IL MENTO NELL’ERBA

 

 

 

Io conoscevo uno che tutte le volte che giocava al fùtbal cambiava pettinatura a seconda del ruolo in cui giocava. Sembra niente, ma è la somma che fa il totale.

 

What’s your name?

Sicché gli amici di lassù ti dicono, Vieni che andiamo a Karlovy Vary, al Festival del Cinema. Va bene, faccio io, via che si va.  E così mi fiondo a Karlovy Vary, che a dirla tutta è proprio una bella cittadina, lì fra le colline della Boemia, una cittadina piena piena di fonti termali che sprizzano acqua bollente con getti che volano verso l’alto per metri e metri, piena piena di baroccini che ti vendono per strada quelle cialde rotonde gonfie di nocciole tritate o di cioccolato, piena piena di Becherovka che è quel vermuttino d’erbe che scivola a meraviglia come aperitivo ma anche come digestivo. E, va da sé, piena piena dell’annuale Festival del Cinema. E così c’è il Palazzo del Cinema e un’altra dozzina di sale e salette sparse in tutta la cittadina. E tanta gioventù, che questo, dicono, è un Festival da giovani. Bello. Davvero. E quest’anno c’è una retrospettiva dedicata a John Cassavetes. Bellissimo! John Cassavetes, uno dei miei preferiti, bellissimo, sì.

Parla parla m’è venuta fame, faccio. E allora siamo lì che entriamo in un ristorante e mentre noi siamo lì che entriamo non ti vedo uscire Ben Gazzara. Orpo! Siamo neanche arrivati, neanche visto un film, e già t’incocco la star! Mister Gazzara, faccio, e protendo la mano, lui guarda stringe e bofonchia qualcosa mentre la faccia scavata si smorfia in un sorriso. Stessi tempi di quando recita, lunghi lunghi, con quelle pause, lunghe lunghe. Va bene così, che è Ben Gazzara, ha lavorato con Cassavetes, può fare quello che vuole. E allora guardo il programma e ti vedo che a mezzanotte questi ti proiettano in Sala grande “Opening night”, che c’è Gazzara protagonista con la Gena Rowlands, gran donna. Ma guarda tu, che il Gazzara è venuto fin qua per rivedersi in un film! Poi invece mi dicono che è l’ospite d’onore che introdurrà il film del Cassavetes. Che ogni sera ce n’è uno, di film. E anche di ospite d’onore. Dopodomani, ad esempio, c’è Seymour Cassel, di ospite d’onore. Chi?, faccio, Seymour Cassel?, faccio, Davvero? Ma io adoro Seymour Cassel, ho visto tutti i film di Cassavetes con Seymour Cassel, a cominciare da “Faces”, che è un’ira di Dio di capolavoro del cinema, “Faces”, per continuare con “Minnie e Moskovitz”, che è uno di quei film che ti ribaltano, che tu segui quei personaggi bislacchi interpretati da Seymour Cassel e Gena Rowlands, gran donna, tu li segui, dicevo, e loro ti ribaltano, “Minnie e Moskovitz”. Il Seymour Cassel, sigaro in bocca gran sorriso e faccia da schiaffi, da giovane. E magari anche da vecchio, che ora li avrà i suoi settant’anni e i capelli bianchi bianchi, Seymour Cassel. Bene. E così si parte alla grande e visto che è il primo giorno ti pappi subito tre film per arrivare a sera, via che si va, e tra un film e l’altro via che ti sgarghi una Becherovka, ti ricordi della Becherovka? Sì? Bene. Bello il mondo del cinema. Bello. Davvero.

Sicché arriviamo a mezzanotte e io ho una fame cruda ma i miei amici di lassù mi dicono, Non si mangia, che tu adesso ti vai a vedere Cassavetes e poi ci raggiungi a una festa e così si mangia lì. E allora mi siedo in Sala grande ed ecco che ti entra Ben Gazzara. Io lo saluto con la mano, Ciao Ben, ma lui non mi caga, è teso, che deve presentare il film, può mica star dietro a me che da lontano lo saluto con la mano e gli dico Ciao Ben, si può capire. Così mi volto e dico a quella al mio fianco, che è un bel donnino, dico, Quello è Ben, un mio amico, ci siamo visti a pranzo, col Ben. Non mi caga neanche lei. Dev’essere tesa. Cosa si tende a fare che lei non deve presentare niente, non so. Però è tesa. E allora esco, che ho una fame che mi gorgoglia tutta la pancia, nessuno mi caga e poi il film l’ho già visto due volte, tanto bello, ma l’ho già visto due volte, e allora io esco e vado alla festa. Tirar le tre è un attimo. Bello il mondo del cinema. Bello. Davvero.

Sveglia alle otto e via che la seconda giornata al Festival comincia, via che i film volano come pallini di piombo sparati dal contadino nel culo dei ladri, e noi ci sentiamo pallini mica culi, via che alla fine della giornata è come se avessi visto un unico filmone di dodici ore. E così tutto ben rimbombolito alla sera vai ad un’altra festa, ma questa di Vips, questa organizzata dai critici cinematografici boemi, questa sulle colline, questa dentro un Centro termale primi novecento tutto liberty tutto cristalli tutto specchi tutto legni bianchi tutto gazebo e orchestrina tutto ristorante scic tutto caffè d’antàn, sì sì, questa con l’invito esclusivo, e io ce l’ho, sono mica l’ultimo quaquaraqua, conosco Ben Gazzara, io. E poi alla festa di ieri notte ho conosciuto anche una giovane truccatrice, perché, si sa, questo è un Festival da giovani, e così tra una cosa e l’altra m’ha allungato un invito, bella lì. E allora via alla festa dei Vips, via che come arrivi le telecamere t’inquadrano, che prima t’illudi d’esser famoso e poi scopri che inquadrano tutti, cani e porci, che neanche ce l’avranno la cassetta dentro la telecamera, via allora con lo sciampagnino, via col buffet libero, che avevo giusto giusto una fame cruda, via che è bello il mondo del cinema, via che ti giri e ti vedi arrivare la Jacqueline Bisset. Orpo, la Bisset. E allora poggi lo strudel, ti netti la bocca con la mano e via che parti verso la Jacqueline, parti e protendi la mano, l’altra, quella pulita, protendi la mano e dici Madame Bisset, e zacchete, piazzi il baciamano, Madame Bisset, riprendi, Sono un amico del Ben Gazzara, atutelhòr, madame. Che la classe non è mica pizza e fichi! Poi tirar le tre è un attimo. Bello il mondo del cinema. Bello. Davvero.

Ecco, il risveglio alle otto del terzo giorno l’è un fiatin più duro, ma siamo mica qua per dormire, noi, siamo qua per il Festival, diobono, e allora via, si va, che parte la rumba dei films, che arrivi a sera dopo aver visto un film polacco dentro uno ceco dentro uno a stelle e strisce dentro uno cinese, che alla fine ti ritrovi in testa il solito filmone unico di dodici ore senza capo né coda, e l’unica immagine che ti rimbomba in testa è quella del film ceco dove c’è un tifoso di hockey che vive in un paesino sperduto e ha una tale passione per l’alcol che ti beve anche la miscela dei motorini e il liquido infiammabile dei lumini al cimitero, hai visto cosa fa la sete, è come per i film dei Festival, uno si butta a corpo morto e poi non sa quando smettere. E così quando esci dopo la quinta proiezione del giorno, e la dodicesima in settantadue ore, ti accasci sulla prima panchina che trovi, che non ti senti più io ma un altro, e guardi passare i giovani appena arrivati in questo Festival da giovani, e ti senti come quel pugno di soldati yankee in Platoon, quelli appena usciti vivi per miracolo da una battaglia bestia contro Charlie, che il nemico lo chiamavano Charlie laggiù a Saigon, shit!, quelli che vedono arrivare le reclute fresche fresche di volo diretto, ti senti come quei soldati lì, che quando vedono le reclute vogliosette d’azione non sanno se ridere o piangere, ma non fanno né l’una né l’altra cosa, perché ormai non hanno la forza di fare più niente, quei soldati lì.

E a fatica ti prepari all’ultima proiezione, che c’è il film di Cassavetes da vedere un’ora prima di mezzanotte, che c’è Seymour Cassel in persona che lo presenta, vorrai mica mancare. Così ti avvii lemme lemme alla Sala grande e quando ci arrivi fai, Scusate, visito la tualètt e vi raggiungo, spetéme dentro, va là. Apri la porta, e al pissuàr c’è Seymour Cassel. In persona. Orpo! Ti guarda, lo guardi e ti viene da porgergli la mano, ma poi decidi che è meglio di no, e ti chiudi dietro la porta di un gabinetto. Ma proprio qui dovevo incontrare Seymour Cassel?! Proprio qui, al pissuàr?! Che a stringer la mano qui non puoi, che sono impegnate, proprio qui?! Ah, sfiga! Fatto quel che devi fare ti sciacqui le mani e ti ripeti, Ah, sfiga! Esci dalle tualètt e Seymour Cassel, in persona, è lì fuori nel corridoio che s’accende un sigaro. Orpo! Che culo!, ti dici, Stavolta non scappi, Seymour! E sei già pronto a dire, Mister Cassel, come sta? Tutto ben? Sono un amico del Gazzara e della Jacqueline Bisset, ci facciamo una birretta parlando dei vecchi tempi, Seymour? Sei pronto a dirgli questo, al Seymour, che il Seymour ti anticipa e ti fa, What’s your name? My name is Seymour Cassel. Giuro. Così. E tu prima resti a bocca aperta, poi gli dici il nome e sempre a bocca aperta gli stringi anche la mano che lui t’ha proteso, e visto che nel frattempo s’è avvicinato il Kristoff, che il Kristoff è uno dei tuoi amici di lassù, il Seymour si gira e fa al Kristoff, giuro, What’s your name? My name is Seymour Cassel. Uguale, come prima. Giuro. Un tiro al sigaro e ci dice, il Seymour, Andate a vedere il film che è un bel film, ci sono io da giovane, io, Seymour Cassel. Gira i tacchi e se ne va. Seymour Cassel, un grande. E noi restiamo lì, come due cocài in spiaggia a Grao.

Poi vediamo il film. Bello, c’era Seymour Cassel da giovane, che questo è un Festival da giovani.

Il prossimo anno ci torno. Sì. Davvero.

 

 

 

Fùtbal!

Insomma quel giorno lì era il giorno che dovevo accompagnare la nonna dalla parrucchiera. Che il giorno che la nonna va dalla parrucchiera, quel giorno lì viene segnato sul calendario almeno un mese prima, e mia nonna mi telefona ogni giorno almeno una settimana prima, e il giorno che si va dalla parrucchiera, mia nonna si sveglia alle cinque e venti del mattino, che deve prepararsi in tempo che poi l’appuntamento è alle sei. Di sera, però.

Insomma quel giorno lì sono io che porto la nonna in automobile fino al negozio e poi aspetto che la parrucchiera, la Ines, lavori di fino, zin zin zin. E me le ascolto babettare a voce altissima, che la nonna è un filino sorda, e sorride sempre quando le parli, giacché non sente, sorride e poi continua il discorso suo. Sicché ascolto quelle babette che mi fanno tanto ridere, che loro due insieme mi fanno sempre tanto ridere, che ognuna fa un discorso per conto suo e mia nonna sorride tanto, quando parla la Ines. Poi la nonna ed io si va al caffè e al caffè la nonna mi offre una chinamartini calda e mi presenta una volta ancora alle sue amiche, quelle che l’alzhaimer è sempre lì che le guata, sono povere vecchine sole, mica come me che ho il nipotino che mi porta dalla parrucchiera, dice a squarciagola la mia nonnina un filino sorda.

Insomma quel giorno lì non mi chiama Gino? Ciao Gino, faccio io, Ciao Guerrino, fa’ lui, Ciao, faccio io, Eh sì ciao, fa’ lui, e potevamo continuare così per ore, che siamo tutte e due persone gentili, ma poi lui scarta di lato e mi fa, Guerrino ti va una partita a calcio?… Orpo Gino, al fùtbal, faccio io, Per una partita al fùtbal sono sempre pronto! E intanto pensavo, tra me e me, che ero pronto già da dodici anni, che era da tanto che non mi chiamavano a giocare al fùtbal, che mai nessuno mi chiama a giocare al fùtbal, che, dicono loro, non sono proprio Maradona, che poi è un modo per farmi capire fra le righe delle cose, sono mica ingenuo, io.

E allora vieni al campo sportivo alle sette, fa Gino, Vieni al campo che i tre fratelli Poli si sono intossicati coi funghi, fa Gino, E se non vieni tu siamo neanche in undici, fa Gino. Sono soddisfazioni. Come quando da piccolo giocavi in strada e si facevano le squadre e ad uno ad uno venivano scelti tutti, ma tutti tutti eh, e poi rimanevi tu, e i due capitani si guardavano e rifacevano la conta solo per te. Poi giocavi con chi perdeva la conta.

Alle sette? faccio io, Ma alle sette sono impegnato con la nonna, faccio io, Alle sette ho la chinamartini calda, che la nonna ci tiene. Ci vediamo al campo, fa Gino, e mette giù. Si vede che aveva fretta che di solito è più dialettico.

Non so, sarà stato che stavolta era contenta di come aveva lavorato la Ines, sarà stato quello, ma alla fine l’idea è stata sua. Sicché alle sette erano tutte là, sulla gradinata del campo sportivo, la nonna e tutte le sue amiche, quelle con l’alzhaimer che le guata. Tutte là per me, altro che caffè, tutte là a vedere il nipotino della mia nonna, quello che ha stretto la mano al Ben Gazzara. Noi giocatori siamo entrati in campo che dalla gradinata urlavano come delle aquile, che sembrava facessero un tifo indiavolato, invece si parlavano solo tra di loro e neanche s’erano accorte di noi. Io ero concentratissimo, ero lì che ripassavo le consegne del Mister, che lo conoscevo da quando ero piccolo il Mister, che il Mister da piccolo era uno dei due capitani che facevano le squadre quando si giocava in strada, e s’era subito ricordato di me, il Mister. Sicché m’aveva guardato e poi m’aveva detto, Vorrai mica giocare con le Clarks? Il fatto era che ai piedi avevo le Clarks, che io uso solo le Clarks, e allora ero in maglietta pantaloncini calzettoni e Clarks, che altre scarpe non ho, figurarsi da fùtbal, sono mica Maradona, io. Sicchè m’aveva detto così, io avevo sorriso, lui s’era passato una mano fra i capelli, e poi m’aveva dato le consegne, aveva detto, Sta’ sulla fascia destra, corri su e giù per far vedere che anche noi siamo in undici e vedi di non far danni, così aveva detto. E io ero concentratissimo, che questa era l’occasione per rientrare nel giro del fùtbal, potevo mica sbagliare le consegne.

E infatti come si comincia io sono lì sulla fascia destra che corro su e giù come un ossesso, su e giù, corro e sento carni ossa e cartilagini creparsi pian piano, ma io sono lì che corro su e giù come un ossesso. Nessuno mi passa la palla sicché danni non ne faccio. Bene, rispettiamo le consegne. A un tratto però mi fermo, che se non tiravo il fiato mi veniva una sincope, sono lì piegato con le mani sulle ginocchia, che intanto la partita andava avanti per conto suo, sono lì e butto l’occhio alla gradinata. Ce n’è una sola e per di più è dalla parte opposta alla fascia dove io corro su e giù come un ossesso. Talmente lontana che la nonna sì e no mi vede, va mica bene così. Allora attraverso tutto il campo, che intanto la partita andava avanti per conto suo, attraverso tutto il campo e vado davanti alla panchina del Mister, che stava proprio sotto la gradinata. Vado lì e faccio, Mister, faccio, Nel rispetto delle consegne posso cambiare fascia? Che laggiù sono lontano dalla gradinata e la nonna non mi vede bene, Mister. E il Mister prima m’ascolta per bene, poi rimane a bocca aperta per un po’ e poi finalmente mi dice di aspettare il secondo tempo che poi lì, nel secondo tempo, lui lì mi manda a sinistra, anche se quando parlava aveva un tono che sembrava volesse mandarmi da un’altra parte, va tu a sapere quale. Sicchè riattraverso il campo tutto contento che nel secondo tempo passo a sinistra, sono lì che sto per ripartire a correre su e giù per la fascia come un ossesso, e invece mi fermo e faccio due più due. Che se nel secondo tempo le squadre si scambiano i campi e io dalla fascia destra passo a quella sinistra torno di nuovo lontano dalla gradinata, mi conviene mica. Aspetta ben che torno dal Mister. Sicché riattraverso il campo, che intanto la partita andava avanti per conto suo, arrivo davanti alla panchina e faccio, Mister, faccio, Ho cambiato idea, Mister, mi sono affezionato alla fascia destra, faccio, Cambierei più. Sono lì che argomento le mie ragioni e ad un tratto vedo che il Mister guarda dietro di me. Mi giro, Sarà mai lì dietro?, penso, mi giro e mi vedo arrivare il pallone dritto dritto sui piedi, che non so che cos’era successo, un rimpallo o, peggio, qualcuno che non aveva rispettato le consegne, insomma la palla arriva precisa precisa a me. Guardo la palla, mi giro, guardo il Mister, mi rigiro, guardo la porta là a quaranta metri senza nessuno fra me e il portiere, mi rigiro, guardo mia nonna, lei guarda me. Anche in campo tutti guardano me, fermi. Io guardo il portiere, e poi comincio a correre.

Corro palla al piede a testa bassa via via via dieci metri venti trenta via via via finchè non mi si slaccia una Clarks, m’inciampo, la palla finisce sotto la suola, s’impenna, mi scavalca altissima da dietro la schiena, supera il portiere in uscita, rimbalza un metro davanti alla linea di porta e s’insacca dolce rotolando in rete. Gol, sussurro, il mento nell’erba.

La mia nonnina, a casa, ha detto che un gol così neanche Maradona. E beh, ho fatto io.

Voglio bene, io, alla mia nonnina.

 

 

 

On the road

Passa il Pedro e mi fa, Domattina alle cinque andiamo in Austria. E’ che Pedro fa il camionista, sì, il camionista, in realtà guida solo furgoni, ma furgonista non è bello da dire mentre camionista la butta sul macho e a Pedro piace buttarla lì. Insomma Pedro lavora in nero per una ditta di spedizioni veloci in tutta Europa, partenze a tutte le ore e via a manetta che in otto ore devi bruciare mille chilometri mangia bevi piscia caga tutto in corsa che se ritardi non ti pago, all’occhio bimbo, che al giorno d’oggi il lavoro è flessibile e se non ti fletti per bene anche tu bye bye baby.

Un viaggio col Pedro, che il Pedro è contento che io gli faccia compagnia nei viaggi, sì, perché lui guida che va e va e va e non si fermerebbe mai, e io sono contento perché sto lì che parlo storielline su storielline e il Pedro ride e allora io parlo e parlo e parlo e non mi fermerei mai. Che quando prendo fiato e mi accorgo della velocità del furgone ho un tuffo al cuore che ricomincio subito a parlare.

 

 

 

Casqué!

Casqué, casqué, caaasqué! Che quando mi prende il demone della danza sono scintille, lo sapeva mica Mario. Che Mario mi faceva, Andiamo a prendere il caffè in quel bar d’angolo che c’è un donnino dietro il bancone che gli farei così e cosà, e io, Va bene Mario andiamo ma non parlare sporco in pubblico che sai che poi divento rosso e ti pianto lì con le tue porcherie. E vediamo di sbrigarcela che il periodo è gramo e ho di quei pensieri che mi vien da piangere solo a pensarci dai pensieri che ho. Che sono ridotto una pezzolina che la notte ho degli incubi che mi rincorrono per il materasso e dormo mica. Che mi lavo la faccia continuamente convinto di averli scritti in faccia i pensieri che ho. Sarà mai?, fa il Mario. Sarà mai?!, faccio io, Sarà mai che io ho i pensieri che mi hanno offerto un lavoro, a me, un lavoro, robe da matti. Un lavoro di quelli da lavorarci tutti i giorni, ti rendi conto? Che quegli incauti lì che mi hanno offerto un lavoro vogliono farmi un colloquio, che una cosa così mi ha rivoltato tutto come un calzettino. Ma lo sanno quelli lì che queste sono cose che se uno non è abituato poi non si sa come va a finire? E il Mario, serafico, Guardati Trainspotting che lì c’è uno che ha un colloquio e così impari. Guardato. Tolto il Mario dalla lista di quelli che danno buoni consigli.

Sicché s’andava tre quattro volte al giorno al bar d’angolo a bere caffè come fosse acqua di fonte. E poi Mario mi diventava di un nervoso che solo a vederlo tamburellavi con le dita, io che avevo già i miei pensieri, quei pensieri lì che mi avete letto in faccia. E’ vero che parlar sporco non parlava sporco, e anzi bisogna dire che per quello ce la metteva tutta, ma proprio tutta tutta. Che dopo una settimana che s’andava lì al bar d’angolo a bere quattro caffè al giorno il Mario non aveva parlato per niente sporco. Non aveva parlato per niente. Che sappiamo tutti che ognuno ha un suo stile per attaccar con l’altro sesso, ma questo stile qui a me pareva che la prendeva un po’ troppo alla lontana. Che all’inizio era anche partito bene e aveva esordito con, Caffè! Seconda e terza volta uguale, Caffè! E la chiudeva lì, sornione. Ma alla quarta volta che nello stesso giorno s’entrava in quel bar lì il donnino dietro il bancone scatta in contropiede e fa, Caffè? E Mario, Aha… annuendo. E da allora sempre così, Caffè? Aha… annuendo. Che poi dopo una settimana che s’andava al bar d’angolo quattro volte al giorno io, che non prendevo quei caffè lì, che io bevo il caffè solo quello fatto con la macchinetta napoletana, quella che ci vuole il suo tempo, che poi si gira sottosopra e il caffè ti cade dall’alto come una pioggerellina, solo scura, io, dicevo, io dopo una settimana ero ingrassato dei chili, che ogni volta che s’entrava in quel bar lì prendevo un condorello, un bombardino al cioccocato, un mars. Che il condorello mi leniva i pensieri del lavoro, mi leniva. E allora mars oggi bombardino domani sentivo l’adipe aggredirmi le carni. E il Mario mi stava muto. Poi s’usciva dal bar ed era tutto un, Hai visto di qua hai visto di là gli farei così gli farei cosà, che non la smetteva più per un’ora di dire porcherie che anche se non s’era in pubblico io sentivo che diventavo rosso lo stesso.

Sicché dopo una settimana ho preso il Mario da un canto e gli ho fatto, Mario, gli faccio, Mario adesso oggi tu col donnino ci parli per bene che io ho l’adipe che mi sorpassa a sinistra e sono anche squassato dai pensieri del lavoro, il colloquio l’ho già rinviato due volte che spero di prenderli per stanchezza, ma quelli lì sono tignosi, mollano mica, ti prego fallo per me. Pareva convinto. Entriamo, Caffè?, fa il donnino, Già!, fa il Mario. Fine. Usciamo e Mario mi fa, Com’è andata?,  Mario qui mi sa che non si può che migliorare, faccio io. Pareva convinto anche stavolta. Così ci poggiamo su una panchina e io gli preparo tutto un discorso da buttare lì col donninno, domande risposte battutine, e il Mario, diligente, prende anche appunti con la biro sul palmo della mano. Tutti belli tutti felici dopo mezz’ora rientriamo al bar d’angolo col Mario caricato come una molla che ripassa la parte leggendosi la mano. Entriamo e il donnino a sorpresa fa, Ragazzi non è che per caso sapete ballare il tango?, Lui!, fa il Mario, e mi indica dritto per dritto.

Tolto il Mario dalla lista di quelli con cui andare al bar.

Appuntamento alle otto di sera, prima lezione del corso di tango, categoria principianti, dodici coppie, età media da veterani dell’inps, insegnante il maestro di tango Luìs, un perticone d’hombre dai capelli corvini lunghi fino alle terga magrezza asciutta e nervosa che solo a vederlo mi mortifico nel mio adipe montante. Col donnino i patti sono chiari. Prima lezione insieme per vedere se le gusta, che se poi le gusta se la sbriga da sola cercandosi un altro tanghèro, giacché di norma s’ha da essere in due, a tangàre. A casa ascoltato tutto Piazzolla dodici ore di fila per scoprire poi che Piazzolla non si balla, non sta nei passi. Che tanto per me era uguale, che io i passi non li so, io so solo il casquè. Che una volta avevo ballato con una tanghèra argentina e lei voleva che facessimo solo il casquè, che secondo me era un modo per suggerirmi fra le righe delle cose, vai a sapere. E al bar il Mario se n’era ricordato, il latin lover. Sicché eccomi qua.

Balli con quelle?, fa il maestro, e mi guarda le Clarks, Sì, sorrido io, Che io ho solo Clarks, che ci gioco anche al fùtbal con le Clarks, che poi ci segno i gol che neanche Maradona, dice la mia nonnina, che se vuole le racconto di quella volta che…, No, fa lui, gira il bulbo e se ne va.

Vai via? Io ti sto parlando delle Clarks, di Maradona, della nonnina e tu mi vai via? Così? Ipso facto? Ma bravo. Che adesso mi sei proprio entrato nel cuore. Che guarda che non so che cosa ti farei da tanto che mi vai a genio. Che ora l’intera categoria dei maestri di tango mi muove proprio tanta simpatia. Che ho un tale affetto per voi, o voi maestri di tango, che adesso io mi ci metto proprio d’impegno per farvi contenti. Che ve lo meritate proprio ve lo meritate. O voi, maestri di tango.

Detto, fatto. Come parte la musica afferro il donnino e come un giunco la torco più e più volte al grido di, Casqué casqué caaasqué! E’ un attimo. Gli attempati Fred Astaire interpretano il triplice piegamento come un rituale d’uso preso in prestito da rugbisti maori e si lanciano anche’essi nella vertigine del ripetuto casqué, coprendo con le loro assordanti grida il tintinnio delle dentiere e il crepitare delle ossa delle loro fragili Ginger Rogers. Spronato dal successo ripeto il rito collettivo più e più volte, Casqué casqué caaasqué! Falcidiati gli astanti, che mai più penseranno al tangàre nel rapido declinare delle loro provate vite, saluto con un baciamano il dolente donnino e prima di uscire mi allaccio una Clarks in faccia al simpaticissimo maestro di tango, bianco come un cencio. L’unico neo è che ogni tanto si slaccia, sibilo.

Il giorno dopo quelli del colloquio mi fanno, Siamo convinti che lei sia l’uomo giusto per questo lavoro, Io no. Riga.

Andato bene il colloquio?, mi fa il Mario. Liscio come un casqué, gli faccio io.

 

 

 

Otto

Se per un trasloco bisogna fare tutta questa cagnara qui allora ditelo che traslocherò mai in vita mia. Che sono tre giorni che c’è un via vai su e giù per le scale che neanche al Giro d’Italia. Un via vai di formichine che prima scaricano l’universo mondo da tutti quei furgoni e poi lo portano su fino all’appartamento del piano di sopra, che chissà da quanto tempo era sfitto, quell’appartamento lì, io neanche me n’ero accorto. Che a volte lo scalpiccìo su e giù per le scale è così rude che sbatto il giornale in terra, m’alzo dalla poltrona ed esco sul pianerottolo per reclamare il diritto alla quiete condominiale, tu guarda. Vero è che perché la scena mi venga bene bene, come ho visto tante di quelle volte nei film al cine, mi manca la vestaglietta da camera, ma per quella bisogna essere portati e io non lo sono, portato. Sicché ti esco sul pianerottolo e lì ti vedo quella fila di formichine che va su e giù senza posa, le vedo lì che mi sorridono una via l’altra, lì che portano su dei pacchettini, dei cartoccini, delle sportine tipo quelle della Coop, solo pesanti da matti, a vedere, una via l’altra una via l’altra. E poi da lassù, dal piano di sopra, da lassù arriva tutto un rumoreggiare di mobilio spostato in qua e in là. Che da dove esce questo mobilio io non lo so, che io vedo salire solo delle sportine della Coop. Eppure là sopra si sentono dei suoni sordi, dei toffi, dei brontolii, come di un temporale in arrivo, che bel presentimento che m’è venuto. Faranno mai?, faccio fra me e me, Avranno mai dentro quei cartoccini? Faccio fra me e me. Sicché lascio perdere la parte del condòmino inalberato, rincuccio e torno in casa, pusillanime.

Che ora dopo tre giorni di via vai non esco neanche più sul pianerottolo che l’ultima volta che mi sono affacciato, proprio in quel momento lì che io aprivo la porta, in quel momento lì a una di quelle formichine scivolava un pacchettino in terra e quella formichina lì poi tirava via un cànchero così grosso ma così grosso che di così grossi non ne avevo mai sentiti, mai. Poi, come mi vede di colpo mi sorride. Chiuso subito.

E in questo marasma qui mi chiama il Lele, che quasi non sentivo trillare il telefono tanta era la cagnara che rimbombolava sopra la mia testa. Mi chiama il Lele e mi fa, Ciao Guerrino, vado in Alaska. Che il Lele era uno che di idee bislacche ne aveva sempre avute a mucchi, fin dall’asilo, ma questa dell’Alaska era nuova. Fare cosa?, faccio io, A vendere zanzariere, fa lui. Che si vede che ultimamente le idee bislacche del Lele dovevano avere subito un’impennata d’intensità che m’era sfuggita. Bene, faccio io, Bell’idea, faccio io, Chissà come t’aspettano là, in quell’Alaska, faccio io. Ah lo credo, fa lui, Ma tu lo sapevi, fa lui, che in Alaska ci sono più zanzare che nelle Valli di Comacchio?, Di bon…, faccio io, E tu lo sapevi, fa lui, che in Alaska ci sono delle zanzare che quando ti pinzano ti gonfiano come un dirigibile, Ma va là…, faccio io, E tu lo sapevi, fa sempre lui, che in Alaska hanno delle zanzare così grosse ma così grosse che sembrano delle rondini? E le rondini?, faccio io. Non ci sono, fa lui, dopo un po’.

Alaska di qua Alaska di là, ma sotto sotto sentivo che covava dell’altro, mica mi telefonava, sennò, il Lele. Ed ecco che a un certo punto coglie l’attimo e mi fa, Finché sono via ti occupi tu di Otto?, E chi è Otto?, Otto è Otto, il mio pesce rosso. In quel momento lì è partito un trapano al piano di sopra che in un baleno l’ho sentito tutto dentro la tromba d’eustachio, l’ho sentito.

Casa di Otto era un barattolo di vetro da due litri che era stato un barattolo di vetro di cetriolini in agrodolce, ditta Hamé, buoni. Si leggeva ancora un po’ d’etichetta, che era rimasta incollata. Appena arrivato da me sembrava avesse i maroni girati, Otto. Dava le spalle, ciondolava, sbuffatine. Che forse rimpiangeva di non essere in Alaska, l’Otto, a far bisboccia con le zanzare. E allora vieni qui che facciamo il giro della casa, così, per rompere il ghiaccio. Questo è l’ingresso, questa la camera, qui il tinello, poi la sala, lì il bagno, ma in bagno non ci entriamo che si sa mai come l’ho lasciato, il bagno, quello il cucinino, terrazza non ne ho, ma lì fuori ho un pezzetto di giardino, ecco, quello lì con l’edera che cresce un po’ dovunque è il mio, ti piace?

Che io speravo in qualche suggerimento, sapevo io dove preferisse stare Otto, sapevo io preferisse il tinello o la sala; il cucinino no che se poi mi vede la maionese chissà che brutti pensieri gli vengono. Invece niente, indolente, il levantino. Sicché gli preparo la stanza in sala e lo lascio lì ad ambientarsi un po’, Che io ho da fare i miei mestieri in casa, Otto…, gli faccio, anche se avevo da fare niente, in verità, ma volevo darmi un tono con l’ospite, potevo mica fare la figura dello scioperato. Così ho dato una spazzolata alle Clarks, che vuoi mai mi capiti un altro giro di casqué o mi passi a trovare il Ben Gazzara, e mentre spazzolavo ero sempre lì, fuori e dentro la sala a sbirciare l’Otto. Che alla fine ho preso una sedia e mi sono messo davanti al barattolo da due litri che era stato un barattolo di vetro di cetriolini in agrodolce, ditta Hamé, buoni, mi sono messo lì e ho cominciato a fissare il buon Otto, scopriamo un po’ il mondo degli abissi marini, vedi ben.

Il palindromo s’accorge di me e si mette anche lui a fissare. Stiamo tutti e due lì, uno in faccia all’altro che sarà volato via un quarto d’ora, così. Hai visto che tipo, l’Otto. Che dopo un quarto d’ora che eravamo lì a scrutarci, al piano di sopra si sente un botto che alle formichine doveva essere scappato via un armadio, uno di quelli che tirano fuori dalle sportine della Coop. Sicché alzo la testa a guardare in su e di sguincio m’accorgo che anche Otto alza la testa a guardare in su. Allora sto fermo ma, furtivo, giro lentamente gli occhi a guardare l’Otto e così scopro che anche Otto gira gli occhi verso di me, sicché ci troviamo tutti e due a guardarci negli occhi con la testa rivolta al piano di sopra. Restiamo qualche secondo così, spioni spiati, poi, sìncroni, abbassiamo la testa continuando a fissarci. Mi sistemo sulla sedia e vedo che anche l’Otto si concede una scrollatina. Mi alzo a prendere un libro e vedo che anche Otto si muove e va a leggere il retro di quel frammento d’etichetta dei cetriolini Hamé che era rimasto incollato al barattolo. Guarda tu che elemento quest’Otto! Che mi fa stare qui davanti a questo vetro che mi pare di stare davanti a uno specchio, va mica bene così. Torno a sedermi e gli faccio la boccaccia più boccaccia che mi riesce di fare. Otto mi guarda come si guarda un cretino. Mi ricompongo e, Scusa…, gli faccio. Otto muove appena le sopracciglia come a dire, Figurati…

Mentre siamo lì che c’intratteniamo, da fuori scivola giù un odore che s’insinua sotto le porte rotola per le scale entra dalla finestra e arriva lì, in sala, lì ad impregnare Otto e me, che prima annusiamo sovrapensiero e poi di colpo capiamo che quell’odore lì è proprio quell’odore lì, non c’è possibilità d’errore, quell’odore lì è proprio odore di frittura di pesce.

Otto arretra, circospetto, occhi sgranati, e, lentamente, degluttisce, a fatica.

Comincia a fare freschino, faccio io, Quasi quasi vado a chiudere la finestra, faccio io, alzandomi, Ah, e poi volevo dirti, Otto, che, sì, insomma, io, ecco, non so tu, ma io sono vegetariano, un po’…, faccio io, mentendo.

Alla finestra, di sottecchi, vedo che Otto mi scruta, guardingo. E poi, piano, sorride, un po’. Chiudo la finestra e sorrido anch’io. Un po’.

Sì, mi sa che mi troverò bene, con Otto.

 

 

 

On the road

Che poi i viaggi del Pedro sono così pieni di sorprese che io mi diverto sempre una massa. Che la prima volta che mi disse, Guerrino preparati che domattina ti passo a prendere che andiamo in Galles, quella prima volta lì io ero contento come una giuggiolina, contento che il camionista Pedro chiedesse a me, a me che guido l’automobile solo per accompagnare la nonnina dalla parrucchiera, chiedesse a me compagnia in un viaggio sì luntàn. E volendomi preparare a puntino passai la notte a vedermi le videocassette di filmoni on the road tutti lingue d’asfalto pupe e odore di benzina, filmoni tipo Duel tipo Convoy trincea d’asfalto tipo Easy Rider, che c’entra solo di sguincio pieno com’è di fricchettoni in moto, ma va ben lo stesso tanto ormai è l’alba. E all’alba il Pedro mi carica su un furgone di sei metri e senza dire né a né ba entra in autostrada e pesta sul gas che se non mi cago addosso quella volta lì non succede più.

Dopo una cinquantina di chilometri mi riprendo dal disordine intestinale e noto una lucina accesa nel cruscotto. Che è quello?, sondo timido, E’ un sensore, fa lui svogliato, L’ho visto che è un sensore ma se il sensore s’illumina vorrà ben dire qualcosa, ardisco io già in ansia, Sì, intercala il Pedro, Sì che?, m’inquieto del tutto io, Che siamo senza freni.

Ci sono momenti nella vita di un uomo dove il tempo si ferma e d’intorno tutto si tace.

Progetti?, faccio io dopo qualche minuto speso in tardive preghiere, Non frenare, chiosa il Pedro. E Pedro è uomo di parola. Rallentò, scalò vertiginoso le marce, smanettò di freno a mano, ma in mille e mille chilometri frenò col suo piedone solo quattro volte. Quattro. La prima per evitare di tamponare un Tir malaccortamente uscito da un’area di sosta, stridìo metallico e sordo sferragliare degli esangui freni, la seconda per fermarsi a far gasolio, sbuffo di fumo stridio metallico sguardo atterrito del benzinaio francese, la terza per evitare un rosso che solo un attimo prima era un giallo ce la faccio ce la faccio, brontolii grevi di porte dell’inferno che gemono scie di fumo come le frecce tricolori, la quarta per fermarsi preciso e in orario davanti alla piazzola di carico/scarico della ditta gallese, crock, unico mesto suono, come un addio. Poi rimanemmo in Galles per quattro giorni, quattro giorni ad aspettare che riparassero il furgone, che i pezzi non c’erano, che ci voleva il nulla osta dall’assistenza internazionale, che lì che qui che là che du maron, che alla fine ci accampammo nell’unica Pensione economicamente abbordabile della cittadina passando inani le giornate dentro i Pub a comprendere in pieno la tendenza all’alcolismo delle periferie britanniche e a disputarci con gli occhi il donnino dietro il bancone, frrr, gattoni latini.

 

 

 

Tappeti volanti

Campagna. Non mi piace neppure la parola, con tutte quelle a. L'umido che viene dalla terra, gli insetti sconosciuti, i sassolini nei calzini. Che tu sei lì solo col mondo, solo, e devi fare chilometri per comprare il giornale, gli animali la fanno da padroni, senti odori che non ti vanno più via e trovi sempre uno con un proverbio contadino pronto. E poi ci sono quelli che vanno lì e respirano a fondo, Che senti com’è buona quest’aria qui!, Che c’è mica da noi in città un’aria così!, e ti inspirano a pieni polmoni e poi stanno male tutta notte, che fa mica bene respirare di colpo qualcosa che non si vede, lo dico sempre io. Che questi sono pensieri che ti mastico qua, rincantucciato nel sedile dell’utilitaria che questo donnino guida con disinvoltura, e non si può proprio dire che la giornata scivoli via quieta, che ho già i marroncini che frullano, si vede mica? Che neppure la notte è stata lieve, a dirla tutta, che per l'ansia della campagna non ho chiuso occhio, anche se lì, da solo, che Otto dormiva in sala dentro il suo barattolo di vetro da due litri, quel barattolo di vetro da due litri che prima era stato un barattolo di vetro di cetriolini in agrodolce, ditta Hamé, buoni, e che adesso invece era casa sua, mentre Otto era di là, dicevo, io in camera da solo potevo inveirmi contro in santa pace. Ma qui devo difendermi da ettari ed ettari di terra scura pieni di tutti quei milioni di animali che stanno lì in agguato, occhietti pronti al balzo nascosti fra le foglie, che mi sento il capitano Willard che risale il fiume a cercare il colonnello Kurtz, shit!, mi sento.

E il donnino guida sciolto ed è tutta un cincare sorridendo, per di più, sicché la civiltà s'allontana veloce alle nostre spalle ed il basso agro c’inghiotte come boa col sorcino, e salgono vapori e foschie tanto quanto s’abbassa la strada al di sotto dei gonfi canali. Che io sono subito preso dal terrore di un'improvvisa esondazione che tutto allaghi e travolga, autovettura compresa, ma posso mica urlare, posso mica liberare il legittimo terror panico, posso mica, che di sicuro verrei sbertucciato illico et immediate, e mi pare fuori luogo offrire tali spassi. Ed allora mi rannicchio come agnellino il dì di Pasqua ed aspetto ad occhi chiusi la mia sorte. Ho acconsentito ad una grigliata in campagna, ecco il fatto. Che quando questo bel donnino insiste dire di no è maleducato, e io sono mica capace, d’essere maleducato.

Sicché s’arriva ad un casolare romito preda di foschie dense e già scure, un casolare pieno di sbilunga gioventù e di polputi gonnellini che s’affacciano dai terrazzi dei primi piani, che fanno anche un bel vedere quei gonnellini lì, che per un momento mi dimentico anche della campagna, vedi tu la potenza della mente, sono sempre strabiliato. Fiammoni alti due metri divorano legne sputandone braci ed un Vulcano barbuto, nero di fuliggine, governa il fuoco e mi sorride a denti giallini brandendo ceppi incandescenti. Arretro guardingo e lungo il muro scorgo molteplici casse di alcolici vari, per cui mi cheto e, rinfrancato, mi appresto a fare un rapido giro della villa seguendo l'estasiato parlottare di Marta, la morettina al volante di cui sopra, ed individuando nel contempo la stanza più importante, il gabinetto. E mentre sono lì che testo le funzionalità idrauliche della casa, con il pensiero sono già ai liquori che ingollerò di qui a notte allo scopo d’accelerare la mia brillantezza etilica, fino a quando questa diventerà stordimento e da lì incapacità momentanea di intendere e di volere. Biascicante, sarò allora trascinato ad un pagliericcio e lì scollinerò il buio beatamente e senza colpo patire. Voilà.

E ora siedo su questo freddo pietrone fuori dalla casa, che la casa è tutta ingombra e frenetica, che c’è tutto uno sciamare d’api operose che preparano letti, alimentano stufe, affettano pani. Qui fuori almeno mi guardo la Marta, che è così bellina lì a volteggiare sorridente intorno alle faville. Che penso a quanti anni è che la conosco, la Marta, che neanche me ne ricordo, ma sono contento che siano tanti, che mi è sempre stato simpatico, questo donnino qui della Marta. Finite le birre ho in mano la terza vodka, tappeto volante capace d’involarmi all’aerea perdita di me, mentre una musica riempie la sera e ruba il posto alle stelle. Che in fondo se ognuno sta nel suo e non ci si pesta i piedi, in fondo coll’agro bucolico si può anche venire a patti, in fondo si può stare bene anche in campagna, benino, via. Guarda tu cosa ti dico, qui, a guardare il fuoco, meditabondo. La Marta mi sorride ed io sorrido a lei alzando il mio quinto bicchiere nella speranza che seguiti quel ballo gioioso che aveva principiato in casa e concluso piroettando nell'aia, confusa con le scintille dell'inesausto griglione. E lei si muove e salta e rimbalza tanto euforicamente da sembrare un Ariele che si vuol confondere con la danza dei lapilli, e io ti brinderò alla maniera slava con quest'ennesimo vetro, Na zdraví, Marta!

Ora mi s’avvicina e per educazione m’alzo in piedi, scoprendo così di non esser proprio saldo, ma un fiatino storto, che mi scappa anche da ridere, sto sempre a far delle figure, vedi tu, che chissà cosa farai ora che t’ha invitato alle danze, voglio proprio vederti. Che l’agitarmi a tempo non è il mio pane, che di solito mi diletto solo di casqué, ma sono o non sono ben dentro la via dell'ebbrezza? E allora chiedo aiuto a Dioniso e mi lancio in un audace cozzare d’ondeggiamenti. Marta, stupita, mi tiene bordone ed in breve volteggiamo avvinghiandoci e srotolandoci sulla polverosa pista. Sono per me lunghi minuti d'inferno e sento carni ossa e cartilagini stridere tutte, ma non cedo, indomito. E proprio sull'ultima battuta musicale, che vado a sigillare con un voluttuoso ed improvviso casqué, che volete m’è scappato, lei sigilla lungamente le mie labbra con le sue. E sorridendo se ne va, lasciandomi così in balìa di me stesso.

E io sono lì che almanacco, che solo l'estasi del ballo sfrenato può averla portata a tanto, ma sorrido, che forse davvero veleggio ubriaco su un tappeto incantato, e, Orpo, mi faccio, Orpo…, mi faccio di nuovo, e poi mi fermo che non so andare avanti. Sono lì fiso in questo assorto, so neanch’io da quanto, che una voce mi sussurra, Asciugati o t'ammali con questo freddo, e mi percorre anche la schiena, quella voce lì. Toh, che la piccola Marta è di nuovo qui, che bello, e mi prende sottobraccio e ci indirizza alle scale.

Ecco che saliamo al piano di sopra dove tutto è più soffuso, ed io salendo ho fatto appena in tempo ad agguantare una bottiglia d’un qualcosa che anche ora che sto bevendo non saprei dire di preciso che cos'è, ma di certo è molto alcolico. Che sali che ti sali sento il tepore del continuo parlottare che mi stringe il braccio e non saprei proprio ripetere quel che mi sussurra, ma l'effetto è senza dubbio come un oppio per le mie orecchie tanto che io me ne intossico subito e subito me ne beo. Sridacchio anche, a momenti.

Accediamo ad una camera e lei con una magia fa comparire una pezzolina e mi strofina lieve i capelli sudati e poi mi sfila il maglioncino a vu e mi sbottona anche la camicia, e tutto questo sempre parlandomi ipnoticamente ed io mi lascio cullare, sorseggiando di tanto in tanto un po' d'acqua di fuoco. Che io non so più se quanto accade è sogno, calda ebbrezza o illusione, ma so che lei mi sfila la camicia ormai del tutto sbottonata e avvicina il suo volto al mio petto e sento il calore del suo fiato che sfiora la mia pelle ed i brividi che mi scuotono mi fanno pensare, Che succede, Guerrino, che ti succede?..., ma non faccio in tempo a rispondermi che lei è ormai lì con le sue labbra ad un centimetro dalle mie e mentre con le parole mi sfiora, con le labbra mi bacia ed io rispondo, rispondo come fosse un gesto naturale. E dopo esserci a lungo baciati lei si sfila lentamente le vesti ed io arraffo la bottiglia perché vorrei un barlume di lucidità per capire, Che succede, Guerrino, che ti succede?..., ma non ne ho il tempo perché lo sciogliersi della sua camicetta ha svelato due puppine sorprendenti e per tanti anni nascoste da troppe flanelle, ma ora eccole lì, baldanzose, due puppine che emergono allegre e vellutate. Il sapore è tiepido, da pane appena sfornato, ed essendomici io subito catapultato in mezzo ne assorbo a lungo le fragranze.

Lei sorride felice e mi adagia con cura sul nudo materassone dove ha premura di levarmi le vesti che ancora ostano, e come rifinisce su di sé la medesima operazione si adagia sopra di me con lentezza e voluttà e m’inebria e ravvolge con i suoi profumi ed io mi pasco del suo tepore di donna e mi preparo, quieto, a donarle quello che ho di uomo.

Conosci mai abbastanza, le persone.

 

 

 

Sfogline

Che tirare le tagliatelle non è mica da tutti, tirarle bene dico. Che ad essere sfoglina ci vuole la sua maestria, faccio io. Che a me, devi sapere, a me lo ha insegnato un donnino tanto magrino e tanto bellino, ma tanto tanto, bellino, intendo. Che se lo vedevi, così magrino, avresti detto che mai e poi mai quel donnino lì sarebbe stato capace di tirare una sfoglia di sei uova, faccio io. Eppure la tirava, quel donnino lì tanto bellino, eccome, se tirava la sua sfoglia, faccio sempre io.

Che innanzitutto, ‘scoltami Otto, ‘scoltami bene dentro il tuo barattolo di vetro da due litri che è stato un barattolo di vetro di cetriolini in agrodolce, ditta Hamé, buoni, innanzitutto devi fare una bella montagnetta di farina così, vedi?, ecco, col buco in mezzo, tipo vesuvio, insomma. Poi devi prendere le uova, una alla volta, e una alla volta le devi rompere dentro una scodella. Attento qui, che se le rompi direttamente nel cratere del Vesuvio e putacaso ti scappa uno spigolo di guscio e tu non te ne accorgi, poi, quando vai a tirare la sfoglia, quello spigolo di guscio lì ti fa i buchi. E coi buchi la tagliatella viene mica, faccio io, Otto annuisce. Invece tu rompi le uova dentro la tua scodellina e così hai tutto il tempo di vedere se t’è scappato uno spigolo di guscio o se le uova avevano dentro un qualche sporchetto, che si sa mai. Poi rovesci le uova dentro il cratere del Vesuvio, così, ecco, e poi prendi la tua bella forchettina e cominci ad unire le uova alla farina, piano piano, così, vedi?, un filo d’acqua, ecco, piano piano, ci butti anche un pizzico di sale, ecco, e continui ad unire, faccio io, Otto osserva.

Che fare le tagliatelle a me piace, che fare le tagliatelle ti permette di essere impegnato con tutto quanto il corpo, ma di andare con la testa dove vuoi tu. Però fino ad un certo punto, che altrimenti poi sbagli, eh. Così vagoli in qua e in là coi tuoi pensieri, ma svalvoli mica, che hai le tagliatelle da tirare, faccio io, Otto si perplime. Eh, perché a volte uno si trova ad avere dei pensieri che sa mica come metterli in fila, eh. Sicché tira la sfoglia e comincia a fare ordine, nei pensieri che uno ha. Che io ho provato anche a fare del giardinaggio estremo, per mettere i pensieri in fila, ma andava mica bene. Ho provato a scendere in giardino a potare la siepe, a togliere l’edera, a sterminare uno a uno i pidocchini delle rose, ma riuscivo niente, che sono mica portato, io, per il giardinaggio estremo. E in casa rientravo sudicio di mota, pieno di graffi e inseguito da milioni di pidocchini delle rose, che l’avevavo presa mica bene che io li sterminassi uno ad uno. Sicché il giardinaggio estremo lo faccio più, che non va bene per i pensieri, che è meglio buttarsi sulle tagliatelle, che, tra l’altro, s’unisce anche l’utile col dilettevole, faccio io, Otto approva.

Ecco, adesso che le uova si sono unite bene con la farina, adesso cominci ad impastare con le mani. Attento, che questa è la parte più difficile, che meglio impasti e più facile ti viene poi la sfoglia da tirare, capito?, ecco, lo diceva sempre qul donnino tanto bellino che m’ha insegnato a tirare la sfoglia, fra le altre cose che m’ha insegnato, quel donnino lì. Che qui i muscoli servono a niente, serve la tecnica. Io la tecnica faccio ridere e allora compenso coi muscoli, è una deroga, nel mio caso.

Campagna, si diceva, faccio io. Ne succedono a volte di cose in campagna, faccio io. Che uno mica se l’aspetta che succedano tutte quelle cose, lì in campagna, faccio io, Otto si mette comodo. Che poi uno si sveglia al mattino, a volte, si sveglia dopo una nottata in campagna e ricorda mica bene tutto quello che è successo, in quella campagna lì. Che subito subito gli pare d’aver sognato, tanto è successo in quella campagna lì. Poi invece ha sognato mica, scopre. Eh, sorridi sorridi tu, che qui ci sono di quei pensieri che uno si mette a tirare le tagliatelle, e lui sorride.

Ecco, vedi, ora hai fatto una bella palletta morbida, così, l’appiattisci un poco, ecco, senti che bella che è, senti che buon profumo che fa, senti qua, che meraviglia. E adesso pulisci per bene il tagliere, prendi il mattarello, lo passi di farina, così, e poi via, cominci a tirare, eccoci qua che parte la mazurka, va’ che bellezza, va’ che filuzzi!

I sogni, si diceva, faccio io. Che fin che sono sogni va anche bene, faccio io. Uno è abituato, si sa giostrare, faccio io. E’ scoprire che non hai sognato per niente, che mica era sogno, quella campagna lì, è scoprire questo, che poi sai più come muoverti. E così, Cosa fai adesso? Ti dici. Eh, so mica io, cosa fai adesso. Che qui le cose mi scappano da tutte le parti, so mica io, cosa fai adesso, faccio io, Otto beve un sorso.

Ecco, devi tirare per benino col mattarello che piano piano la palletta s’allarga, s’allarga sempre di più, fino a diventare un lenzuolino giallino, ecco. Poi la poggi sul mattarello e la giri, così, attento, che se non stai attento la rompi, e adesso sarebbe peccato. La tiri che deve diventare sottile sottile, ma non troppo, non devi strafare che altrimenti ti vengono i buchi, e le tagliatelle coi buchi vanno mica bene, che sei stato lì a controllare anche le uova, puoi mica fare i buchi adesso, col tirarla, eh, conviene stare attenti.

Cosa fai adesso?, si diceva, Sai cosa fai, adesso? Io faccio niente, faccio io. Sto qui buonino, faccio il filosofo, faccio l’orientale, che coi tempi che corrono mi divento anche alla moda, faccio l’acqua che scivola dappertutto, senti un po’ quello che ti dico, faccio io. Che la realtà è un mistero, e la campagna, si sa, è il mistero più mistero che c’è. E così che cosa possiamo fare noi?, Niente possiamo fare, noi, sarà quel che sarà, che quest’ultima frase mi butta anche sul fatalista, ma va bene, che adesso mi sono alla moda.

Lo so che, apparentemete, fare niente è quello che faccio di solito, quindi cambia zero, dirai tu. E invece cambia tutto, lor signori, perché una cosa è fare niente perché ti viene, un’altra è farlo come volontà, decidere di non intraversare il fluire delle cose, farsene una weltansciaung, come si dice, che poi non sono tanto sicuro che si dica così, anzi, questa parola qua non la dico proprio, dimenticala, meglio stare vaghi, che come tocchi i sassi escono i lombrichi, faccio io, Otto pare interessato al discorso lombrichi.

In fondo, che cos’è successo, in quella campagna lì? Niente. In quella campagna lì non è successo niente.

Ecco fatto, finito. Ora la si arrotola e si tagliano le rondelline che poi diventeranno le tagliatelle, ecco qua, e si mette ad asciugare, così, a nido, ecco qua. Lo so, il donnino tanto bellino la tirava meglio, che era un piacere stare lì a guardare mentre tirava la sfoglia, quel donnino lì. Che poi le mie tagliatelle non saranno buone come quelle del donnino tanto bellino, t’avverto, Quasi, eh, quasi, ma non così buone. Però, credimi, tirar la sfoglia sarà sempre meglio del giardinaggio estremo, per mettere in fila i pensieri, che hai visto come ho risolto la questione, eh, hai visto?, faccio io.

Che quasi quasi adesso chiamo Marta e glielo dico. Anzi, no, non la chiamo, che devo fare niente. Magari dopo. Magari prima aspetto e dopo la chiamo così le dico che ho deciso di fare niente. Anzi no, non la chiamo. Che se non la chiamo è meglio, così lei capisce da sola che io ho deciso di fare niente e pensa, Tu guarda, pensa lei, che il Guerrino non mi chiama, pensa lei, che si vede che s’è messo a fare l’acqua che scivola dappertutto…, pensa lei se non la chiamo. E così mi chiama lei, che io lì faccio una deroga al fare niente e rispondo, così le confermo che ho deciso di fare niente, quando me lo chiede. Sì, faccio così. Però se non mi chiama magari più tardi la chiamo io.

Intanto che aspettiamo t’imbastisco un sugo, va là, che mi sento rinfrancato dalle decisioni che ho preso, va là, che quasi quasi anche il sugo te lo faccio all’orientale, va là, un sugo Tao, t’imbastisco, che un sugo così viene da solo, faccio io, tu devi fare niente, col Tao.

Ti va un bel sugo Tao, Otto?

 

 

 

On the road

Un’altra volta che Pedro venne a dirmi Domattina andiamo in Belgio, quella volta lì invece si ruppe il cambio in Germania e il furgone andava solo in quarta e non si poteva fermare che poi si spegneva il motore e in quarta non ripartiva più e allora entrammo nel cortile di un’officina tedesca e senza fermarsi mai Pedro cominciò a girare in tondo dentro questo grande cortile, a girare in tondo una volta quattro dieci e io spuntavo dal finestrino aperto e tutte le volte che il girotondo mi portava davanti all’ingresso dell’officina urlavo Sciurdigum!..., che dovrebbe voler dire Scusi!..., e i meccanici tedeschi erano tutti fermi nei loro mestieri, tutti lì a guardarci a bocca aperta girare in tondo per mezz’ora, che di sicuro uno spettacolo così quei meccanici tedeschi lì non l’avevano mai visto, no, mai.

 

 

 

Compagno a te

Ti ricordi…, fa la mia nonna, che quel giorno lì la mia nonnina era passata a trovarmi e mi aveva portato i biscottini fatti da lei, che lei lo sa che a me piacciono tanto i biscottini fatti da lei.

Ti ricordi…, fa la mia nonna, che la mia nonnina seduta lì in poltrona aveva legato subito con l’Otto, che dovevi vederlo il palindromo come ti rideva alle battute della nonna, dovevi vederlo come ti sgranocchiava i biscottini mentre noi si beveva il caffè, quello che faccio io con la macchinetta napoletana, che ci vuole il suo tempo, a farlo, quel caffè lì.

Ti ricordi…, fa la mia nonna, ti ricordi di quando il nonno ti raccontava di quella volta del paese bruciato, al tempo che era partigiano, ti ricordi?, fa la mia nonna a squarciagola, che è un filino sorda, come sapete.

Mi ricordo sì, che domande, che io me li ricordo tutti i raccontini del nonno ciclista, e giornalista e partigiano. Che il nonnino mio non passava giorno che non mi raccontasse qualcosa, e non passava anno che non raccontasse più e più volte gli stessi episodi, sempre uguali, che a me piaceva così, sempre uguali, senza cambiare mai niente, lì, come le classiche, lì, attento che se cambi qualcosa me ne accorgo, attento.

Che quando ero piccolo il mio nonnino raccontava sempre di quella volta là che lui, Eligio,he il nonnino raccontava sempre di quella volta che lui,  er un pesce. che il mio nonnino s’era messo nome Eligio da partigiano, di quella volta là che lui, Eligio, era lì che si guardava il suo fucile, che più lo guardava e più si convinceva che quel fucile lì si sarebbe inceppato alla prima occasione. Che secondo me, però, era proprio l’idea di questa prima occasione ad angustiarlo, più che il fucile, al mio nonnino. E insomma quella volta là che si guardava il fucile lui, Eligio, quella volta là lui era da solo, che il suo compagno di pattuglia non sarebbe tornato prima di mezz’ora. Così pensò bene di mollare lì di guardarsi il fucile, che gli metteva solo angustie guardarlo, quel fucile lì con quello che si portava dietro. E pensò bene di lasciare le pietre dove s’era seduto e di entrare nel paesino abbandonato che stava giusto alle sue spalle.

Le grosse scarpe risuonavano di passi le finestre vuote di quelle case, nere d’un fuoco ormai spento…, Che questa era una delle frasi che al mio nonnino piaceva dire di più, che si vede che sapeva che a me, bambino, quelle case lì facevano correre un brividino giù per la schiena, ma un brividino di quelli... Che poi io lo sapevo che l’Eligio ora sarebbe entrato in una di quelle case dalle finestre vuote, lo sapevo. Tant’è che oltrepassò una porta divelta, triturò con le sue vetri e cocci già frantumati da altre suole, esitò soltanto un attimo, e infine cominciò a salire al piano di sopra. S’affacciò in quella che era stata una camera da letto e restò un poco. Poi, fatto un passo, entrò nella stanza di fronte.

E lì la vidi…, Che tutte le volte che arrivava a questo punto si fermava, e ti metteva addosso una curiosità, ma una curiosità… Non ci si poteva sbagliare…, Che si vede che il mio nonnino lo sapeva che uno s’incuriosiva, perché poi la tirava anche per le lunghe, abbassava la voce, s’avvicinava ai tuoi occhi spalancati e continuava lento, il mio nonnino… M’avvicinai con cautela, poggiai il fucile allo stipite e mi piegai sulle ginocchia…, Ma guarda tu cosa mi tocca sopportare, che sono finito qui, dentro questa casa nera dalla finestre vuote, piena di vetri rotti e di rumori che non conosco, che sono finito qui, nascosto dietro il mio nonnino e gli tengo la giacchetta con una mano, nell’altra un biscottino, e so mica cosa c’è lì davanti, so mica… L’accarezzai appena col polpastrello e la polvere lasciò il posto alla parola più dolce degli ultimi mesi: Remington. Continuai con lentezza a sfiorare il metallo delle leve, il nero del rullo, l'avorio dei tasti. Non era lo stesso modello che avevo in Redazione, ma da quanto tempo non vedevo una macchina da scrivere? E finalmente si può respirare. Che anche se lo sapevo già che prima o poi si sarebbe finiti qui, che anche se ogni volta che il nonnino mio mi raccontava questa storia io sapevo già cosa avremmo trovato, beh, tutte le volte ero lì che trattenevo il fiato e mi stringevo nelle spalle, che vai tu a sapere che piega possono prendere le cose.

Sicché alla fine l’Eligio afferra una sedia e si mette proprio in faccia alla Remington. Dalla finestra vede un paese silenzioso, vuoto. E comincia a scrivere. Prima a strappi, poi con una voluttà sempre più accesa, tanto che il ticchettio dei tasti della Remington si confonde presto con il calpestio dei contadini che si riprendono quell'angolo di montagna, passando dall'inchiostro alle case. Le voci delle donne si mescolano ai sudori delle corse scalze dei bimbi, al ronzare delle grosse mosche nere, allo sguardo irsuto dei vecchi.

“Eligio! Vuoi farti sentire dai tedeschi!? Andiamo, la strada è libera…”.

Non trasalii neppure. Il paese uscito dal mio ticchettare si sfece piano, come nebbia in foschia. Chissà, magari il pensiero di prendere la Remington con sé lo sfiorò, appena. Invece afferrò di nuovo il fucile, freddo. Infine uscì, fianco a fianco al suo compagno.

“Di' un po', ma quando scrivi a macchina, lo fai sempre senza carta?”.

Un’immagine della vita, un’immagine della sua vita…, Fa la mia nonna quando finisce di raccontare il racconto del nonno, che ora era la mia nonnina che raccontava a Otto e a me, ma dentro di me era la voce del nonno che sentivo, era lui che me la raccontava di nuovo quella storia, sempre uguale. Sicché solo quando la nonnina mi viene a dire, Un’immagine della vita, un’immagine della sua vita…, solo lì io mi desto dal torpore e sento di nuovo la voce della mia nonnina, che quella frase lì il nonnino mio non l’aveva mai detta, che mi accorgo se cambi, attento.

Faceva faceva, ma mai che mettesse un foglio sotto, compagno a te, fa la mia nonnina, lieve di malinconia, seppur un filino caustica, da dire. Che io sono lì che penso a quest’ultima frase, Compagno a te…, che so bene che la mia nonnina babetta tanto in qua e in là, ma dice mai niente per niente, la mia nonnina, Compagno a te…, sono lì che rimugino, dicevo, che lei alza i tacchi, sorride, saluta e se ne va.

Di bon…, faccio, guardando perplesso Otto, che anche Otto era lì che mi guardava, sopracciglia alzate. E muoveva in su e in giù la testa, come a dire, Eh, hai visto?…, che si vede che anche lui aveva fatto i suoi pensieri, ascoltando.

Come, Hai visto?... Hai visto cosa?...

Silenzio. E su e giù con la testa, sopracciglio alzato.

Ci devo parlare per benino con l’Otto, che va mica bene così, che questo è un periodo che mi scappa tutto in qua e in là. Spetta ben che prendo una sedia.

Sicché, in che senso Hai visto, Eh? Spiegati bene, Otto.

 

 

 

- INSERT -

 

 

 

- INSERT -

 

 

 

On the road

Un’altra volta fu quel giorno lì, Domattina si va in Austria. In Austria, d’inverno, su e giù per i passi innevati, col furgone di sei metri e il Pedro che lo guida in nero a tutto gas. Bella gita.

Andata, tutto bene, che quasi non ci credevo. Ritorno, neve che neanche al cinema. Ecco, volevo ben dire. Le mettiamo le catene Pedro?, flauto lì sornione, Le catene sono roba da culi, argomenta il filosofo al volante. E allora via senza catene che tanto nevica così solo su questo passo e appena arriviamo al tunnel sforacchiamo la montagna e poi dall’altra parte ci sono le stelle e la luna l’è una lampadina. Via che sembra di guidare una saponetta di sei metri e non so quanti quintali, ma si fa, don’t worry, si fa. Via che adesso proviamo a superare anche un Tir che fatto trentra facciamo trentuno, alè via così. Ma orpo stavolta va mica bene, stavolta si sentono i sei metri di furgone dietro di noi che girano dove vogliono loro, stavolta facciamo un bel giro giro tondo in mezzo all’autostrada che casca il mondo casca la terra, stavolta finiamo il giro sbattendo duro di lato contro il cumulo di neve sul bordo destro fermandoci come se avessimo parcheggiato, le ruote affondate nelle neve. Stavolta ci è proprio andata bene.

Segue silenzio immobile, gli sguardi persi nel buio che fiocca oltre il vetro.

Poi il Pedro rimette in moto e prova a ripartire, ma ciccia, si muove mica il bestione, slitta sfrigola rugge, ma si sposta di mezzo metro. E passa nessuno. Io zitto, che temo solo che Pedro mi dica Scendi e spingi. A un tratto in lontananza un rombo e una schiera di fari come di boeing in atterraggio, guardiamo dietro e vediamo l’avanzare lento di tre spazzaneve austriaci, di quelli tipo taglia forte, tre dinosauri che ci salveranno spostando grattacieli di neve. Orpo che ben! Ci sorridiamo contenti e ci accomodiamo per bene sui sedili che adesso si riparte, olè, che il rombo s’avvicina sempre di più, olè, che ci sfreghiamo le mani tutti beati che si torna a casa, olè, che fatto il tunnel c’è la luna di cui sopra, ormai è un attimo. E in un attimo i tre spazzaneve ci passano accanto e sollevano una montagna di neve che s’alza a campanile disegna una bella parabola nella luce elettrica e ricade gonfia come una trapunta a destra, sul bordo della strada, a destra, dove un furgone sembra fermo lì parcheggiato, a destra, una volta due tre, oplà, passati gli spazzaneve, autostrada pulita.

Di colpo tutto è silenzio. Noi due muti dentro il furgone sepolto di lato da metri di neve. Immobili. In silenzio. Gli occhi fissi contro un vetro tutto nero di neve bianca. In silenzio. A lungo. In silenzio.

 

 

 

 

 

(continua…)