Arrivo alla stazione di Liuyuan e riparto in pullman per Dunhuang con le sue straordinarie grotte affrescate. Si tratta di centinaia di grotte affrescate da monaci di ogni cultura e provenienza per oltre 800 anni, miracolosamente scampate, sia pure in parte, ai saccheggi degli archeologi e agli sfregi dell’iconoclastia islamica. Siamo ai margini del deserto dei Gobi, al nulla pietroso del Taklimakan di sostituiscono ora grandi dune di sabbia.
La sabbia che ha forse eroso in parte le pitture murarie penetrando
soffiata dal forte vento di sud-ovest, ma che paradossalmente ha senz’altro
contribuito a proteggere le grotte …
Almeno 500 sono ancora in buone condizioni, con qualcosa come 45.000
pitture murarie e 2.000 figure in stucco pigmentate.
Volendo cercare un riferimento nella nostra cultura religiosa, il ruolo
di Dunhuang nella storia del buddismo e della cultura orientale è
paragonabile solamente a quello di Gerusalemme o di Roma. Quanto al valore
della pittura, della statuaria e dei ritrovamenti di antichi manoscritti
buddhisti, basti dire che è sorta una vera propria disclipina di
studio chiamata “dunhuangologia”.
A me è rimasta innanzitutto l’idea dell’evolversi della pittura
cinese nel corso delle varie dinastie rappresentate, sotto influssi greco-indo-iranici
via via assorbiti e trasformati, fino agli ultimi esempi d’arte della dinastia
mongola Yuan (1279-1368), di stile tibetano, con la quale sfuma la
fama delle grotte, riscoperte poi dagli archeologi occidentali ai primi
del ‘900. Una specie di Galleria d’Arte Nazionale nella più naturale
delle sedi.
E soprattutto mi ha colpito la modernità delle pitture più
antiche, sicuramente fonte d’ispirazione per gli artisti occidentali
del ‘900.
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