Inutile negarlo. Durante il match
contro Fischer per il titolo mondiale del 1972, svoltosi nella gelida
Reikjavik, ero tra quelli che si sbracciavano per l’asso americano.
Spassky nemmeno lo consideravo. Era stato messo lì per essere immolato
sull’altare della dea Caissa. Punto e basta. Anche se lui avrebbe fatto
di tutto, e lo fece, per evitare l’olocausto. In seguito, come succede
spesso nella vita, mi sono un po’ pentito di quella specie di astio nei
confronti non solo di un grande campione ma anche di un grande uomo.
Sempre sereno, aperto e dignitoso. E la sua esistenza, simile a quella
di molti altri campioni, non è certo stata tutta rose e fiori. Anzi, se
c’è un elemento comune a tanti cervelloni della scacchiera, e se ne
sarà reso conto chi mi ha seguito nei miei “profili”, è proprio il
contrario. E il nostro Boris non fa eccezione. Nato il 30 gennaio 1937
a Leningrado si ritrova, da piccolo, nel bel mezzo della seconda guerra
mondiale. La famiglia è costretta a fuggire a Mosca per ritornare nella
città natale dopo cinque anni. La tragedia la spezza. I tre bambini, di
cui egli è il secondo insieme ad un fratello più grande e ad una
sorella più piccola, rimangono con la madre maestra, mentre il padre,
ingegnere, si disinteressa quasi completamente di loro. Il rapporto con
gli scacchi è casuale, impara le mosse a cinque anni, a nove si iscrive
al Palazzo dei Pionieri di Leningrado dove incomincia a giocare in
maniera sistematica. E, soprattutto, ha la fortuna di un istruttore
come Vladimir Zac che capisce ed asseconda il suo talento. Boris è un
concentrato di emozione e di freddezza e dopo una sconfitta capace di
arrabbiarsi e perfino di piangere. La sua reputazione incomincia a
salire dopo il 1950 con una serie di buoni risultati fino a conseguire
il terzo posto ad Amsterdam nel torneo dei Candidati del 1956. Però non
riesce a esplodere definitivamente, come è stato più volte sottolineato
dai maggiori critici, per una certa immaturità psicologica e perché non
gode pienamente dei favori del Palazzo che desidera seguire ed aiutare
allievi più docili e malleabili. Nel 1963 lascia il suo allenatore
Tolush, troppo focoso, sostituito da Bondarevsky e i risultati si
vedono! Campione URSS nello stesso anno,vittoria ex aequo con Smyslov,
Tal e Larsen all’Internazionale di Amsterdam del 1964. Nel '65 sconfigge
Keres (sei a quattro), Geller (cinque e mezzo a due e mezzo) e infine
Tal (sette a quattro) soprattutto per merito di un Gambetto inventato
da quello spilungone statunitense di Frank Marshall sul quale prima o
poi dovremo pur dire qualcosa, giungendo a sfidare Petrosian nel 1966.
"Spompato alla meta?" si è chiesto qualcuno colpito dalla forza degli
avversari e dalla durezza degli incontri. Stanco sì, ma non disfatto.
Si prepara a dovere, pensa anzi di sfruttare la sua resistenza essendo
più giovane, è entusiasta ed ottimista. Ma fa i conti senza l’oste
perché Petrosian non è certo stato a guardare. Ecco cosa confida
nell’intervista rilasciata a Juri Averbakh quando il match con Spassky
sta per terminare "La mia preparazione è cominciata molto tempo prima
dell’inizio del match. Spassky non aveva ancora terminato la finale dei
Candidati con Tal che io avevo già elaborato con il mio allenatore un
dettagliato piano di preparazione. Dapprima ho esaminato le mie partite
al microscopio, poi sono andato a Tblisi per studiare da vicino i miei
potenziali avversari. Una volta chiaro che Spassky avrebbe avuto la
meglio, sono ritornato a Mosca e mi sono subito messo ad analizzare le
sue partite…" ("Petrosjan oltre i confini della teoria" Prisma, Roma
1998, pag.197). Spassky si batte bene, resiste ma perde dodici e mezzo
a undici e mezzo.
Nel secondo scontro per il titolo mondiale del
1969 il nostro Boris, ancora più forte di prima (ricordiamoci che si è
sbarazzato di pretendenti al trono del calibro di Geller, Larsen e
Kortchnoi) riesce perfino ad analizzare e capire la psicologia
dell’avversario dai suoi atteggiamenti durante le partite: "Nel 1966
facevo molta fatica a capire lo stato d’animo di Petrosian, ma nel 1969
ero in grado di comprendere ogni suo gesto. Tutti sanno che tra una
mossa e l’altra molti giocatori fanno qualche passo attorno al tavolo:
quando Petrosian aveva paura di me, per esempio, camminava su e giù con
aria fiera e altezzosa, come Napoleone, ma quando invece passeggiava
tranquillamente, io sapevo che in quel momento era molto pericoloso:
era come una tigre che se ne stava acquattata, pronta ad assalirmi. Per
me erano informazioni importanti." ("La parola ai campioni del mondo"
di Jakov Estrin, Prisma, Roma 1993, pag.145). Non è una passeggiata
perché il nostro Tigran è sempre stato una roccia ma il punteggio di
dodici e mezzo a dieci e mezzo non lascia dubbi. E’ al culmine del
successo, il suo gioco "universale" lodato da tutti. Arrivano come
perle la sua splendida vittoria contro Larsen a Belgrado nel 1970 e,
sempre nello stesso anno a Siegen, quella contro Fischer. Già Fischer.
Come è andata nel 1972 nella gelida Islanda lo sanno tutti. E’ stato
detto e ripetuto millanta volte ed anche il sottoscritto ha intonato il
suo peana in onore del grande Bobby in un precedente "profilo" a lui
dedicato. Siedono di fronte l’Eroe e l’Antieroe per eccellenza, la
democratica, aperta e libera America contro la chiusa, ottusa ed
opprimente Unione Sovietica. C’è di che mandare in sollucchero tutti i
patiti quadrettati di questo mondo e far risuonare fanfare
massmediatiche più altisonanti del coro dell’Aida. Un vero successo
mondiale per gli scacchi e per l’asso americano che si incorona con
dodici punti e mezzo a otto e mezzo come era stato previsto
dall’americano Byrne! Spassky fa la sua parte e non può fare meglio
contro una furia scatenata nel pieno della sua energia vitale. La
"Sfida del secolo", riportata da Mario Monticelli in un libro della
Mursia dalla smagliante copertina rossa, ha incoronato il suo Re.
Bello, elegante, strafottente. Che non manterrà le sue promesse.
Spassky
comunque non demorde e nel primo match di qualificazione per la
candidatura al titolo mondiale svoltosi a San Juan demolisce
completamente l’americano Byrne (sì, proprio quello della funesta
profezia!) con il punteggio di +3=3-0, e incomincia assai bene anche
contro il giovane Karpov sconfitto per mezzo di una bella Siciliana.
Che è anche l’ultima, perché Karpov in seguito adotta ripetutamente la
tosta Caro Kann mettendo in crisi il suo illustre avversario. La
contesa termina velocemente con un secco +4=6-1 che non ammette replica.
Da
questo momento la vita scacchistica di Spassky rientra nella normalità
tipica di quella di tanti altri Grandi Maestri: qualche bella vittoria
contornata da deludenti prestazioni, e non mi voglio nemmeno soffermare
sulla patetica rivincita con Fischer giocata nel 1992 ( rimando, semmai
la curiosità del lettore al libro "Fischer-Spassky Vent’anni Dopo" di
Pein, Levitt e Davies pubblicato dalla Prisma). Non ne vale la pena.
Vale la pena, invece, sottolineare la personalità genuina e sincera di
questo campione "antieroe", la sua istintiva simpatia, la sua curiosità
intellettuale che spazia dall’arte alla letteratura, la sua innata
cortesia. Il suo sorriso aperto di persona perbene. Della quale,
credetemi, c’è tanto bisogno.
Fabio Lotti