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La prova ontologica di
Sant'Anselmo d'Aosta

(di Tommaso Di Brango)

 

"Capitolo 2. 1. Dunque, o Signore, tu che dai l'intelletto della fede, concedimi di intendere, per quanto tu sai essere utile, che tu esisti come crediamo, che tu sei quello che crediamo. Ora noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore. 2. O forse non esiste qualche natura siffatta, poiché l'insipiente ha detto in cuor suo: Dio non esiste (Sal 14, 1 e 53, 1)? Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ode ciò che io dico, cioè qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, intende ciò che sente dire; e ciò che intende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che ciò esiste. 3. Altro infatti è che una cosa esista nell'intelletto e altro intendere che una cosa esista. Infatti quando il pittore premedita ciò che sta per fare, egli lo ha nell'intelletto, ma non intende ancora che esiste ciò che non ha ancora fatto. Quando poi lo ha dipinto, egli non solo lo ha nell'intelletto, ma intende anche che esiste ciò che ha già fatto. 4. Dunque anche l'insipiente deve convincersi che almeno nell'intelletto esiste qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, poiché egli lo intende, quando lo sente dire, e tutto ciò che intende esiste nell'intelletto. Ma certamente ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non può esistere nel solo intelletto. Infatti, se esiste nel solo intelletto, si può pensarlo esistente anche nella realtà e questa allora sarebbe maggiore. 5. Di conseguenza se ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste nel solo intelletto, ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore è ciò di cui può pensarsi una cosa maggiore. Questo evidentemente non può essere. Dunque, senza dubbio, qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste sia nell'intelletto sia nella realtà. Capitolo 3. 1. Questa cosa dunque esiste in modo così vero che non si può pensare che non esiste. Infatti si può pensare che esista qualcosa che non si può pensare non esistente; ma questo è maggiore di ciò che si può pensare non esistente. Dunque, se ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore può essere pensato come non esistente, ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non è ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore. E ciò è contraddittorio. Dunque qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste in modo così vero che non si può pensare non esistente. 2. E questo sei tu, o Signore Dio nostro (...)." (Anselmo d'Aosta, Proslogion, capp. II-III, pagg. 69-75, Fabbri Editori).

Il nome di Anselmo d'Aosta si lega indissolubilmente a quanto riportato in questo scritto. L'opera complessiva dell'abate di Bec viene il più delle volte riassunta in queste poche battute, quando in realtà essa comprende campi speculativi ben più ampi, soprattutto a livello teologico. Del resto è questo uno dei grandi limiti degli studi che si portano avanti oggigiorno in merito al pensiero medievale. Esiste una folta schiera di professori di filosofia e filosofi che volentieri getterebbe in uno stesso, indistinto calderone le speculazioni agostiniane con quelle tomistiche e non vede differenza tra Scoto e Ockham o che, e questo avviene nei casi in cui c'è una maggiore padronanza dell'argomento, lo bolla come "teologia", cioè campo di studio estraneo (e forse inferiore) alla filosofia. Il pensiero medievale è preso in blocco come "pensiero medievale", quasi fosse una realtà a sè, un monolite chiuso nella sua storia e nella sua cultura. In realtà ciò è quanto di più errato si possa fare, e per una serie di ragioni. In primo luogo ritenere riassumibili in uno stesso filone di pensiero personalità come San Tommaso d'Aquino, Sant'Agostino di Ippona, Sant'Anselmo d'Aosta, Guglielmo di Ockham, Duns Scoto, Johann Eckhart ecc. ecc. perchè accomunati dalla Fede cristiana concederebbe il diritto di ritenersi autorizzati a chiudere in una stessa corrente Cartesio, Kant, Fichte, Hegel e altri perché propongono delle filosofie contrassegnate dal primato del soggetto. In secondo luogo non si vedono ragioni serie per non considerare la valenza filosofica del pensiero medievale.

La filosofia è un procedimento razionale, e il problema della ricerca totale della Verità (problema caro al mondo cristiano) implica la presenza dell'elemento razionale, altrimenti tale ricerca non è totale. Forse che San Tommaso è solo teologo perché, oltre che di gnoseologia, metafisica, etica, politica, antropologia (quindi di tutte discipline o sottodiscipline filosofiche) parla anche di teologia? E lo stesso discorso si applica a buona parte delle riflessioni che il Medioevo ci propone. Del resto anche i padri della filosofia "moderna" (e qui ci si riferisce a Cartesio, Leibniz e Spinoza) non potranno fare a meno del contributo del pensiero medievale, per quanto cerchino di distaccarsene.
In ultima istanza pare difficile credere davvero che la teologia abbia minor dignità della filosofia solo perché non segue un metodo di carattere esclusivamente filosofico. La teologia è, come sottoscriverebbe Maritain, ricerca razionale interna alle Verità della Fede. Bollarla come inferiore solo perché indaga il contenuto della Fede è quantomeno un abuso. Un ragionamento del genere da parte di un filosofo nei confronti di un teologo pare vicino a quello di chi stabilisce la superiorità del proprio lavoro solo in forza del fatto che è il suo. Ma ragionamenti del genere possono essere trattati meglio altrove, poichè non è di essi che ora ci interesseremo.

Quel che ora ci interessa è l'osservazione, per usare un termine di moda oggi, al microscopio della "prova" anselmiana sopra riportata. E osservarla al microscopio significa, in primo luogo, sottolineare il modo in cui in essa è trattato il tema della coabitazione di Fede e ragione nell’animo umano. L’invocazione iniziale tematizza lo slancio mistico del credente Anselmo, cioè la consapevolezza del limite intrinseco non alle potenzialità della ragione umana, bensì alle potenzialità di un uomo staccato da Dio. È in essa contenuta, infatti, la preghiera di chi vuol capire ma sa di non riuscire a capire se non è Dio stesso a prenderlo per mano e portarlo a Sé. Dio dà “l’intelletto della Fede”, cioè dà all’uomo la capacità di “intus legere”, ovvero di penetrare internamente alle Verità della Fede, ma Dio può dare, per quanto sa essere utile, anche la forza di intendere, cioè di capire, ovvero assimilare razionalmente.

La Fede anselmiana è la Fede dell’esperienzialità, cioè la Fede che non è assimilazione di un concetto la cui dimostrabilità risulta impossibile, bensì esperienza metaempirica, mistica, dalla carica esperienziale più profonda di ogni conoscenza empirica. L’intelletto della Fede è questo, cioè la capacità di penetrare dentro le Verità che la Fede ci comunica, cioè la capacità di vivere tali Verità. Ma, oltre alla Verità esperienziale della Fede, l’uomo cerca la Verità speculativa della ragione. Questo suo desiderio non nasce, come molti potrebbero pensare, da una sorta di incertezza di fondo della Verità di Fede, bensì dalla necessità di fronteggiare chi tale Verità nega, tant’è vero che i riferimenti all’”insipiente” sono espliciti e continui nel testo di Anselmo. Fin qui il discorso può apparire piatto, sentito troppe volte per destare stupore o interesse. Alla fin fine esso ripropone i classici argomenti che vedono la razionalità come non contrastante bensì complementare alla Fede… Cose già ascoltate.

Ma la grande intuizione anselmiana sta nel porre la Verità di Fede come elemento della dimostrazione senza ricorrere al dogma, cioè mostrare non solo la veridicità del contenuto della Fede da un punto di vista teologico, ma anche filosofico. Difatti quando si dice che il Dio in cui crediamo è “qui nihil maius cogitari possit” (“ciò di cui nulla si può pensare maggiore”) si afferma che la massimità del divino è massimità assoluta. Pensare il maggiore del relativo, cioè dell’elemento relazionato allo spazio e al tempo, è possibile (pur mantenendosi fermi nel campo della pura astrazione intellettuale e rimanendo al di fuori dell’ontologia), mentre pensare il maggiore dell’Assoluto significherebbe pensare oltre il pensiero stesso, giacché i nostri pensieri pensano in relazione all’oggetto pensato, sia esso creazione fantastica sia esso astrazione mentale di una realtà. Ma pensare oltre il pensiero significherebbe non trascendere il pensiero stesso, poiché anche questo atto sarebbe pensiero. È da questo dato di fatto che derivano due conseguenze fondamentali: l’impossibilità di pensare di eliminare almeno l’elemento concettuale del “quo nihil maius cogitari possit” e l’impossibilità ad affermare la possibilità di una astrazione mentale ad esso superiore. In ambedue i casi si sarebbe di fronte a una contraddizione performativa, cioè in ambedue i casi il contenuto dell’asserto sarebbe contrastato dalla sua stessa forza assertoria.

Negare, infatti, il fatto dell’esistenza del concetto di quello che Cusano in seguito chiamerà “Massimo Assoluto” (e quindi negare la sua pensabilità) significherebbe esporre quel concetto nella sua natura, quindi pensarlo. Ciò non significa pensare l’Assoluto (che è impossibile), ma comprendere una sua proprietà. E lo stesso discorso si applica senza difficoltà al tema dell’effettiva impossibilità a pensare qualcosa di superiore al Massimo, giacché se pensare il Massimo nella sua assolutezza è impossibile a causa della natura del nostro pensiero (che è relazionante) è anche vero che non pensarlo come “ab-“ “solutus”, cioè elemento “sciolto”, “incondizionato”, fondando così un sapere di carattere negativo in merito ad esso, nega ogni possibile discorso su di esso, anche quello sulla sua inesistenza. Ma poiché parlare di ciò è possibile, è possibile la fondazione di un sapere negativo in proposito. Queste posizioni non possono essere definite pura teologia, poiché il loro procedimento non ha nulla da invidiare al metodo applicato da Aristotele (tanto per fare un esempio) per argomentare in merito ai primi principi logici (identità, non contraddizione, terzo escluso ecc. ecc.). Anzi, può essere ritenuto esattamente ad esso debitore. Chi nega il principio di non-contraddizione, dice Aristotele, lo afferma perché ne fa uso nella sua stessa negazione (anche nel suo semplice parlare o pensare), mentre per Anselmo chi nega la pensabilità del Massimo Assoluto di fatto la afferma perché, nell’esporre tali concetti, espone anche quello di Massimo, quindi lo pensa.

Giunti al punto in cui si è giunti non si può dire che il Massimo esiste come oggetto, poiché finora se ne è analizzato solo il concetto e la pensabilità del concetto, come Anselmo stesso sottolinea, non implica l’esistenza oggettiva dell’oggetto (il pittore che pensa la sua opera ce l’ha in mente, ma non di fronte). Siamo qui di fronte all’anticipazione della differenziazione tra le idee innate, avventizie e fattizie di Cartesio, per certi aspetti. E qui Anselmo colpisce allo stomaco chi, superficialmente, muove alla sua prova l’obiezione per cui “non è sufficiente pensare qualcosa perché quel qualcosa esista”. È vero, è innegabile il fatto che, come dice Gilson, chi studia il pensiero conosce ciò che ha in testa ma non la realtà, ma è anche vero che l’abate di Bec era perfettamente conscio di ciò e proprio tale realtà lo spingerà a una argomentazione più complessa.

L’esistenza concettuale non è esistenza oggettiva, poiché l’astrazione mentale pura, priva di rispondenze col reale, può portarci al massimo a una sorta di ontologia della mente, cioè di analisi della realtà oggettiva del concetto sia che si parli di concetti esprimenti sé stessi, cioè concettualità fittizie, sia che si parli di concetti rispondenti all’oggetto. Ma in ogni caso non sarebbe l’oggetto estraneo al pensiero ciò che interessa l’ontologo della mente. Tuttavia l’esistenza di un concetto implica la possibilità dell’esistenza di un oggetto a cui esso risponde. Ora: l’oggetto ha maggior tasso di essere del concetto, poiché il concetto è pura accidentalità, mentre l’oggetto è, preso a sé, realtà a sé. Una cifra di denaro enorme esistente solo come concetto è oggettivamente inferiore a un quantità minima, poiché la prima non ha alcuna realtà oggettiva mentre la seconda ce l’ha (si potrebbe provare a fare la spesa con mille euro pensati per vedere se valgono oggettivamente di più di dieci euro reali…). Da ciò segue che pensare l’esistente oggettivo significa pensare ciò che ha maggior tasso di essere, quindi ciò che è maggiore, del solo pensato, del concetto. È a questo punto che il ragionamento anselmiano si interseca in maniera più netta con la forza micidiale del principio di non-contraddizione aristotelico. Pensare ciò di cui nulla è pensabile maggiore significa, in forza di tutto ciò, non poter far altro che pensarlo esistente.

È infatti chiaro, lampante il fatto che se lo si pensasse come solo concetto non rispondente ad alcuna realtà oggettiva di fatto si potrebbe pensare qualcosa maggiore ad esso, poiché l’oggetto è sempre maggiore rispetto al concetto. Ma il Massimo Assoluto o è ciò di cui nulla può essere pensato maggiore o non lo è, non può darsi che lo si ritenga ciò di cui nulla si può pensare maggiore e, nello stesso tempo, si ritenga che qualcosa di maggiore ad esso può essere pensato. Ed essendo assodato che Dio è “quo nihil maius cogitari possit” (quella era la premessa su cui si basava tutto il ragionamento) è anche assodato che pensarlo come concetto vuol dire pensarlo come oggetto, cioè capire che il concetto che si ha è astrazione mentale dell’oggetto perché se così non fosse (cioè se il concetto fosse creato arbitrariamente dal soggetto) esso non sarebbe ciò che è, cioè il concetto di qualcosa. Se il Massimo Assoluto esistesse solo in forma concettuale anche un granello di polvere avente realtà oggettiva gli sarebbe maggiore, quindi potrebbe essere pensato come maggiore rispetto ad esso. Quindi Dio esiste in maniera così vera che pensare la Sua inesistenza è impossibile.

E’ qui che l’argomentazione del santo pone il suo sigillo. Ma si potrebbe presentare l’obiezione: ma come ha potuto l’insipiente dire “Dio non esiste” se è vero che è impossibile negare l’esistenza di Dio. La risposta di Anselmo non dobbiamo inventarcela: la conosciamo. L’insipiente afferma ciò che afferma perché non distingue il piano logico-concettuale della sua affermazione da quello puramente linguistico, cioè fa di un linguaggio non rispondente al concetto il contenuto della sua tesi. Di fatto dire che “Dio non esiste” non è altro che sfruttare una delle tante improprietà linguistiche di cui disponiamo, null’altro.

Il lettore potrà ora avere l’idea che con questo svolgimento dei concetti espressi da Anselmo abbiamo intenzione di sottoscrivere il valore della sua prova. In fondo in questa esposizione si è indirettamente o direttamente risposto a molte delle obiezioni che si sono mosse ad essa, e i toni adottati sono tutt’altro che critici in senso negativo. Ma non è così. Non è nostra intenzione affermare che una prova dell’esistenza di Dio possiamo averla grazie alla tesi anselmiana, la quale, a nostro avviso, presenta limiti che nel corso della storia della filosofia sono stati evidenziati non tanto dal suo contemporaneo Gaunlione (che esporrà argomenti a cui replicare non è impossibile), quanto da personalità come San Tommaso d’Aquino, Immanuel Kant e altri. Certo, Cartesio, Leibniz, Hegel e molti altri saranno concordi nel sottoscriverla (trovando a far ad essi da antitesi Hobbes, Hume, Gassendi, Schopenhauer, Kierkgaard ecc. ecc.), ma è anche vero che non è la qualità del pensatore a dare veridicità a un ragionamento, bensì il contrario. Risulta effettivamente difficile poter pensare che una prova che parte dall’essenza dell’oggetto da dimostrare possa essere una prova che non presuppone il suo risultato positivo (Kant e Tommaso sono qui concordi). È ad esempio molto difficile affermare che Dio esiste partendo dal presupposto che è “qui nihil maius cogitari possit”, giacché tale presupposto ci è dato dalla Fede, non dalla ragione (alla fin fine esistono molte forme di religiosità che non affermano ciò). Ma non è nemmeno nostra intenzione proporre una trattazione minuziosa di tutti i limiti del risultato dello sforzo speculativo (sempre ammirevole) di Anselmo. Piuttosto è interessante osservare come in un argomento da molti ritenuto oggetto per manuali scolastici si incontrino tematiche assai care al pensiero contemporaneo. Come si può, infatti, reputare oggetto d’antiquariato un tema che include in sé tanto il problema ontologico dell’esistenza di Dio (checché ne dica Nietzsche) quanto le problematiche inerenti alla validità del linguaggio in campo speculativo o i problemi dell’ontologia della mente e delle rispondenze mente/oggetto? Al contrario ci pare estremamente interessante osservare come Anselmo sia attualissimo e completissimo in tutto ciò. Se non per altro, almeno per mostrare che nel Medioevo non s’è fatta solo (eccellente) teologia, ma anche (buona) filosofia!

 

Tommaso Di Brango è studente di lettere moderne a Cassino, si occupa di teologia e letteratura, oltre a svolgere l'attività di musicista.

 

 

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