4^ tappa - martedì 20 maggio
SIENA – ROMA 250 chilometri
NEL GIORNO DI KETELEER IL GIRO PIANGE PONSIN
Raccontare con tono di cronaca questa quarta tappa
mi risulta impossibile, il dolore è troppo forte, la morte ha teso un agguato maligno
ad un ragazzo tra i più umili e forti del plotone, Orfeo Ponsin. Veneto di
nascita (San Giorgio in Bosco –Padova-), primo settembre 1928 e piemontese,
anzi piemontesissimo d’adozione, la sua famiglia giunse infatti a Valle
Giolitti (Monferrato) nella primavera del 1929.Orfeo all’anagrafe era Ponzin,
ma il suo cognome aveva subito una deformazione, divenendo subito nel modo a
noi più conosciuto. Questo ragazzo alto ed esile, dal collo piccolo piccolo
aveva un colpo di pedale da fare invidia al migliore dei campioni. Amava vivere
in silenzio, così come si è spento giù dal passo di Radicofani, o meglio al
fondo della discesa della Merluzza, comune di Madonna di Bracciano, quando
Grosso era in vantaggio di un quarto d'ora. Un colpo sordo in discesa, una caduta
da fare raggrinzare la pelle, l’urto contro il tronco di un albero, forse
un'auto del seguito lo ha poi addirittura travolto, il sangue che gli è uscito
dalle nari, dalle orecchie, quel corpo disteso in modo innaturale sul ciglio
della strada. Il medico del Giro ordina il trasporto al più vicino ospedale, ma
il suo cuore ha già cessato di battere. Mi ha raccontato, anni dopo, Renzo
Zanazzi che Ponsin era caduto venti
metri avanti a lui. Vide il sangue uscirgli dalla bocca quando il povero
ragazzo era ancora in volo, appena dopo l’urto contro quel maledetto albero.
Dieci minuti dopo l’ambulanza superò a sirene spiegate il plotone ed il buon
Renzo si fece il segno di croce….
Le lacrime di tutta la Frejus e del Giro non bastano
a restituire Orfeo alla famiglia, al vecchio padre che l’attenderà per anni sul
portone del cascinale a Crescentino.
Ma la cronaca esige almeno qualche breve cenno.
Pronti via e scappa Grosso, vantaggio subito considerevole, addirittura
macroscopico, sul Radicofani un quarto d’ora. A Viterbo ancora Grosso da solo,
ma lo scarto è ormai dimezzato; è l’australiano Smith della Nilux a capeggiare
la rincorsa. Chilometro 176 la bella avventura del veneto termina, raggiunto da
Martini, Roma, Ruiz, Clerici e Vittorio Rossello; quindi Barducci, Benedetti e
Milano a 47”, infine il gruppo a 54”. Pochi chilometri di parziale libertà per
gli attaccanti ed il gruppo torna a serrare le fila. Contropiede di un altro
benottiano: Bevilacqua; l’azione di Toni è sicura ed il vantaggio pare poter
garantire il successo al forte passista ed invece tutti si mettono in caccia
dell’ex tricolore, una decina di chilometri ed il fuggitivo è raggiunto. Chi ha
più fortuna sono il belga della Garin Keteleer ed il nostro Pasotti, il loro
vantaggio in breve supera il minuto, e questa volta la tappa è decisa. I
giornalisti al seguito cercano di ricordare quante azioni il corridore pavese
ha promosso in questi ultimi due anni al Giro d’Italia, quasi una a tappa,
bella media, non c’è che dire! Purtroppo per Pasotti però oggi c’è poco da
festeggiare, se non l’ennesimo piazzamento, lo sprint che risolve la frazione
infatti è vinto di strettissima misura dal vecchio fiammingo Desirè Keteleer,
una vita trascorsa al fianco di Coppi alla Bianchi, e già vincente a Perugia
(primo straniero del dopoguerra) nel ’48. Gruppo a 1’ 08”, maglia rosa sempre a
Defilippis, e domani riposo, onorando la memoria di Ponsin.
ORDINE D’ARRIVO
1° Desirèe
KETELEER Belgio gs.Ganna chilometri 250 in 7 ore 26’40” media: 33,582
2° Alfredo PASOTTI st
3° Ferdinand KUBLER a 1’ 08”
4° Ferrari st - 5° Zanazzi st - 6° Albani st - 7°
Conte st - 8° Moresco st
9°
Soldani st 10° Ockers st
CLASSIFICA GENERALE
1° Nino
DEFILIPPIS Maglia Rosa
2° Conterno a 29”
con lo stesso ritardo: Geminiani, Close, Zampini,
Astrua e Zampieri
Maglia Bianca:
Defilippis
Nota a Margine
Ricordiamo con questo
articolo del grande Gianni Brera il povero Orfeo Ponsin, tragicamente perito
durante la quarta tappa di quel lontano Giro d’Italia (da “La Gazzetta dello Sport”
del 21 maggio 1952).
Roma, 20 maggio
E’ morto Orfeo Ponsin, corridore di ventura. E’
volato fuori di curva a battere il capo contro un albero. Gli è uscito il
sangue di bocca e dagli orecchi. Il suo ultimo disperato saluto alla terra fu
un urlo di raccapriccio. E l’ha ghermito la morte in un secondo. Per lui è
finito il Giro ed insieme la vita nell’attimo in cui dalla vertigine della
corsa è passato al cupo abisso dell’incoscienza. Ora Ponsin è morto e non ho
cuore, come ogni giorno, di abbandonarmi all’esito penoso delle note.
Ho intervistato atleti e direttori sportivi sulle
ammiraglie. Ho avuto battute, anche buone da sfruttare. Su ogni immagine il
volto di Ponsin, la sua onesta fame di povero, il volto magro ed ossuto, il
berrettuccio con la visiera al rovescio, il naso sottile, quel collo lungo e
strano sulle gracili spalle. Il tronco piatto, da ragazzo cresciuto brado nelle
nostre campagne nebbiose, le gambe secche agili ma travagliate del faticatore.
Sul taccuino di ieri, le poche note d’un colloquio
con Bertolazzo, suo direttore sportivo: “Ponsin fa il Giro da solo. Non sta
sulle ruote, ha paura: da tre anni soltanto possiede una bicicletta da corsa:
da due anni corre, troppo pochi.” Parlandone, Bertolazzo scuoteva il capo.
“Purchè resista, mi disse, purchè non incappi in qualche caduta grave, come a
Cortina….”
Nota: nel 1951, al Giro d’Italia, fu costretto al ritiro
da un altro tremento ruzzolone nella frazione di Cortina, cadde in discesa e si
procurò una bruttissima ferita al braccio, strisciato contro la parete
rocciosa. (gt)
E riandai, allora alla sua storia. Come quando
l’appresi mi commossi alla sua storia prodigiosa di atleta contadino. Suo padre
l’aveva condotto dal Veneto, ogni San Martino una tappa, alla cascina
piemontese dove viveva da anni coi fratelli (autunno 1929). Ne aveva sette ed
egli non era il più giovane. Uno più anziano correva tramagli in paese.
Corsette senza storia e senza gloria per lui. Ponsin adolescente lo rincorreva
a volte per dargli il pane. In ritardo, si affannava sul catorcio del padre. Un
giorno, per non buscarle, superò il gruppo in cui pedalava il fratello. Arrivò
prima al sommo di una salita. Trafelato, ansante, Orfeo si appostò al margine,
tenendo l’involto della colazione. Lo vide Graglia, quel giorno. L’aveva
casualmente seguito per lungo tratto: Graglia è un sentimentale e quel
ragazzetto pallido e denutrito gli fece impressione. Gli procurò una vera
bicicletta, lo invogliò a correre, a tentare. L’anno seguente Ponsin esordì al
Giro.
Pensai –ricordo- a Muzio Attendolo Sforza contadino,
ai soldati di ventura che lo invitarono a seguirlo, ed egli gettò la marra sul
rovere, e come rimase impigliata lasciò il campo e diventò guerriero.
Ponsin corridore di ventura era la recluta che tutti
si sentivano portati a proteggere, com’è umano che avvenga con chi con poco
destro affronta il mestiere che lo ama. Era un ragazzo buono ed onesto, che
rischiava la vita per il pane. La sua fine commuove, come il suo esordio
romantico di atleta. Oggi nel ricordo non so scrivere una riga senza
rimpiangerlo. Il suo sacrificio trascende lo sport e dalla chiassosa sarabanda
del Giro ci richiama alla crudezza del dramma che è in ogni atto della nostra
vita. Penso a sua madre accasciata presso il povero focolare spento della cascina
ora sepolta dal verde. Ai suoi fratelli in lacrime, penso al vecchio padre
Ponsin con gli occhi fissi su una bicicletta che fu anche di Orfeo, al
rugginoso catorcio col quale si accesero i sogni del figlio caduto. Silenziosi
pregano sulla soglia, i contadini, i faticatori della terra che Ponsin aveva
lasciato per vivere altrove, in più esaltante modo, una vita che egli sperava
migliore. Con la sua gente anch’io mi soffermo. Anch’io vorrei pregare, povero
Orfeo Ponsin.
Addio.