Da: “Il silenzio
dei persecutori”
In
un silenzio uguale, in un totalitarismo
narrativo quasi senza vie di fuga sta perdendosi il nostro discorso
pubblico,
e con esso si perde la molteplice ricchezza delle mille e una storia
che ne
intessono o dovrebbero intesserne la trama. In questo stesso momento lo
si può “ascoltare”,
questo silenzio vuoto di idee e colmo di rumori, solo che per un attimo
si
interrompa la lettura e si tendano gli orecchi alla sconfinata, totale
ideologia di un’epoca che si racconta a se stessa come libera dalle
ideologie,
e nella quale i più hanno finito per smarrite il gusto della decisione
e
l’etica della responsabilità. Accade così che, in un consenso unanime e
ubbidiente che preannuncia la
tranquillità d’un cimitero, intere categorie di uomini e di donne —
migranti e
poveri del Sud e dell’Est del mondo espulsi da ogni speranza — siano
considerate
tacitamente sub-umane, non-umane e
anti-umane, e che su una tale orrida vecchia storia interi movimenti
politici
fondino la propria inquietante legittimità.
D’altra
parte, la loro vecchia storia è appunto vecchia. Quel che essa racconta
è il
fondamento di ogni persecuzione: l’odio arcaico e in buona coscienza del
medesimo — del noi chiuso in
sé, sordo e
uniforme — nel confronti dell’altro.
Il suo modello più trasparente e crudo, più semplice e diretto, è
quello che
Adolf Hitler progetta e tratteggia in Mein
Kampf. A quel modello, appunto, ci capiterà più d’una volta di
riferirci nelle
pagine che seguono, ma non perché in esso tutto si risolva e tutto
finisca. Al
contrario, il potenziale persecutorio è tale che, sempre, se ne
escogitano
varianti insospettate: dagli etnismi colmi di odio esplicito che da
tempo
percorrono e immiseriscono l’Europa, all’assunzione implicita del loro
slogan,
delle loro parole, del loro non-discorso rinserrato nella paura, dei
loro
valori e della
loro
miseria antropologica da parte di movimenti neopopulistici.
Perche
si perseguita? Meglio, perché si uccide, talvolta anche materialmente e
più
spesso. “solo” moramente? Come può capitare che lo si faccia m buona
coscienza,
per lo più in nome d’un odio per gli uomini e per le donne ben
camuffato
d’amore per l’Uomo? Questo accade, infatti: in nome d’una verità, d’una
razza,
d’una etnia, d’una fede, d’una libertà “orientata”, d’un principio
economico
spacciato per universale, d’un a
priori in genere, si decide
della vita
e della morte — ossia: del loro valore o disvalore —, convinti d’averne
piena signoria.
In tal modo, si separano esseri umani che meritano di vivere, e ai
quali appartiene
il diritto d’amministrare la sofferenza dell’altro, da questo stesso
altro,
creatura sub-umana o non-umana o anti-umana che non merita la vita e
comunque
non una vita “come la nostra , e che può o addirittura deve essere
costretto a
viverne una degradata. Così fa il persecutore. E lo fa, come gli piace
immaginare, sempre in vista del Bene.
Questa
parola — persecutore — potrebbe e in un certo senso dovrebbe essere
usata al
plurale: persecutori. L’atto persecutorio, l’accanimento aperto o ben
camuffato
contro qualcuno cui non sia riconosciuta piena dignità
Umana, è
sempre collettivo: richiede un noi o un tutti, e
Anzi
proprio un noi tutti, una totalità persecutrice che fronteggi la
vittima e più
spesso una categoria di vittime. D’altra parte, proprio in quanto
totalità, i
persecutori sono uno. Indifferenziati al loro interno, o meglio tra
loro
non-differenti,
ognuno e tutti uguali, ma solo in quanto calchi reciproci, si
rinserrano in
quella che possiamo ben chiamare molteplicità clonata: un’illusione di
pluralità che copre e nasconde la miseria d’un medesimo ripetuto senza
fine.
Nelle
pagine che seguono si tenterà d’illuminare questa totalità, e di
ricondurre
così alla sua passione mimetica il
meccanismo politico della persecuzione ho la "macchina" che amministra
la degradazione, la sofferenza e persino la morte. Qui però ci
preme
tornare, per quanto solo con un cenno, alle nostre domande. Perché si
degrada,
perché si condanna all'abbandono, perché addirittura si uccide in
buona
coscienza? Come si può arrivare a essere degli assassini innocenti
di
corpi e di anime, come si riesce a esserlo?
La
morte — il soccombere e il sopprimere, ma anche solo il soffrire e il
far
soffrire — non ci dà scandalo: non costituisce per noi una pietra
d’inciampo
del pensiero, un luogo che chieda d'essere rischiarato dalla luce dello
stupore.
Al contrario, la incorporiamo come un
dato e addirittura ce la narriamo come un valore. Quanto spesso il
morire viene
considerato prova d'una verità o conferma d’una buona causa. Quanto si suppone che nella morte — tanto nel morire
quanto nell’uccidere — stia un potere salvifico e rigeneratore. un
annuncio
d'Assoluto. Pare che il sangue, il sugo della vita, nel nostro
immaginario
diffuso, ma anche nel nostro pensiero "alto",
valga
soprattutto quando smette di nutrirla e di accrescerla, la vita. Come
Elias
Canetti dice del nostro fare, anche il nostro narrare è già in sé tanto
denso
di morte, che forse per vincere questa possiamo ormai solo disabituarci
da
quello.
Entusiasmo
per la morte: questo sospettiamo
ci sia al fondo dell' atto persecutorio e della macchina politica che
lo
produce e insieme se ne nutre, e soprattutto nel cuore e nell'anima del
persecutore. E sospettiamo anche che sia un entusiasmo doppio, con
due
volti. Il primo, il più ovvio, è quello della sofferenza e della morte
date ad
altri, amministrate direttamente o indirettamente a danno dell'altro.
Il
secondo è quello della morte accettata per sé, cercata è costruita
celebrata e
trasfigurata fino a darle nomi grandi e menzogneri: Sacrificio,
Eroismo,
Amore. Gli esseri umani, avverte Canetti, sembrano dominati dalla
passione
d'esser ingannati e divorati da un qualche ventre possente —
o
di potere — di
cui attendono devoti e tremanti d’essere le vittime prescelte. Ecco
un
paradosso della persecuzione: vittima è certo in primo e tragico luogo
il
perseguitato, e tuttavia in un altro senso, meno immediato e materiale,
vittima
è anche il persecutore. Qui si tenterà appunto d’illuminare una
necessità e una
condizione molte volte insospettate dell’atto persecutorio: prima
d amministrare la sofferenza e la
morte dell’altro — e si tratta d’un prima esistenziale e culturale, più
che cronologico
—, il persecutore deve aver ridotto la
sua stessa vita a morte: deve aver scarnificato o aver lasciato
scarnificare via
dal proprio sé la molteplicità e la ricchezza del possibile e
dell’imprevedibile,
ogni riconoscibilità della viva vita.
La
macchina della persecuzione, dunque, produce morte mediante morte:
produce la
morte dell’altro mediante la morte del medesimo. In questi anni sempre
più si
manifesta, questa morte, nel ridursi e nell'uniformarsi dei modelli
legittimi
di pensiero, nella brama di obbedienza e subordinazione, nella
progressiva
scomparsa d’ogni altra visione del
mondo che non sia quella che il medesimo racconta di se stesso a se
stesso. Là dove
noi tutti
perseguitiamo, nessun discorso si
“muove” di parola in parola, d'opinione in opinione. Al contrario,
tutto l’immaginario
e tutto il racconto stanno in una qualche vecchia storia ripetuta senza
fine, e
sempre uguale. Questo dà
all’uccidere e
al morire una buona coscienza: questo silenzio assordante e colmo di
slogan
risaputi, questa «cospirazione del silenzio» con cui
il persecutore si dà ragione e ragioni.
Proprio come, di Le mille e una notte,
accade nel regno sfortunato del re Shahriyàr…
Che
cosa ci è dato di fare, per contrastare un
tale totalitarismo (per ora) virtuale? Intanto, ci ha dato d'illuminare
almeno
un po' con il nostro stupore quelle tali domande: perché si nega
dignità,
perché si degrada e si uccide, e come si può, come si riesce a farlo in
buona
coscienza? E poi ci è dato di imparare e di praticare il coraggio della
disobbedienza e l'amore per la vita di Shahrazàd. Narratrice dolce e
risoluta,
la giovane donna della
favola si affida alla ricchezza di mille e una storia, e così vince il
racconto
unico e sanguinario di Shahriyàr, il potente che sulla morte dei suoi
stessi
sudditi — e ancor più sulla loro “uniformità narrativa” — fonda la
propria
orrida legittimità.