mi rimanderanno indietro?», che è la preoccupazione più grave.

«Non ti senti niente, non ti senti niente proprio, hai capito? Non c’è voglia di svegliarti perché non c’è niente da fare, niente di niente, solo aspettare tutto il giorno. Aspetti notizie e al 90% pensi che saranno notizie brutte, che ti rimandano a casa».

Quando le guardie vanno a prelevare la gente da rimpatriare lo fanno di notte e così, nei giorni in cui sono previste partenze di navi o di aerei verso i vari paesi di origine, i clandestini non dormono. Nel caso dei tunisini mercoledì e venerdì, perché giovedì parte una nave da Genova e sabato l’aereo da Bologna. Ma anche negli altri giorni si dorme a fatica e in tantissimi si fanno dare dal personale della Croce Rossa presente all’interno del lager (una decina di persone in tutto) dei tranquillanti, che vanno a sommarsi ai sedativi somministrati col cibo. «Io le prime volte li ho presi, per passare un po’ il tempo, ma poi ho smesso perché al mattino mi svegliavo rincoglionito, come drogato».

I pasti, tre al giorno, vengono distribuiti in mensa, ma chi ha del denaro può andare al market del Cpt. Ovviamente i soldi non vengono lasciati in mano ai clandestini, ma registrati e scalati ad ogni spesa extra, ed eventualmente restituiti all’uscita (sempre che non siano stati rubati dagli uomini in divisa al momento dell’arresto, cosa che avviene spesso).

Questa miscela di tedio e paura, unita alla difficoltà di comunicare fra persone che parlano quasi esclusivamente la lingua d’origine, fomenta le divisioni, non solo fra aree geografiche ma addirittura tra città dello stesso paese. Anche dietro le sbarre continua la separazione tra sfruttati e la guerra fra poveri. In diversi casi ci sono stati ferimenti e risse fra i tunisini di Tunisi e quelli di Sfax.

E la gente che fugge? Si organizza in qualche maniera? E dopo, una volta usciti dal Cpt? «Una volta non sapevo di gente che scappa, ma ora la gente sta scappando, anche se non è facile. Ma quando uno ci prova, prova al 100%, perché se lo prendono lo menano e lo riportano dentro. Noi quando siamo scappati, in quattro, eravamo tutti della stessa città, ci conoscevamo bene e ci fidavamo, e credo che anche adesso è così, perché hai sempre paura che qualcuno possa rovinare tutto, però adesso non so». “Fuoco” è stato anche nel Cpt “San Benedetto” di Agrigento. «Via Mattei in confronto è un albergo. Lì faceva proprio schifo. Tutti dentro… come si chiamano quei cosi dove si mette la frutta… – i magazzini – sì, tutti dentro i magazzini, come animali. Senza tetto che se fa freddo hai freddo, se piove ti bagni. I bagni c’erano ma io preferisco fare fuori perché facevano davvero schifo. E poi comunque sei sempre rinchiuso, non sei libero. In questo è la stessa cosa di via Mattei. Dentro via Mattei hai la TV in camera, hai da mangiare, c’è il caffè e le sigarette e la notte stai al caldo. Ma io preferisco dormire tre notti in montagna, senza niente e al freddo, piuttosto che rimanere dentro». E alla fine della chiaccherata, «dovete fare qualcosa – ci dice -, dobbiamo fare qualcosa». Le fughe dal Centro si susseguono ora con notevole continuità, segno forse che all’interno si sta costruendo una comunicazione tra i detenuti. Quasi tutti gli episodi recenti di evasione sono stati caratterizzati da diversivi, proteste, tentativi di scavalcare il muro e ricerca di aiuto dall’esterno, messi in atto per attirare le guardie e dare quindi tempo agli altri di scappare.