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La pena di morte

(a cura di Jonathan Fanesi)

 

Giunti ormai nel terzo millennio, in una società globale e “civilizzata“, sempre più multirazziale, dove non sussistono barriere nazionali, il dibattito sulla pena di morte non può dirsi concluso, anzi è in pieno svolgimento. Sin dall’antichità la pena di morte era considerata come la regina di tutte le pene, in quanto garantiva la sicurezza e la giustizia, soddisfacendo il desiderio di vendetta.

Un grande della filosofia greca, il divin Platone, nelle Leggi, asseriva la funzione correttiva della pena, ma nello stesso tempo se il delinquente si mostrava incurabile doveva essere ucciso. Quali delitti dovevano essere puniti con la pena capitale? Numerosi, i reati contro i genitori, le divinità; ma in particolar modo gli omicidi volontari.

La teoria platonica, era più antica del filosofo, essa si basava sul concetto di naturalità, vi doveva essere una corrispondenza tra reato e pena, un armonico rapporto secondo i medievali tra il malum passionis e il malum actionis.

Nonostante, la religione cattolico–cristiana abbia un alto contenuto di carità, di fratellanza, di amore verso il prossimo, non ha mai preso una posizione decisa nei confronti della pena di morte.

Paradossalmente, il dibattito è molto moderno, la prima vera e propria trattazione del problema da un punto di vista giuridico–civile la dobbiamo a Cesare Beccaria con il suo scritto “Dei delitti e delle pene“.

Il pensatore milanese, inizialmente in Italia non venne apprezzato, al contrario Voltaire in Francia lo aveva reso famoso, come paladino di una società giusta e costituzionale.

Le tesi beccariane, innovative per l’epoca; erano molto lineari: a) la pena deve avere una funzione intimidatrice, distogliere l’uomo dal compiere un’azione illegale; b) il sistema giudiziario non deve essere crudele e disumano, ma infallibile e certo; c) è assurdo che in uno stato i cittadini abbiano il diritto alla vita.

Con la precedente teoria Beccaria, esaltava la funzione utilitaristica della pena, la pena capitale non è né utile né necessaria.

Il “Dei delitti e delle pene“ ebbe una risonanza eccezionale in tutta Europa sia da un punto di vista ideologico che sociale; basti pensare che con la legge toscana del 1786 si cercava di limitare l’uso di questa barbara usanza; qualche anno prima, in Russia nel 1765 Caterina II abolì la pena capitale perché disumana; va ricordato che le pene vigenti all’epoca erano durissime, e nella maggior parte dei casi conducevano alla morte.

Non mancarono accuse contro l’argomentazione del Beccaria, il Filangieri ad esempio nella “ Scienza della legislazione “ ( 1783 ) asserì : << se l’uomo nello stato di natura ha il diritto alla vita, nello stato civile questo diritto lo può perdere con le sue azioni >>.

La teoria abolizionistica non doveva aver grande fortuna nella filosofia penale del tempo, Rousseau, Kant ed Hegel si schierano contro l’argomentazione del Beccaria.

Rousseau, nel Contratto sociale, aveva confutato in anticipo l’argomento contrattualistico, egli diceva che l’attribuire allo stato la propria vita serve non già a distruggerla, ma a garantirla.

Kant asseriva come la pena fosse finalizzata alla giustizia, per svolgere questa funzione ci doveva essere una perfetta corrispondenza tra delitto e pena, una sorta di uguaglianza correttiva. La pena di morte è un imperativo categorico ( il tu devi) non un imperativo ipotetico.

Hegel si spinse oltre; confutò il Beccaria, mostrando la funzione “razionale“ della pena di morte; quando il delinquente viene giustiziato si ristabilisce l’ordine e l’equilibrio.

Chi doveva seguire le orme del pensatore milanese?

Robespierre, il simbolo della Rivoluzione francese, il giustiziere di Luigi XVI, il fautore del regime del terrore, in un discorso all’Assemblea costituente si schierò apertamente contro la pena capitale mostrando come essa non sia più deterrente rispetto alle altre pene, confutando l’argomento della giustizia e del consenso popolare: << la mitezza della pena corrisponde ad un popolo civile, la crudeltà ai popoli barbari >>.

Anche se il dibattito non provocò l’abolizione totale, portò in un certo qual modo all’umanizzazione della pena, alla restrizione dei delitti punibili, basti pensare come in Inghilterra all’inizio del 800’ , i reati punibili con l’impiccagione erano più di duecento.

Nel migliorare la condanna, si cercò di renderla immediata, evitando l’arte del supplizio come dice Foucault, cioè il suddividere la sofferenza in “ mille morti “, ottenendo prima che l’esistenza cessi, le più raffinati agonie.

Il supplizio risponde a due esigenze differenti: a) l’infamia, b) la pubblicità; infamante perché lascia sul corpo segni tangibili della pena; l’esecuzione dev’essere pubblica per servire da monito per non commettere altri reati.

Oggi, la maggior parte degli stati non abolizionisti, la eseguono con discrezione e riserbo, eliminando le torture, anche se non ci sono sempre riusciti, basti leggere i resoconti delle tre dorme di esecuzioni più comuni: la sedia elettrica in America, l’impiccagione in Inghilterra, la ghigliottina in Francia.

La morte non è sempre immediata, può essere lenta e dolorosa, a discapito di quanto si voglia far credere.

Nei “ Miserabili “, Victor Hugo criticava aspramente la “ pubblicizzazione” ridendola disumana: << si può essere indifferenti verso la pena di morte e non pronunciarsi, non dire né si né no, finché non si visto una ghigliottina >>.

Bisogna però ricordare che al giorno d’oggi, il potere giudiziario nel condannare a morte un individuo è molto cauto, alcune volte il condannato viene addirittura graziato, in America ci state opposizioni contro la pena capitale, perché ritenuta anticostituzionale.

Gli argomenti pro e contro dipendono da due diverse concezioni della pena: la retributiva e la preventiva.

La prima concepisce la giustizia come equità tra delitto e pena, possiamo parlare di teoria retributiva con Kant e Hegel, nell’Inferno dantesco vige la legge del contraccambio: Chi uccide sia ucciso!

Secondo la preventiva, la funzione della pena è quella di scoraggiare le azioni che un determinato ordinamento considera dannose con la minaccia di una male.

Le due teorie precedenti poggiano su due concezioni etiche distinte: la morale dei principi assoluti e degli imperativi categorici ( anti – abolizionisti ); la morale utilitaristiche ( abolizionisti ), Beccaria ad esempio.

Nel Storie di Tucidide, gli ateniesi devono risolvere la sorte degli abitanti di Mitilene che si sono ribellati, parlano due oratori: Cleone sostiene che i ribelli devono essere condannati a morte perché deve essere reso loro il contraccambio e debbono essere puniti come meritano; inoltre gli alleati sapranno che chi si ribella morirà.

Diodoto, al contrario sostiene al contrario che la pena di morte non serve a nulla perché è impossibile – e dà prova di grande ingenuità che lo pensa – che la natura umana, quando è bramosamente lanciata a realizzare qualche progetto, possa avere freno nella forza delle leggi o in qualche altra minaccia, onde bisogna evitare troppa fiducia che si abbia nella pena di morte una garanzia sicura ad impedire il male.

Il dibattito intorno a questo argomento è assai complesse e spinoso; vi sono altre tre teorie a riguardo: a) espiazione, b) emenda, c) difesa sociale.

La prima argomentazione, sottolinea l’importanza dell’espiazione del delitto; nello stesso tempo non assume posizioni ben precise, possiamo affermare che nutre una leggera propensione verso l’abolizione.

L’emenda, è la sola teoria che esclude totalmente la pena di morte, l’uomo ha la possibilità di redimersi, con la morte gli si sbarra la via di perfezionamento morale.

Nel siècle des Lumières; les philosophes apprezzarono il principio dell’emenda ; ad esempio secondo Voltaire un uomo poteva redimersi attraverso il lavoro. La terza concezione, quella della difesa sociale, è anch’essa ambigua: generalmente i sostenitori della pena come difesa sociale sono stati e sono abolizionisti, ma lo sono per ragioni umanitarie.

Abbiamo detto in precedenza che le due posizioni distinte dipendano da due diverse concezioni etiche: l’etica dei principi buoni, la morale dei buoni risultati.

Quindi è possibile parlare di etica assoluta e di etica utilitaristica: per gli anti – abolizionisti la pena di morte è giusta; per gli altri, la pena non è utile.

Per i primi è giusta indipendentemente dall’utilità, per i secondi non è utile indipendentemente dalla giustizia.

L’argomento base per gli abolizionisti è stato quello della deterrenza; si sono fatti numerosi studi e ricerche a riguardo senza mai avere esisti precisi; nello stesso tempo si escludono i sondaggi popolari perché il popolo è facilmente influenzabile dalla situazione passionale e sociale in cui vive.

L’Italia fu uno dei primi paesi ad abolire la pena di morte, nel 1889 con il codice penale Zanardelli, anche se con l’avvento del fascismo l’uso della pena capitale fu restaurata.

Per concludere l’argomento possiamo ricordare Paolo Rossi che nel suo scritto “La pena di morte e la sua critica“, confuta la pena di morte ricorrendo alla tesi dell’emenda.

Infine Marcel Normand, si pone favorevolmente dinnanzi alla pena di morte mostrando come numerosi delinquenti rilasciati abbiano commesso altri omicidi nonostante anni di prigione.

Il dibattito può dirsi solo iniziato…

 

 

Jonathan Fanesi è studente di filosofia presso l’ università di Bologna, s’ interessa di teoretica, con particolare interesse verso le problematiche relative al linguaggio e alla logica.

 

 

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