E’ una canzone d’amore,
intrisa di lacrime e orrore,
per una fanciulla lontana,
che in una distesa silvana,
non trova difesa e sostegno,
da un rito infame ed indegno.
Mia piccola bimba dolente,
non ancora adolescente,
che il turpe rituale selvaggio,
sacrifica a un vecchio barbuto,
sul giovane corpo seduto,
che celebra la trista sharìa.
Ti dedico un’avemaria!
La tua fanciullezza finita,
magari anche nel corpo ferita.
Ma che religione è mai questa
che mutila bimbe innocenti,
che vivono già tra gli stenti,
coperte di torbidi veli,
che al sole e alla luce si celi,
il fiore innocente che sboccia.
Né può con la bocca serrata,
a te la cultura é vietata,
evocare Shakespeare e Alighieri.
Son sogni di oggi e di ieri,
che affogano nell’orrido stagno,
le braccia del turpe compagno,
che il rito tribale ha deciso,
l’imam e il corano sovrano!
Combatto una vana battaglia,
seguendo la voce del cuore,
con questa canzone d’amore,
o bimba che affoghi nel pianto,
l’inutile sfogo del canto,
che allevii il grande tormento:
si perde la voce nel vento!
Vorrei siccome un crociato,
armato di spada e pugnale,
combattere quel criminale,
che uccide bellezza e innocenza.
Vergogna per l’Occidente,
che si proclama civile,
che a fronte dell’interesse,
subisce sfide e scommesse;
vergogna per l’umanità che già langue,
avvolta in sudario di sangue.
O giovane tragica artista,
che il boia iraniano ha impiccato:
la forca ormai ti ha stroncato
la luce, il colore, i tuoi sogni,
la vita, l’amore, i bisogni,
che aiutano a evadere il male!
Donato Paradiso
4 dicembre 2009