Milo Manara nasce il 12
Settembre 1945 a Luson in provincia di Bolzano, città che lascerà
presto per Verona, dove egli vive tuttora in S. Ambrogio di Valpolicella.
Dopo la maturità artistica, si interessa subito alla pittura,
che tuttavia non lo gratifica adeguatamente. Decide allora di guadagnarsi
da vivere, facendo da assistente per alcuni scultori, tra cui lo spagnolo
Berrocal, che risiede in una bella villa seicentesca, non molto lontano
da lui in Valpolicella. E’ proprio durante questa fase di apprendista
che Manara, scopre il fumetto d’autore, sbirciando qualche volume
nella biblioteca di Berrocal, che comprende Forest, Crepax, Eisener
e Hugo Pratt, che fin dal principio lo colpisce più di tutti.
Da allora Manara, che nel frattempo si è iscritto alla facoltà
di Architettura a Venezia, si dedica completamente al fumetto. Le
prime pubblicazioni risalgono al 1969 su Genius,
fumetto giallo-erotico edito da Furio Viano, emulo del più
fortunato Diabolik. Seguono, sulla stessa falsariga,
Terror nel 1970 e Jolanda de Almaviva
dal 1971 al 1973. Si tratta di albi tascabili a basso prezzo, fumetti
popolari decisamente scadenti, realizzati da autori anonimi e destinati
a un consumo facile. Lo stile di Manara in questi anni non ha ancora
raggiunto una sua definizione, anche se in questi lavori si può
già scorgere l’estrema disinvoltura con la quale l’autore
tratta l’anatomia umana e in particolare quella femminile. Nel
1974 collabora con Silverio Pisu alla creazione della rivista satirica
Telerompo, mentre l’anno successivo entra nello
staff del Corriere dei Ragazzi, dove disegna alcuni
episodi della serie Il fumetto della realtà, sceneggiati dal
prolifico Mino Milani.
Nel 1976-’77 pubblica su Alterlinus la sua
prima importante esperienza nel campo del fumetto d’autore:
Lo scimmiotto, su testi di Silverio Pisu.
Si tratta di una storia allegorica e bizzarra, contenente precisi
riferimenti al presidente cinese Mao Tze Tung. Un po’ per via
dell’allusione politica, un po’ per la coincidenza temporale
fra la pubblicazione del fumetto e la morte di Mao (Manara apprende
la notizia alla radio mentre sta disegnando l’ultimo episodio),
la storia fa parlare di sé e conferisce a Manara una certa
notorietà. Tra il 1977 e il 1979 collabora con le edizioni
francesi Larousse a diverse opere di divulgazione storica a fumetti.
L’esperienza prosegue anche in Italia, sotto forma di tre episodi
per la Storia d’Italia a fumetti della Mondadori,
curata da Enzo Biagi.
Nel 1978 avviene una svolta importante nella carriera dell’autore:
sotto l’insistenza dell’amico Hugo Pratt, che lo sprona
a scrivere dei soggetti originali per i propri fumetti, Manara decide
di proporre all’editore francese Casterman un’opera dal
titolo H.P. e Giuseppe Bergman, che viene presto pubblicata a puntate
sull’allora neonata rivista A Suivre.
"Con Giuseppe Bergman ho esplorato il rapporto tra evasione
ed impegno, tra le esperienze vissute direttamente e quelle acquisite
attraverso la letteratura. Un esperimento in cui ho cercato di innestare
le cronache della vita quotidiana, all’interno dell’universo
dell’avventura classica…"
In Italia, la storia si vedrà solo nel 1980 su Totem,
mensile diretto da Alvaro Zerbini (e in seguito da Roberto Rocca)
per l’editrice Nuova Frontiera, di cui Manara diviene presto
l’autore di punta (questo nell’ambito degli autori di
casa nostra, beninteso, visto che la Nuova Frontiera ha avuto fra
l’altro il merito di divulgare il meglio del fumetto spagnolo
e francese, Moebius compreso). Al momento della sua pubblicazione
italiana tuttavia, la serie non riscuote il successo che aveva ottenuto
in Francia, tanto è vero che per i successivi episodi, l’edizione
francese manterrà la precedenza su quella italiana.
Considerata la questione da questa prospettiva, non dovremmo mancare
di notare come, sia pure paradossalmente, autori quali il primo Manara
e poi Giardino, Liberatore ed altri ancora andrebbero forse considerati
quasi più autori francesi che italiani, dal momento che essi
lavorano spesso su commissione di editori francesi e si rivolgono
ad un pubblico francese, peraltro sempre più folto di quello
italiano. Nel nostro paese vengono introdotti poi solo in un secondo
tempo, spesso solo se hanno avuto prima successo all’estero,
acquistandone i diritti di pubblicazione presso gli editori francesi,
quasi fossero veri autori "di importazione". Nel caso specifico
di Manara e di Giardino, tuttavia, il legame con la Francia ha assunto
fin dal principio anche forti connotati stilistici e non solo economici.
E’ noto a tutti, infatti, come entrambi i disegnatori avvertano
l’influsso esercitato dalla ligne claire della scuola franco-belga,
lo stile che dominava in Francia ai tempi d’oro del settimanale
Pilote (la rivista che pubblicava l’Asterix
di Uderzo e Goscinny, tanto per intenderci).
A questo si aggiunga che durante gli anni della formazione artistica
di questi autori (i primi anni ’70) si assiste in Francia ad
un fenomeno di notevole rinnovamento nell’editoria del fumetto,
che a lato delle tradizionali riviste per ragazzi affianca nuove riviste
indirizzate ad un pubblico più maturo. La data di inizio ufficiale
di questa svolta è il 1972, quando Claire Bretecher, Marcel
Gotlib e Nikita Mandrika abbandonano lo staff di Pilote
per fondare in proprio L’Echo des Savanes,
rivista e casa editrice autonoma. Con L’Echo des Savanes
ha inizio il fumetto d’autore vero e proprio, inteso come modello
di produzione della rivista d’autore indipendente, cosa che
in Italia si vedrà solo negli anni ’80 e soltanto in
alcuni casi rari come quello di Cannibale e Frigidaire.
Non dimentichiamo infatti che anche Alterlinus, o
più semplicemente Alter, pur differenziandosi
nei contenuti rispetto alla rivista madre Linus,
dipende in realtà dallo medesimo grande editore, la Milano
Libri, che per quanto aperto alle nuove proposte esercita comunque
una forma di controllo sul materiale pubblicato.
Con L’Echo des savannes ci troviamo invece
per la prima volta davanti ad un gruppo di autori che prendono iniziativa
verso il mercato editoriale e a questo mercato si espongono in prima
persona in cambio di una libertà espressiva incondizionata,
che diventa in definitiva essa stessa l’indice di una poetica
comune. Da tutto questo nasce, come dicevamo, un nuovo modo di pensare
il fumetto, più impegnato, più consapevole, più
autonomo. L’esperimento de L’Echo des Savanes
funziona ben al punto da essere preso ad esempio ed emulato da numerosi
altri autori che si muovono, sulla stessa falsariga, con riviste quali
Metal Hurlant, Fluide Glacial, Circus
ed altre ancora.
La più significativa e fortunata fra tutte queste sarà
Metal Hurlant, fondata nel 1974 ad opera di un gruppo
che si fa chiamare "Les Humanoides Associés", composto
dai disegnatori Jean Giraud alias Moebius e Philippe Druillet, da
Bernard Farkas e dal giornalista scrittore Jean Pierre Dionnet. La
rivista elabora fin dal suo esordio una cifra stilistica personale
che amalgama al suo interno horror e fantascienza in una miscela inconfondibile
e si rivela ben presto un fenomeno editoriale di proporzioni internazionali,
destinato in breve tempo a diventare un fenomeno culturale in senso
più ampio. Pensiamo che tra le varie edizioni estere della
rivista francese, non manca la versione statunitense denominata Heavy
Metal, che proprio nella patria della sci-fi ottiene un successo
che supera perfino quello della rivista madre (la quale cesserà
le sue uscite nel 1987 laddove l’Heavy Metal statunitense,
pur con periodicità trimestrale, dura tutt’oggi). Alle
soglie del ’77, Moebius e Druillet hanno insomma innescato una
rivoluzione nel campo dei fumetti che, soprattutto in Europa, ha investito
un’intera generazione di autori e ha colpito tanto per i suoi
contenuti, quanto per lo stile grafico. Gli Umanoidi Associati (l’etichetta
è stata comunemente italianizzata presso la critica di casa
nostra) sono stati così prima di tutto un interessante caso
di poetica collettiva, che meriterebbe di essere studiata a fondo
nella varietà dei suoi aspetti e che potrebbe essere sintetizzata
idealmente nel motto del "potere alla fantasia", slogan
che Manara per primo ha sempre enfatizzato come il principale aspetto
di seduzione che le rivoluzioni del ‘68 e del ’77 hanno
esercitato presso di lui. Per gli Umanoidi Associati tutto questo
ha significato, nello specifico, una scelta di libertà assoluta
nei confronti del soggetto (l’evasione fantastica), della tecnica
(lo smantellamento della sintassi fumettistica tradizionale) e del
segno (la ligne claire, appunto).
Della rivoluzione operata dagli Umanoidi Associati, Manara ha colto
soprattutto quest’ultimo aspetto e lo ha colto essenzialmente
in Moebius. Il confronto tra i due stili non è frutto di una
semplice ipotesi critica, ma trova pieno riscontro nella poetica esplicita
del disegnatore veronese, che fin troppo spesso è stato invitato
a esprimersi su questo punto da parte di quei critici che lo accusano
di plagio nei confronti del maestro francese.
In realtà, prima ancora che al disegno in sé, Manara
sembra essersi ricondotto a una prospettiva ben più ampia nella
poetica di Moebius:
"La sua è stata un’operazione d’avanguardia
e il grande contenuto di essa […] è stato quello di legare
la vecchia tradizione dei disegnatori e illustratori europei con il
fumetto, con tutti i suoi contenuti e le possibilità di racconto
che sono venuti, invece, dalla giovanissima America […] aprendo
la strada a una serie di disegnatori soprattutto europei che non avrebbero
potuto trovarsi a proprio agio con questo tipo di racconto tradizionale,
all’americana e che attraverso la lezione di Moebius hanno visto,
come me, la possibilità di recuperare la propria cultura e
di trasferirla nel fumetto. Questo è stato il grande insegnamento
di Moebius: non è solo un discorso tecnico ma è una
questione di forma mentale..."
Brano denso di spunti di riflessione, questo di Manara, che ci torna
utile anche per anticipare il discorso su quell’intersezione
tra Francia, Europa (o per meglio dire Mitteleuropa) e America, di
cui diremo meglio fra breve. Ma di questo intervento colto di Manara,
teniamo per il momento soprattutto quell’ultima frase e in particolare
il concetto di "forma mentale", che sembra voler sottolineare
un aspetto prevalentemente concettuale nella lezione di Moebius. Detto
questo, vediamone più da vicino l’aspetto invece strettamente
tecnico.
"E’ veramente un lavoro duro, non c’è
niente di improvvisato, di impressionistico, di "artistico"
in quel disegno: tutto è molto rigido, è una disciplina
vera e propria, perché per fare ognuno di quei trattini, di
quei puntini che fa Moebius, la mano deve passare lentamente sul foglio,
non è che essi vengano fatti velocemente, a schizzo. […]
Però sono contentissimo di avere fatto quest’esperienza,
anche perché se pur giustamente mi si dice di aver "copiato"
Moebius, in realtà io ho copiato la disciplina di Moebius…"
Come vediamo le cose non cambiano molto: che Manara parli di "forma
mentale" o di "disciplina" si tratta sempre di un’operazione
almeno in parte concettuale, che poco ha a vedere con un’emulazione
formale fine a se stessa.
Ciò non toglie che negli anni della sua prima formazione Manara
disegnasse spudoratamente, e forse anche meno consapevolmente, alla
maniera di Moebius. Di questo periodo vanno ricordati, oltre al già
menzionato H.P. e Giuseppe Bergman, l’inevitabile passaggio
per la collana di Bonelli Un uomo, un’avventura
con l’episodio L’uomo delle nevi
nel 1978 (su testi di Castelli) e L’uomo di Carta
- Quattro dita, per l’editore francese Dargaud
nel 1982. D’altra parte, a partire dalle Storie brevi, concepite
quello stesso anno per vari periodici tra cui L’Espresso
e in seguito raccolte in volume, Manara elabora una variante stilistica
originale, che si distingue anche dallo stesso Moebius. Nella fattispecie
Manara sviluppa uno stile ancora più "chiaro" rispetto
alla ligne claire di Moebius, rinunciando a quella fitta punteggiatura
di minuscoli trattini tipica del maestro francese, per dare invece
un maggiore risalto alla linea e ai suoi percorsi.
Al di là della loro derivazione comune, lo stile di Moebius
e quello di Manara negli anni ’80 vanno dunque riconosciuti
come due mondi figurativi a se stanti. Parliamo allora piuttosto per
entrambi di derivazione, perché se è vero che Manara
deriva da Moebius, entrambi derivano a loro volta dall’Art Nouveau.
L’Art Nouveau è lo stile internazionale che nasce in
Europa nei primi anni del Novecento e assume etichette diverse a seconda
della cultura in cui si sviluppa: Jugendstil in Germania, Modern Style
in Inghilterra, Sezessionstil in Austria e Liberty in Italia.
Si tratta di uno stile a sua volta di derivazione simbolista che ha
lontane radici nell’arte di Blake, di Crane, dei pittori Preraffaelliti
e condivide un’intima affinità con l’Art &
Craft di William Morris. L’Art Nouveau non si è espresso
infatti solo nella grafica, quanto nell’architettura e nelle
arti applicate. Il fitomorfismo di Morris ha meritato all’Art
Nouveau la definizione di "stile floreale", perché
caratterizzato per l’appunto da una linea lunga, flessuosa,
delicata. La versione che ha dato i maggiori risultati nel campo della
grafica è quella sviluppatasi in Austria e praticata dagli
artisti della Secessione Viennese, cui abbiamo accennato nel saggio
precedente, relativo a Crepax. Sia pure diversamente da Crepax, anche
Moebius e Manara risentono dell’influsso di Klimt e compagni,
ma mentre il primo è vicino ad artisti come Koloman Moser e
Lajos Kozsma, Manara invece è più affine a Mucha.
Alphonse Mucha (1860-1939) è il celebre illustratore di origine
ceca che con la sua grafica tersa e aristocratica ha animato l’immaginario
popolare parigino dei primi del Novecento. Mucha disegna illustrazioni
per riviste, pannelli decorativi, quadri, affiches: la sua prima notorietà
gli venne proprio da un ciclo di locandine che realizzò per
gli spettacoli teatrali di Sarah Bernhardt alla fine dell’Ottocento.
Mucha è insomma un artista versatile che non esita a uscire
dal territorio della pittura ufficiale per sconfinare liberamente
in quello delle arti popolari. E’ normale dunque che il suo
stile abbia avuto un’eco considerevole all’interno di
un linguaggio di massa come il fumetto e che il suo influsso abbia
investito non solo il caso di Manara, ma un po’ tutta la poetica
della ligne claire in generale. Di tipicamente muchiano in Manara
c’è, alla base, l’uso di un disegno estremamente
chiuso, contornato, ma fluido, animato da una linea felpata che celebra
la grazia femminea dei corpi e ne esalta la sensualità latente.
Se accettiamo quest’ipotesi, ci rendiamo facilmente conto di
come lo stile elaborato da Milo Manara non possa derivargli da un
semplice calco su Moebius, ma scaturisca in realtà da un più
ampio bacino che racchiude al suo interno colte reminiscenze figurative.
"Il liberty è infatti un ampio recipiente capace di
contenere le stregonesche allucinazioni di artisti antirinascimentali
e manieristici, il perfido e sotterraneo dramma del barocco, le ansie
di morte e di putrefazione di alcuni romantici."
Il liberty di cui parla Faeti in questo brano abbraccia anche la fascia
degli illustratori per l’infanzia che sotto l’egida di
Antonio Rubino hanno introdotto lo stile floreale sulle pagine del
Corriere dei Piccoli: i vari Aleardo Terzi, Antonio
Maria Nardi, S. Canevari e altri. All’epoca di questa fortunata
stagione del Corrierino, 1908-1909, Milo Manara non
era ancora nato, per cui non è possibile supporre un’influenza
diretta da parte di questi autori, ma va comunque aperta un piccola
parentesi sull’importanza che detti illustratori hanno avuto
nella diffusione e legittimazione del liberty in Italia e per di più
all’interno di un’area protetta come quella della letteratura
per l’infanzia.
Lo stile floreale, infatti, con tutte le allusioni erotiche che quest’immagine
veicola, era considerato dai benpensanti uno stile intrinsecamente
dissoluto e lascivo. Rubino, che peraltro si rifaceva direttamente
a Beardsley, il più vizioso tra tutti gli illustratori liberty,
nel tentativo di dimostrare che questo stile poteva avvalersi invece
di un registro soft e poteva rivelare addirittura dei connotati pedagogici,
ha operato un riscatto sul liberty che, sulla lunga distanza, ha favorito
anche la nascita di autori come Milo Manara.
La profonda sensualità che scaturisce dalle immagini di Manara
attinge dunque la sua carica eversiva dalla sublime perversione del
liberty, di cui parla anche Faeti. Il cerchio dei riferimenti incrociati
fra Art Nouveau, illustrazione e fumetto si completa poi alla perfezione
se pensiamo a quanto accade negli Stati Uniti tra il 1908 e il 1909,
laddove il neonato linguaggio del fumetto raggiunge uno dei suoi vertici
storici con le tavole di Little Nemo, che altro non è se non
una delle più squisite versioni che l’Art Nouveau, abbia
mai conosciuto. In altre parole, proprio negli anni della massima
diffusione dell’Art Nouveau in Europa, nasce sotto lo stesso
segno in America uno dei principali capostipiti del fumetto, dal cui
stile si può dire derivi, per continuità o per opposizione,
un po’ tutto il fumetto degli anni a venire. Manara e, come
vedremo presto, in parte anche Giardino abbracciano la lezione di
Winsor McCay con una devozione che si rispecchia tanto nello stile
grafico quanto nell’immaginario onirico e fantasioso, che lo
ha reso celebre.
Il tema dell’eros e quello del sogno si intrecciano indissolubilmente
nell’arte di Manara, tanto che non ha neanche senso distinguerli
in due momenti diversi, come accade invece in Crepax. Tutto avviene
all’insegna di un registro erotico e insieme onirico, il piano
dell’espressione e quello del contenuto sono stilisticamente
consonanti al punto che sembrano determinarsi reciprocamente.
La dimensione dell’erotismo in Manara è del resto qualcosa
che va oltre la semplice "situazione narrativa" e si configura
come un modo di raccontare la vita e l’arte, come una poetica.
"…l’erotismo è quell’energia che
muove l’universo e che va inteso come attrazione reciproca e
tendenza al piacere erotico-sessuale. […] Questa pulsione assoluta
coinvolge non solo l’umanità, ma l’intero universo:
si nasce, ci si riproduce e si muore. La nascita è un bel tema,
ma è troppo misteriosa e mi sfugge e la morte mi fa un po’
troppa tristezza; quindi la mia scelta si è ristretta (anche
se non sempre) al tema erotico…"
Lo scandalo prodotto da Manara ne Il Gioco,
pubblicato su Playmen nel 1983, sta allora nell’aver
raccontato il sesso come un istinto che investe tutti gli esseri umani
e nel ribadire che come tale esso va vissuto e non censurato. Il sesso,
dice Manara, riguarda tutti: le persone come gli animali, gli adulti
come i bambini, riguarda infine anche la pudica signora Claudia Cristiani.
Sotto l’influsso di una forza che la possiede (di natura meccanica,
lei crede, inconscia in realtà), Claudia si spoglia della falsità
del nome e del marito che ha sposati e prende a copulare con tutti.
Tutti, tranne il povero dottor Fez, l’unico che la desidera
apertamente, senza ipocrisie, ma al quale Claudia non si concede perché
le fa "ribrezzo". In questo modo Claudia non è vittima
dell’improbabile congegno con cui Fez controllerebbe la sua
libido, ma è in realtà vittima solo di se stessa. Nonostante
questa, l’ipocrisia borghese di Claudia non ha limite: meglio
fingere che quella scatolina esista realmente da qualche parte, piuttosto
che assecondare la propria libido e sperare magari che qualcuno l’accenda
per noi, anzi "la metta sul massimo", come sintetizza la
battuta finale.
Proprio la tavola finale può essere assunta esemplarmente come
campione dello stile di Manara. Anzitutto, l’essenzialità
della tavola: non dovremo aspettarci da Manara la complessità
strutturale di un Battaglia o di un Crepax, ma semmai la punteggiatura
essenziale del secondo Pratt. Si noti poi in particolare la terza
vignetta della prima striscia. Il profilo modulato e sensuale, il
ricamo lineare che scorre fluido sulla veste di Claudia, la contorsione
della pianta rampicante sulla colonna in giardino: sembra di vedere
un’immagine liberty dei primi del Novecento, al cui ricordo
la tanto accalorata parentela con Moebius passa ormai in secondo piano.
In definitiva, la perversione di Manara consiste solo nell’aver
convertito il significato osceno del sesso in un bene naturale: qualcosa
da vedere, da fare, da mostrare.
Il successo internazionale de Il gioco consacra
definitivamente la fama dell’autore veronese nel mondo ed inaugura
brillantemente il filone erotico, che da allora contraddistingue inconfondibilmente
l’opera di Manara. Il 1986 è la volta de Il
profumo dell’invisibile, mentre Candid
Camera del 1988 raccoglie storie apparse precedentemente
su varie riviste. Sempre nel corso degli anni ’80, Manara aderisce
all’iniziativa di Pratt di una rivista di viaggi e avventure
e assieme ad Andrea Pazienza danno vita a Corto Maltese.
Sulle pagine di questa stessa rivista nasce anche una felice collaborazione
tra i due autori veneti, con la storia Tutto ricominciò
con un estate indiana, pubblicata prima a puntate a
partire dal 1983 e raccolta successivamente in volume. L’esperimento,
che vede Manara impegnato ai disegni sui testi di Hugo Pratt, ha una
buona riuscita e avrà un seguito negli anni ’90 con El
gaucho, una delle ultime storie sceneggiate da Pratt.
A fianco alla produzione strettamente erotica, Manara coltiva anche
ulteriori progetti, che si sviluppano su testi di altri autori, senza
dubbio più impegnati. La qual cosa eleva il tono dei suoi lavori
e contribuisce a riabilitarne la fama, oltre che presso il vasto pubblico,
anche presso la critica. Con l’incedere degli anni ’80
verso il nuovo decennio, infatti, l’erotismo a fumetti di Manara
si fa talvolta bolso, stantio, comunque poco convincente nel contenuto,
nell’intreccio e nella messa in scena di un immaginario abusato
e replicato a mo’ di cliché. Sembra insomma che le storie
di Manara non siano spesso all’altezza dei disegni e in effetti,
al di là di uno spunto di partenza talvolta anche brillante,
si ha l’impressione che Manara viva un po’ all’ombra
dei suoi maestri ispiratori, Hugo Pratt e Federico Fellini. Della
collaborazione con il primo abbiamo già detto, del secondo,
invece, caso vuole che tra i due si verifichi in quegli anni un incontro
e nasca all’istante un’amicizia che porterà Fellini
ad affidare a Manara il soggetto di Viaggio a Tulum,
un film pensato in seguito a un viaggio in Messico e poi abbandonato
nella sua forma cinematografica.
La situazione di Milo Manara alle soglie degli anni ’90 è
allora quanto meno curiosa: da un lato, con Il gioco 2
(1991) e 3 (1994), e L’uomo
invisibile (1996) Manara si produce in una ripetizione
più o meno riuscita dei suoi più grandi successi editoriali
(rispettivamente Il gioco e Il profumo dell’invisibile). Dall’altro,
in piena crisi del fumetto d’autore, Manara confeziona uno tra
i prodotti più esclusivi del fumetto d’autore internazionale,
Viaggio a Tulum sui testi di Federico Fellini.
L’operazione soddisfa sia il pubblico che la critica, e avrà
un seguito, sia pure più modesto nel 1995, con Il viaggio di
G. Mastorna detto Fernet, il film che ha ossessionato Fellini dal
lontano 1965, quando gli venne in mente per la prima volta, e da allora
tanto voluto e mai realizzato.
Nella seconda metà degli anni ’90, Manara è ormai
diventato un’indiscussa star del fumetto mondiale e su questa
base procede imperturbabile tra alti e bassi, pubblicando una serie
di lussuosi volumi per la Mondadori: Gulliveriana (1996)(7),
una divertente riduzione dei Viaggi di Gulliver in chiave erotica,
pensata con una donna al posto del classico eroe di Swift, Ballata
in sì bemolle (1997), un’interessante storia
di malavita che tinge di giallo il classico erotismo a la Manara,
le deludenti Kamasutra (1998) e A
riveder le stelle (1999), e di nuovo una brillante riduzione
da L’asino d’oro di Apuleio
(2000).