Taranto, 1 Marzo 1502:
Aragonesi, ultimo atto
di Antonio Monaco


Note:
edizione elettronica dell'articolo di Antonio Monaco "Taranto, 1 marzo 1502: Aragonesi, ultimo atto". Inedito.
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Aveva trovato rifugio ad Ischia Federico, ultimo re della dinastia
d'Aragona, attorniato dai familiari in lacrime e dai più fedeli cortigiani, la mente confusa e l'animo angosciato per l'imminente decisione di fuggire dal regno ormai alla mercé delle armate francesi e spagnole, in disaccordo su tutto ma bramosamente pronte al lauto banchetto.

Era nipote di quell'Alfonso il Magnanimo che nel 1443 aveva marciato trionfalmente su Napoli ricostituendo, in unione con la Sicilia, l'antico regno normanno-svevo. Il grande avo, fissando la sua residenza nella città partenopea, ne fece il centro di un impero mediterraneo, forte militarmente ed economicamente, che proiettava sul Mezzogiorno d'Italia i benefici di un'azione di rinnovamento politico ed amministrativo, già attuato nei domini d'Aragona e Catalogna.

Il sistema politico italiano aveva trovato con la pace di Lodi (1454) un felice equilibrio tra i maggiori stati regionali, Firenze, Venezia, Ducato di Milano, Ducato di Savoia, Regno di Napoli e Stato Pontificio: le armi tacevano e la libertà d'Italia era al momento al sicuro da ogni mira espansionistica europea.

Solo il pericolo turco, particolarmente dopo la caduta di Costantinopoli, teneva in apprensione le cancellerie e terrorizzava le popolazioni costiere della penisola: lo sbarco ottomano ad Otranto del 1480 ne aveva evidenziato la facile vulnerabilità. Nel contempo l'Umanesimo trionfava nelle corti e Napoli ne diveniva uno dei centri più vivaci.

La decisione, per certi versi incomprensibile, di Alfonso di dividere la "confederazione aragonese" (passateci il termine) assegnando al figlio naturale Ferrante la corona napoletana, non recise i forti legami commerciali che il nuovo sovrano continuò a mantenere col resto dei domini, assegnati, unitamente alla Sicilia, al fratello Giovanni.

Accentuato mercantilismo e sviluppo delle autonomie municipali caratterizzavano una strategia politica tesa a favorire l'emergere di nuove forze sociali da contrapporre al potere del baronaggio feudale.

Dopo la crisi degli anni 1459-1464, durante i quali la guerra civile aveva imperversato nel regno mettendo in dubbio i diritti dinastici di Ferrante, e preceduta dalla occupazione temporanea di Gallipoli da parte dei Veneziani, la ribellione era tornata a deflagrare ad alto livello con la congiura dei baroni nel novembre del 1485, duramente e spietatamente repressa dalla monarchia.

Il re trionfava, forte di un partito che si esprimeva nei ceti produttivi, nel patriziato cittadino, nelle autonomie municipali; d'altro canto, la sagacia diplomatica di Lorenzo De' Medici risultò essenziale per la ricomposizione di un conflitto solo apparentemente interno e che, per il coinvolgimento militare di Venezia e del pontefice Innocenzo VIII, minacciava di travolgere gli equilibri di pace della penisola Italiana. La crisi vera era però solo rinviata perché la possibilità di una pace duratura trovava un limite invalicabile nella volontà di conquista delle maggiori potenze europee: nel 1494 si apriva, con la discesa di Carlo VIII di Francia, l'età delle horrende guerre de Italia, come s'espresse la dolorosa riflessione storica del Machiavelli.

Dopo la morte di Ferrante d'Aragona, prima i tentativi diplomatici del figlio Alfonso II, poi la reazione militare del nipote Ferdinando II detto "Ferrandino", per contrastare la facile cavalcata del sovrano d'oltralpe, non sortirono l'effetto sperato e solo una alleanza antifrancese a livello europeo riuscì a provocarne il ritiro da Napoli e la fine della spedizione. Il controllo e la pacificazione del Regno non fu però cosa agevole: il nuovo re Federico, incoronato a Capua nell'agosto del 1497 giunse a completarla sia attraverso la neutralizzazione degli ultimi nuclei di resistenza sia per mezzo di una politica di compromesso con la fazione baronale filofrancese.

La pace durò breve tempo: ciò che Federico non mise in conto fu tanto la tenace volontà di predominio in Italia del nuovo sovrano Luigi XII quanto la sua convergenza di interessi con la Spagna di Ferdinando il Cattolico, realizzatasi attraverso il trattato di Granata del 1500: la nuova campagna militare portò i francesi ad occupare la parte settentrionale del Reame, mentre l'esercito spagnolo si insediava in Puglia e Calabria al comando del Gran Capitano Consalvo di Cordova.

E torniamo al doloroso dilemma di re Federico: la stanchezza e la sfiducia ebbero la meglio su una qualche ipotesi di reazione, inducendolo a salpare da Ischia per la Francia e a rinunziare definitivamente al Regno, la cui responsabilità di difesa poneva sulle gracili spalle del dodicenne Ferdinando, duca di Calabria. Il giovanissimo principe ereditario, Vicario del Regno, al sicuro delle poderose mura del castello di Taranto, assistette angosciato all'arrivo delle truppe spagnole e del Gran Capitano che a metà settembre pose l'assedio alla città, sbarrandone in primis i ponti di accesso con alti terrapieni, da cui le batterie spagnole poste ad utile altezza, potevano colpire agevolmente le difese dei torrioni. Ma non si sparò. Consalvo inviò in città il capitano Olivàn perché chiarisse al duca la situazione disperata in cui si trovava e lo inducesse ad arrendersi.

Ma il pur inesperto Vicario non si lasciò impressionare: chiese ed ottenne una tregua di due mesi per potersi consultare col padre profugo in Francia. Nel frattempo le ultime città fedeli, Gallipoli e Rocca Imperiale, si arrendevano alla flotta di Juan Lezcano, ed i potenti del Regno affollavano quotidianamente l'accampamento spagnolo facendo atto di sottomissione.

Il senso di isolamento agiva su un animo sempre più sfiduciato malgrado gli incitamenti che l'augusto padre inviava per lettera, o la raccomandazione di arrendersi solo ai Francesi che nel frattempo, in barba agli accordi, avevano occupato alcune città e territori del nord della Puglia. Fu in tal modo posta la premessa di una rottura che avrebbe portato in breve alla guerra aperta tra i due eserciti e alla vittoria degli Spagnoli a Cerignola.

La resa di Taranto fu alfine conseguita e segnò il termine della autonomia dinastica e politica del Regno. La trattativa, condotta dai plenipotenziari Pedro de Paz e Luis de Herrera, garantiva al giovane principe la propria libertà personale e alla città l'assicurazione di nessun atto di ritorsione. Era il primo marzo 1502.


Mentre i Tarantini, accogliendo i nuovi padroni con manifestazioni di giubilo se ne guadagnavano l'impunità e la benevolenza, il timore di future complicazioni legittimistiche sostenute dai Francesi spinse il Consalvo a mancare di parola ed a inviare il duca di Calabria in Spagna, ospite forzato, pur col massimo riguardo ed i dovuti onori, di Ferdinando il Cattolico.

Antonio Monaco

Appassionato cultore di Storia (soprattutto altomedievale), è nato a Talsano (frazione di Taranto) il 19/02/47.

Ha conseguito il diploma di maturità classica presso il liceo classico "Archita" di Taranto, in seguito si è laureato in Lettere Moderne con indirizzo storico c/o l'Università degli Studi di Lecce con la votazione di 110/110.