DIONISO e i riti dionisiaci

 

Dioniso è un dio greco, egli è il corrispettivo greco del dio romano Bacco. Dioniso incarna tutto ciò che vi è di istintivo, sensuale, caotico e irrazionale nella vita. Nietzsche fece notare che la vita stessa, come principio che anima i viventi, era istintività, sensualità, caos e irrazionalità e per questo non poté che vedere in Dioniso la perfetta metafora dell'esistenza. Ciò che rende vivo i viventi è infatti un qualcosa di misterioso, qualcosa che sembra riguardare da vicino quell'energia priva di qualsiasi prevedibilità che è la fonte prima a cui attinge ogni cosa animata (è l'energia delle passioni, che fluttuano caotiche nel corpo e nello spirito degli uomini).

I tratti di Dioniso incarnano lo spirito di tutto ciò che vuole vivere: egli è il dio della vegetazione, la cui cieca rigogliosità si spinge ovunque le sia permesso spingersi, nonché della fertilità, il principio per cui dalle cose vive si generano i viventi. Ma non solo, Dioniso è il dio dell'uva e del vino, e quindi è il nume tutelare dell'ebrezza e della perdita della ragione. Dioniso toglieva le inibizioni, riconduceva gli uomini al loro stato primordiale e selvaggio, li faceva ballare, gridare, agitare, cadere nell'esaltazione parossistica che portava all'orgia e alla violenza, la quale era privata del suo significato negativo, in quanto nulla si riteneva giusto o ingiusto in regime di delirio.

Dioniso era l'unico dio che concedeva alle donne e agli schiavi di partecipare ai suoi riti, i quali prevedevano, oltre alla danza sfrenata e liberatoria, la caccia a mani nude di un animale selvatico, sbranato e ingoiato a brandelli ancora caldo e sanguinante: il calore del corpo e il sangue grondante erano cagione di vita da ingollare a piene fauci.

Ecco come si svolgeva il rito dionisiaco: lo scopo del rito era quello di ricordare le vicende di Dioniso, figlio di una relazione adulterina tra Zeus e una mortale e per questo perseguitato fino alla pazzia da Era, consorte legittima di Zeus. Il corteo era composto dalle menadi, donne incoronate con frasche di alloro e indossanti pelli di animali selvatici, e da uomini camuffati da satiri. Le donne erano ammesse ai riti perché impersonavano quella irrazionalità che il mondo greco contrapponeva alla ragione tipicamente maschile. Per permettere loro di ballare il più caoticamente possibile, esse reggevano il tirso, una verga circondata di edera e appesantita a una estremità da alcune pigne, il cui solo scopo era quello di rendere più instabile possibile il corpo della danzatrice. Ebbro di vino, il corteo si abbandonava alla suggestione musicale del ditirambo, una danza ritmica ossessiva scandita da flauti e da tamburi. Lo scopo del rito era quello di raggiungere quello speciale stato di possessione che gli antichi chiamavano entusiasmo: il rito, come già accennato, si chiudeva con la caccia e lo sbranamento di un animale selvatico.

A partire dal IV secolo a.C. questi riti cessarono gradualmente di essere officiati e vennero sostituiti da rappresentazioni simboliche, sia mimiche che musicali, meno cruente. Dall'usanza di sacrificare una bestia, solitamente un capro (tragos in greco), prese nome quella rappresentazione teatrale della vita che è la tragedia greca.


(Synt)


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