“Unirsi ai napoletani è come unirsi ai lebbrosi”

Scrisse il patriota italiano Massimo D’Azeglio

RICONQUISTIAMO LA LEGITTIMA INDIPENDENZA

Antonio Gramsci: “L’unità d’Italia non è avvenuta su basi di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno, nel rapporto territoriale città-campagna. Cioè, il Nord concretamente era una “piovra” che si è arricchita a spese del SUD e il suo incremento economico-industriale è stato in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. L’Italia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole, riducendole a colonie di sfruttamento”.

Gaetano Salvemini: “L’unità d’Italia è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziamenti nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali”.

F.sco Saverio Nitti: Già nei primi quarantacinque anni di vita unitaria il Mezzogiorno aveva funzionato come colonia di consumo e aveva permesso lo sviluppo della grande industria del Nord”.

F.sco Saverio Nitti. 1903: "Il Regno delle Due Sicilie avea due volte più monete di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme."

F.sco Saverio Nitti, nel suo libro “Nord e Sud”, calcolava che lo Stato, nel ‘900, spendeva 71,15 lire annue per ogni abitante della Liguria e solo 19,88 lire annue per ogni abitante della Sicilia.

Nel 1861 la Sicilia, a fronte di una bilancia commerciale attiva quattro volte superiore a quella del Piemonte, concorreva al debito pubblico unificato con appena 6.800.000 lire, su un totale di 111.000.000 e contro i 62.000.000 del regno Sabaudo.

La ricchezza immobiliare siciliana superava, fino al 1890, quella industriale del Nord, ottenendo l’unico risultato di attirare su di sé un’ingente massa di tributi, che si risolvevano inevitabilmente nel potenziamento dell’economia industriale settentrionale. Per questo motivo il Colajanni affermava che le tariffe del 1887 avevano consentito la creazione dell’industria italiana, a danno interamente dell’agricoltura del Meridione e delle Isole.

La vendita dei beni ecclesiastici incamerati e del demanio “antico”, unitamente a tutte le rendite dei beni ecclesiastici censiti, fruttava allo Stato, nel corso di qualche decennio, l’incredibile somma di quasi 800 milioni di lire (più di centomila miliardi di lire attuali).

Aristide Buffa in “Tre Italie”, ESA editrice, 1961: “I danni esercitati dalla vendita dei beni ecclesiastici … furono incommensurabili e hanno i loro effetti fino ad oggi...”; i soldi ricavati, “...se spesi nell’Isola, l’avrebbero trasformata in uno dei paesi più progrediti del tempo...ma allora urgeva la costruzione delle ferrovie nel Piemonte e nell’Alta Italia, per cui, praticamente, al dissanguamento della Sicilia corrispose la creazione, a nord del Po, dell’ambiente adatto per l’impianto delle nuove industrie...

Luigi Einaudi: "Sì, è vero, noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo Stato italiano, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale"

SCRITTI SULLA QUESTIONE MERIDIONALE

Franceso Saverio Nitti

Ma le masse popolari delle Due Sicilie, da Ferdinando IV in qua, tutte le volte che han dovuto scegliere tra la monarchia napoletana e la straniera, tra il re ed i liberali, sono stati sempre per il re: il '90, il '20, il '48, il '60, le classi popolari, anche mal guidate o fatte servire a scopi nefandi, sono state per la monarchia e per il re.

… I Borboni temevano le classi medie e le avversavano; ma tenevano anche ad assicurare la maggiore prosperità possibile al popolo. Nella loro concezione gretta e quasi patriarcale non si preoccupavano se non di contentare il popolo, senza guardare all'avvenire, senza aver vedute, prospettive. Bisogna leggere le istruzioni agli intendenti delle province, ai commissari demaniali, agli agenti del fisco per sentire che la monarchia cercava basarsi sull'amore delle classi popolari.

II re stesso scriveva agl'intendenti di ascoltare chiunque del popolo: li ammoniva di non fidarsi delle persone più potenti; li incitava a soddisfare con ogni amore i bisogni delle popolazioni. Leggendo quei rapporti, quelle lettere, quelle circolari si è spesso vinti da quel caldo senso di simpatia popolare che traspira da ogni frase.

… La finanza era rigida, la banca onesta. Il Banco di Napoli dal 1818 al 1861, sopra una media annuale di 69 milioni di anticipazioni e di sconti, non perdette che 65.000 lire all'anno, meno della Banca d'Inghilterra, meno della Banca di Francia, meno forse di qualsiasi grande banca al mondo.

… Quale era la situazione dei varii Stati al momento dell'annessione? Quando l'unità si formò, quali erano gli oneri che ciascuno Stato portava? Quali erano i vantaggi?

È fuori di dubbio che a Napoli le imposte erano, data la ricchezza degli abitanti, almeno tre volte inferiori che in Piemonte: di molto inferiori senza dubbio a quelle degli altri Stati della penisola.

Nel 1800, la situazione del Regno delle Due Sicilie, di fronte agli altri Stati della penisola, era la seguente, data la sua ricchezza e il numero dei suoi abitanti.

1° Le imposte erano inferiori a quelle degli altri Stati;

2° I beni demaniali e i beni ecclesiastici rappresentavano una ricchezza enorme e, nel loro insieme, superavano i beni della stessa natura posseduti dagli altri Stati;

II debito pubblico, tenuissimo, era quattro volte inferiore a quello del Piemonte e di molto inferiore a quello della Toscana;

II numero degli impiegati, calcolando sulla base delle pensioni nel 1860, era di metà che in Toscana e di quasi metà che nel Regno di Sardegna;

La quantità di moneta metallica circolante, ritirata più tardi dalla circolazione dello Stato, era in cifra assoluta due volte superiore a quella di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme ».

Da dieci anni la ricchezza dell'Italia settentrionale è grandemente cresciuta; nel Mezzogiorno vi è invece arresto e in qualche provincia vi sono anzi tutti i sintomi della depressione. La Lombardia, il Piemonte e la Liguria, godendo tutti i benefizi di un regime doganale fatto quasi ad esclusivo loro benefizio, dopo avere goduti i frutti di una politica finanziaria, che per quaranta anni riserbava ad essi i maggiori benefizi e al Sud i maggiori danni, sono in trasformazione profonda; sicché il distacco fra il Nord e il Sud si accentua. E qualunque finzione per negare, non serve a nascondere la verità, che si manifesta in tutte le forme.

… Quando nel 1860 il Regno delle Due Sicilie fu unito all'Italia, possedeva in sé tutti gli elementi della trasformazione. L'Italia meridionale aveva infatti un immenso demanio pubblico. Le imposte dei Borboni erano mitissime e Ferdinando II aveva cercato piuttosto di mitigarle che di accrescerle. Le accuse che Antonio Scialoja movea alla finanza borbonica, esaminate ora onestamente, sulla base delle pubblicazioni ufficiali, non resistono alla critica. Ben vero che l'opera di Scialoja fu nobilmente e altamente politica e va considerata tenendo presenti i fatti che la determinarono.

Dal 1820 al 1860 il regime economico e finanziario dei Borboni determinò una grande capitalizzazione.

È vero che le province erano in uno stato quasi medioevale, senza strade, senza scuole; ma è vero pure che vi era uno stato di grossolana prosperità, che rendeva la vita del popolo meno tormentosa di ora.

Il commissario governativo mandato a Napoli da Cavour, dopo l'annessione, il cavaliere Vittorio Sacchi, riconosceva tutti i meriti della finanza napoletana, e nella sua relazione ufficiale non mancava di additarli.

All'atto della costituzione del nuovo Regno, il Mezzogiorno, come abbiamo già detto, era il paese che portava minori debiti e più grande ricchezza pubblica sotto tutte le forme. Or, poiché si diceva che il Nord fosse meno ricco del Sud e si credeva che molto avesse sacrificato alle lotte della indipendenza e della unità, parve anche assai naturale che i meridionali pagassero il loro contributo. Così i debiti furono fusi incondizionatamente e il 1862 fu unificato il sistema tributario ch'era diversissimo. Furono venduti per centinaia di milioni i beni demaniali ed ecclesiastici del Mezzogiorno, e i meridionali, che aveano ricchezza monetaria, fornirono tutte le loro risorse al tesoro, comprando ciò che in fondo era loro; furon fatte grandi emissioni di rendita nella forma più vantaggiosa al Nord; e si spostò interamente l'asse della finanza. Gl'impieghi pubblici furono quasi invasi dagli abitanti di una sola zona. La partecipazione ai vantaggi delle spese dello Stato fu quasi tutta a vantaggio di coloro che avevano avuto la fortuna di nascere nella valle del Po.

Non vi fu nessuna malevolenza. Si dicea - e i meridionali diceano - l'Italia del Sud è ricca; e bene perché non dovea pagare i vantaggi dell'unità, essa che vi avea meno contribuito?

La burocrazia meridionale era borbonica; si potea non licenziarla quasi in massa?

Occorreva, in vista di una guerra coll'Austria, e per compiere l'unità, trasformare i paesi che doveano essere il teatro della guerra. Si potea non spendere tutte le risorse nel Nord? Chi può discutere dinanzi al pericolo?

Vi era bisogno di grandi entrate; e si potea sofisticare sul modo?

In Italia noi abbiamo visto che lo Stato prende più che in tutti gli altri grandi paesi di Europa, relativamente alla produzione annuale della nazione.

Ebbene: dal 1860 a oggi i 56 miliardi che lo Stato ha preso ai contribuenti sono stati spesi in grandissima parte nell'Italia settentrionale. Le grandi spese per l'esercito e per la marina; le spese per i lavori pubblici; le spese per i debiti pubblici; le spese per tutti gli scopi di civiltà e di benessere, sono state fatte in grandissima parte nel Nord.

Per quaranta anni è stato un drenaggio continuo: un trasporto di ricchezza dal Sud al Nord. Così il Nord ha potuto più facilmente compiere la sua educazione industriale; e quando l'ha compiuta ha mutato il regime doganale. E il Mezzogiorno che non ha, soprattutto che non avea nulla da proteggere, ha funzionato dopo il 1887 come una colonia, come un mercato per le industrie del Nord; che poi, raggiunto un certo grado di sviluppo, han potuto esportare e sfidare anche l'aria libera della concorrenza.

Perfino le spese fatte nel Mezzogiorno furono in gran parte erogate per mezzo di ditte settentrionali. Ho un elenco quasi completo dei grandi appaltatori dello Stato dopo il 1862; non figurano che pochissimi meridionali. Spesso questi ultimi sono stati poco intraprendenti, ma tante volte, quando hanno voluto essere, si sono urtati, soprattutto nei primi anni, contro una burocrazia interamente avversa e diffidente.

Le più grandi fortune dell'Italia settentrionale sono state compiute mediante lavori pubblici o forniture militari; la storia del regime ferroviario da venti anni a questa parte (la conversione delle obbligazioni tirrene è classico esempio) spiega non pochi spostamenti di ricchezza …

… Per la più gran parte dei deputati del Mezzogiorno una croce di cavaliere ha più importanza di un trattato di commercio; anzi importa più che l'indirizzo di tutta la politica finanziaria.

Il Governo, da parte sua, ha avuto interesse a mantenere il Mezzogiorno come un feudo politico, votante per tutti i Ministeri. Come nelle vie di campagna sorge di tratto in tratto qualche croce a ricordare un antico misfatto, nella politica meridionale molte croci spiegano assai misfatti. Soprattutto dopo il 1876 ogni ritegno è svanito.

La Destra fu avversa al Mezzogiorno: o, per dir meglio, essa che non avea alcun grande programma economico, ebbe politica interamente opposta agli interessi meridionali. Era inoltre un partito chiuso, spesso una vera consorteria, con capi eminenti, con gregari insignificanti; e credea politica conveniente creare grossi interessi privati su cui assidere il suo potere.

Ond'è che l'Italia meridionale fu il campo delle agitazioni di Sinistra. La Sinistra meridionale, di cui non sarà mai detto male a bastanza, non fu un partito, fu l'insieme di tutti gli appetiti, lo sfogo di tutti i malcontenti: fu la negazione di ciò ch'era stata la Destra. Si personificò spesso in uomini privi di ogni morale, che confondevano interesse pubblico e privato e il primo sottomettevano quasi sempre al secondo. Ebbe nella politica qualche volta azione utile: nella morale pubblica quasi sempre dannosa. Raccoglieva antichi borbonici, liberali nuovi, ma abituati alle abitudini vecchie e desiderosi di prepotere; amanti dei metodi dell'assolutismo peggiore quando erano al governo, predicatori della peggiore anarchia quando erano all'opposizione. Vi erano in essa alcuni capi illustri per il passato; altri il cui passato era stato ingrandito; altri che la parola abbondante rendeva illustri e pericolosi.

Dopo il 1876 soprattutto il Mezzogiorno è stato assai più di prima dato in preda ai peggiori avventurieri. Da ogni Governo, più o meno, si è speculato sulla sua ignoranza, sulla sua povertà, sui suoi dolori. Anche adesso province intere sono sotto la dominazione di avventurieri parlamentari, che vi esercitano il loro potere mantenendolo su organizzazioni locali pessime. Date le vicende del regime rappresentativo, la tentazione di avere una maggioranza solida, di farsi la maggioranza, come si dice in gergo parlamentare, vince più o meno tutti. D'altronde, per male tradizioni, l'Italia meridionale pare che essa stessa invochi e solleciti ciò che più le nuoce.

Così invece di reagire il Sud ha acuito esso medesimo il suo male, determinando spese inutili, chiedendo per ignoranza politica fastosa, che non potea pagare: invece di impedire lo sperpero l'ha secondato, e spesso l'ha voluto. Senza dubbio molti grandi avvocati l'Italia meridionale ha dati; molti che sono arricchiti. Molti arricchiscono tuttavia, facendo servire il potere politico a corrompere e a inquinare la giustizia. Ma ciò è più grande ragione di tristezza … La pochezza dei rappresentanti del Mezzogiorno e la confusione delle idee è stata tale che, per tanti anni, si è detto e si è pubblicato nella Camera e fuori che il Mezzogiorno pagava poco e viceversa otteneva il maggiore benefizio delle spese dello Stato! In altri termini si è aggiunta la ironia crudele al danno; ironia dei fatti, se non delle intenzioni.

Ora dalle mie indagini risulta che, proporzionalmente alla sua ricchezza, il Sud paga per imposte di ogni natura assai più del Nord; e viceversa lo Stato spende molto meno. La rendita pubblica a sua volta si è andata a concentrare dove maggiore è il numero dei grandi servizi di Stato e maggiore il numero delle spese. L'ordinamento del nostro sistema tributario è tale che una provincia povera come Potenza paga più di Udine; e Salerno paga più di Corno, mirabile per industrie e per traffici!

Le grandi spese sono concentrate nel Nord: alcune per necessità, altre senza. Le spese navali si fanno quasi interamente in Liguria. Nel Nord d'Italia vi sono 10 soldati per ogni 1000 abitanti e nell'Italia meridionale meno di 4.

Gli istituti di istruzione, di giustizia, di educazione industriale sono concentrati tutti allo stesso modo, sicché il Mezzogiorno, appare qualche volta una landa delle istituzioni, ove il Governo è più assenteista dei proprietari. In questa landa la civiltà non è rappresentata spesso che dai carabinieri; e il Governo non appare che sotto le forme della prepotenza e della violenza, costretto, per conservare i suoi feudi politici, a consegnare ogni provincia, ogni zona nelle mani dei peggiori avventurieri parlamentari. Si credeva che le grandi spese per lavori pubblici fossero state nel Mezzogiorno e ho dimostrato che non è vero; si credeva che i meridionali avessero invaso gli impieghi e ho trovato che tra gli impiegati il minor numero era di meridionali. Tanto han potuto la nostra poca educazione politica e il folle pregiudizio della nostra ricchezza!

Ma, si dice, l'Italia meridionale ha grandi risorse che non mette a frutto. A Milano, che è la città meno unitaria, avendo ricavato i maggiori benefizi dalla unità, si ritiene che i baroni meridionali, in una economia quasi feudale, nascondano le loro ricchezze.

Quali ricchezze? e che cosa non si mette a frutto? La più grande quantità di rendita pubblica si trova (se si tolga il Lazio) in Liguria, in Lombardia, in Piemonte; assai poca è la massa di rendita che si trova nel Mezzogiorno ed è stata comperata alle condizioni più svantaggiose. Un abitante della Liguria ha 15 volte più rendita pubblica di un abitante della Calabria; e un abitante del Piemonte ne ha 7 volte più di un abitante di Basilicata.

E dove sono le ricchezze che rimangono inoperose? Il risparmio è così esiguo sotto tutte le forme, che quasi non pare che possa ridursi a così poco.

Nel 1896 mentre l'Italia settentrionale avea nelle casse di risparmio ordinarie quasi 800 milioni; 140 nelle società cooperative di credito; 35 nelle società ordinarie di credito; 244 nelle casse postali di risparmio e avea inoltre banche poderose e istituzioni commerciali di ogni nome; nell'Italia meridionale, dove si vive una vita assai grama, non vi erano che pochi risparmi.

L'Italia continentale del Sud, che rappresenta il 23% della popolazione italiana, mentre la Lombardia rappresenta appena il 13%, non avea nello stesso anno e sotto tutte le forme che poco oltre 160 milioni di risparmio; mentre la Lombardia ha nelle sole casse di risparmio ordinarie assai più che mezzo miliardo. Per ignoranza delle cose, per fatua e dannosa tradizione, i meridionali stessi ripetono che il Mezzogiorno ha grandi ricchezze inoperose. Dove? Sotto quale forma?

Senza dubbio i pochi ricchi del Mezzogiorno meritano tutto il biasimo per le loro abitudini di Spagna; per essersi trasformati in semplici percettori di interessi e di rendite; hanno grande responsabilità per essere impari al loro compito; ma se questo fatto è assai riprovevole nelle province meridionali ed è più grave che altrove, è forse esclusivo di esse?

La politica finanziaria dello Stato ha trasportato una massa ingente di ricchezza, qualche miliardo forse, dal Sud al Nord. La politica doganale, soprattutto dopo il 1887, ha acuito il contrasto d'interessi. Per molti anni due terzi degli italiani hanno lavorato a beneficio della Liguria, del Piemonte e soprattutto della Lombardia. Così la differenza fra il Nord e il Sud si è acuita: l'Italia settentrionale e l'Italia meridionale sono ora a una distanza maggiore che nel 1860.

La mortalità elevata, quando assume carattere permanente, è indice di disagio e di povertà. Ora la mortalità in Italia diminuisce; ma diminuisce in assai diversa misura. Nel periodo 1865-1869 era nell'Italia settentrionale di 29,06 per 1000 abitanti, nella meridionale di 31,86: la differenza non era grande. Nel 1898 è stata nell'Italia settentrionale di 21,24 e nella meridionale di 25,07. Se la mortalità diminuisce da per tutto, diminuisce disegualmente.

Sono in Italia gli Abruzzi e la Puglia dove si muore di più: e sono la Liguria e il Piemonte dove si muore di meno. Così per la delinquenza e per la istruzione: se vi è miglioramento in tutta la penisola, ancora più si è acuito il dissidio fra il Nord e il Sud, indice di situazioni differenti.

Le poche statistiche sui consumi che noi possediamo ci mettono in grado di affermare che mentre lo sviluppo di essi è notevole nel Settentrione, in molte zone del Mezzogiorno vi è tendenza alla diminuzione. Caratteristico il fatto della città di Napoli, dove le cifre dei dazi indicano una situazione orribile e quasi tormentosa. Così le imposte, avendo raggiunto un alto grado di pressione, si esigono nel Sud con difficoltà: e, per il regime tributario italiano, ricadono con maggiori gravezze sui contribuenti meridionali.

La media degli aggi delle esattorie che è di 0,91 in Lombardia, di 0,99 in Piemonte, di 1,09 in Liguria, raggiunge 2,39 in Abruzzo, 3,37 in Calabria, 4,02 in Basilicata. Masse enormi d'immobili sono espropriate ogni giorno nel Sud. E siamo giunti al punto che la Calabria ha più espropriati dell'Italia centrale e dell'Italia settentrionale unite assieme; anzi, che la Basilicata ha da sola un numero di espropriati che è di tre volte superiore a quello dell'Italia settentrionale, mentre rappresenta un ventunesimo di quella popolazione.

Qualcuno ha detto che vi è nel Mezzogiorno l'abitudine di farsi espropriare. È uno spirito un po' macabro: e, come ho detto in Nord e Sud, non è molto dissimile dal consiglio che è in alcuni vecchi libri di cucina piemontese: il coniglio ama di essere scorticato vivo.

La città di Napoli, la quale nel secolo XVI era la seconda città di Europa per numero di abitanti e veniva subito dopo Parigi, ora non è più tra i centri maggiori. In questa diminuzione relativa è un fatto di ordine generale, il quale si riattacca alle mutate condizioni della produzione e del traffico. Ma gli ordinamenti economici e finanziari del Regno d'Italia hanno accentuato questo fatto.

Nel 1862 la città di Napoli aveva quasi il doppio della popolazione di Milano e ora la supera di 89 mila, avea quasi quattro volte la popolazione di Genova e ora ha poco più del doppio; avea più del doppio della popolazione di Torino e ora la supera di un terzo. E ciò senza parlare di Roma, che ha avuto sviluppo enorme. Fra qualche decennio Napoli non sarà né meno la più popolosa città italiana.

È vero che i centri minori del Mezzogiorno si sono assai sviluppati e che la vita delle province è di molto aumentata…

… Perduta la capitale, Napoli avrebbe dovuto trasformarsi in grande città industriale. Un popolo di 600 mila abitanti non è mai vissuto e non può vivere sulle spese dei forestieri: i quali, del resto, per le mutate condizioni, non vengono più a svernare se non in piccolo numero e per breve tempo. Ma mancava l'educazione... e mancò la possibilità.

Le vendite tumultuose dei beni demaniali, l'aggravamento delle imposte, le grosse emissioni di rendita, la perdita del grosso mercato di consumo, determinarono uno stato di depressione, che si andò sempre più aggravando.

D'altronde, poiché il paese non avea educazione politica, fu dato in preda a tutte le clientele più infami, da governi che non voleano assicurarsi se non delle maggioranze. E questo stato di cose ha impedito ogni sviluppo di vita industriale.

Or sono oltre trenta anni che la città di Napoli presenta tutti i sintomi della decadenza: non sorgono nuclei industriali, i traffci rimangon quasi stazionari, la vita locale diventa più difficile.

Migliorate in qualche modo le condizioni sanitarie, l'acqua limpida e abbondante ha fatto diminuire grandemente il numero delle malattie infettive: ma è cresciuta la mortalità derivante da poca e poco sana alimentazione. La morbilità e la mortalità per esaurimento aumentano: sintomo di uno stato di cose rattristantissimo.

La situazione di Napoli si presenta anzi spaventosa. La tubercolosi è in aumento rapido e continuo; le enteriti frequentissime, indice di nutrizione povera e malsana, sono, caso unico in Italia, raddoppiate solo a Napoli negli ultimi anni; tutti i sintomi della povertà economica coincidono con la decadenza fisica della popolazione.

Vi sono piccole città nell'Italia del Nord, che hanno una potenza industriale superiore a Napoli: certo tutta la provincia di Napoli, che contiene così immane popolo, ha meno forza motrice nella industria della piccola provincia di Corno. Massa enorme di uomini peggiora ogni giorno le sue condizioni di esistenza: e Napoli, caso unico nel mondo civile, presenta questo spettacolo: da dieci anni a questa parte, mentre la sua popolazione aumenta, diminuisce la quantità degli alimenti ch'essa consuma. Come nella parabola del dott. Sophus, che constatava che, quando le città litoranee aumentano, i pesci vanno via.

Tutte queste cose invece di determinare nel Mezzogiorno una reazione violenta, hanno determinato solo uno stato di inerte e pericoloso malcontento. L'italia meridionale non è conservatrice, né liberale; è apolitica. E come accade nei paesi apolitici, è turbata spesso da scosse brusche: sicché costituisce un pericolo rivoluzionario. Nessun paese d'Italia ha più mutato e più subitamente mutato dinastie di questo paese, che pure dette all'Italia il più antico e più grande reame.

Ma ora, diffondendo l'idea, ch'esso sia e rimanga una specie di baluardo delle istituzioni, si viene a creare un equivoco permanente e a perpetuare una delle maggiori cause di danno. Un ministro meridionale ha detto che i sindaci del Mezzogiorno sono tutti fedeli cavalieri della Monarchia: cavalieri e commendatori sono senza dubbio quasi tutti; ma si può dire ch'essi non rappresentino nessuna tendenza politica.

L'unità non vuole dire uniformità; il paese più unitario di Europa, la Francia, ha ordinamenti amministrativi speciali per Parigi e per Lione, e quasi dovunque le grandi città hanno regimi differenti. Ma anche la unità diventa pretesto di male. Così ora s'impedisce, sotto pretesto unitario, che Napoli abbia ordinamento amministrativo speciale e conforme ai suoi bisogni, e si vuole mantenere a ogni costo un sistema i cui risultati dolorosi non potrebbero essere più evidenti.

La trasformazione rapida dell'Italia del Nord non è suo merito: è conseguenza di condizioni storiche e geografiche evidentissime.

E così anche la depressione del Sud non risponde ad alcuna necessità etnica: ma solo a condizioni che possono mutare e che noi crediamo dovranno mutare. Il processo di trasformazione dell'Italia del Nord è evidente.

In un primo tempo, formata la unità, essa ha dato, per ragioni politiche, i soldati, gl'impiegati, i costruttori: vi era maggiore cultura e vi era la pratica del governo rappresentativo. L'Italia del Nord ha profittato quasi esclusivamente di tutta la politica dello Stato: Liguria, Lombardia, Piemonte, soprattutto sono state le tre zone dove tutto è andato ad affluire. Per trenta anni tutte le spese dello Stato vi si sono quasi concentrate; così si sono formati i primi grandi nuclei di capitali, che hanno formazione storica e politica, piuttosto che industriale. Quando i capitali si sono concentrati, l'Italia del Nord, a cominciare dal 1872, poiché aveva il Governo e si trovava di fronte a regioni che non volevano nulla, ha orientato la politica doganale in tal modo che la sua trasformazione industriale è stata possibile: ed essa si è trovata ad avere una grande colonia di quasi 20 milioni di uomini, l'Italia del Centro, del Sud, le isole, che sono state un mercato sicuro e per necessità doganale fedele. Le tariffe del 1887 hanno accentuato questo fatto.

D'altra parte, la condizione geografica dell'Italia del Nord, l'avere il confine di un paese di 30 milioni di uomini, ha reso rapida la trasformazione, che è avvenuta, meno per merito dei nostri industriali, che per l'azione esercitata dalle popolazioni e dai capitali dell'Europa centrale. Le prime grandi industrie che sono sorte nel Nord sono state fatte nella più gran parte da francesi, da tedeschi, da svizzeri: il libro d'oro dell'industria e del commercio di Lombardia abbonda di suoni gutturali e di desinenze aspre.

E, d'altra parte, anche la mano d'opera si è perfezionata sotto l'influenza esterna del confine.

Tutta l'emigrazione dell'Italia del Sud è temporanea e si dirige, in generale, oltre l'oceano: sono diecine di migliaia di contadini che vanno a vendere la forza di lavoro, e che in genere non tornano.

L'Italia settentrionale — rassomigliabile in questo soltanto al Belgio, situato anch'esso tra grandi centri di produzione -ha una forma speciale di emigrazione temporanea: sono lavoratori che vanno ogni anno all'estero per due o tre mesi o più a trovar lavoro, e che dopo tornano in patria. Or bene sono questi operai che sono stati le sentinelle avanzate della grande industria.

Tra Milano e la Svizzera i treni impiegano minor tempo che tra Napoli e Salerno; ora l'azione esterna è stata ed è grandissima.

E però quando quest'azione si è svolta in un paese che per almeno trent'anni ha assorbito quasi tutte le spese di un grosso Stato di trenta milioni di uomini, ha trovato il terreno pronto per la trasformazione industriale; ha trovato i capitali. Il regime doganale ha fatto il resto. Ora, invece, l'Italia meridionale è rimasta medioevale in molte province, non per sua colpa, ma perché tutto l'indirizzo della politica interna, economica e doganale, ha determinato questo fatto. Tra l'Italia del Nord e l'Italia del Sud è ora più grande differenza che nel 1860; e, mentre la prima si avvicina ai grandi paesi dell'Europa centrale, per la sua produzione e per le sue forme di vita pubblica, la seconda ne rimane sempre lontana, e, per la produzione sua, rimane anzi assai più vicina all'Africa del Nord.

Questa è la verità che nulla può mutare nel suo artificio: una verità che nessuno sforzo di logica può attenuare…

… Ma bisogna pur dire che in tutto ciò non vi è nulla di fatale, e il giorno in cui la diffusione della verità avrà determinato nei meridionali l'idea che la salute è solo in loro stessi, nel loro spirito di opposizione, nella insofferenza dell'abuso, nel più grande spirito di solidarietà, quel giorno si sarà fatto un gran passo nella via della soluzione.

COME TI FINANZIO IL NORD

Motore propulsivo della riforma fiscale in senso federalista è la convinzione che cospicui finanziamenti siano transitati, dal Nord produttivo, al Sud sprecone. Transito che non produce nessun beneficio al Nord, ma che fa sentire alla parte produttiva del Paese il peso maggiore delle imposte. Se questa tesi può riscuotere il favore degli elettori in campagna elettorale, probabilmente non regge all’analisi di dati reali. La pubblicazione del 1997 di Gennaro Zona “Come ti finanzio il Nord” può essere utile a chiarire i numeri dell’intervento straordinario per il Meridione d’Italia e l’utilizzo della Cassa del Mezzogiorno, prima, e dell’AgenSud, poi, a tutto beneficio delle industrie del Nord. Nella ricerca si evidenzia come «non sia mai esistito alcun trasferimento diretto di fondi dal Nord al Sud, ma politiche di redistribuzione della ricchezza nazionale». Politiche che però sono state influenzate da «poteri forti» della nazione che hanno avvantaggiato il Nord grazie alla sua «maggiore capacità rispetto al Sud di incidere sulle politiche di sviluppo del Paese». Nello studio è stato evidenziato come «da un lato si destinano fondi alla ricerca per il Sud, con quote prefissate, ed alle piccole e medie imprese e dall’altro si opera di fatto in modo che i benefici ricadano sempre sui soliti grandi gruppi del Nord o pubblici». Quando si è passati al sostegno dei redditi delle popolazioni meridionali si è «ridotto il divario Nord-Sud nel livello dei consumi, mentre è aumentato quello nella capacità produttiva: aumentati i redditi sono cresciuti i consumi, ma la produttività è rimasta la metà di quella del Nord, contemporaneamente è aumentato a dismisura il flusso delle importazioni dalle regioni del Nord». Ciò ha significato lo sviluppo del prodotto interno lordo e il raggiungimento di livelli di quasi piena occupazione nelle regioni settentrionali. La riforma federalista dovrebbe quindi avere come obbiettivo, non solo a parole ma anche nell’ambiente culturale di chi la promuove, il miglioramento complessivo del sistema economico del Paese e non l’esclusiva «esigenza di salvaguardare le proprie ricchezze», con strumenti che potrebbero non ottenere i risultati sperati perchè frutto di una visione distorta e pregiudiziale delle politiche di sostegno del Mezzogiorno.   19 Dic. 2008 di Giovanni Nocera

150 ANNI D’OCCUPAZIONE, UNA POLITICA DI SPOLIAZIONE DEL SUD

Leggendo gli scritti di Francesco Saverio Nitti del 1900, in cui fa una lucida analisi della politica colonialista dello Stato italiano nei territori del conquistato Regno delle Due Sicilie si rimane sconcertati. Li si può leggeri come una analisi che descriva le attuali condizioni socio economiche del Meridione e delle politiche economiche dell’attuale Stato italiano. NULLA E’ CAMBIATO, anzi peggiorato se consideriamo i 150 anni trascorsi, che hanno radicalizzato uno stato sociale di miseria, emarginazione, di malavita e sottosviluppo, degno di un dominio anziché di una colonia.

I programmi straordinari per lo sviluppo dell’Italia hanno perseguito sempre la stessa logica di privilegiare le aree settentrionali al Meridione. Il piano Marshall vide giungere in Italia una massa enorme di denaro e di aiuti umanitari, ma solo il 7% di essi giunsero nei territori del Regno delle Due Sicilie, La Cassa per il Mezzogiorno, che tanto è servito ai denigratori del Sud, è servita ad arricchire le imprese settentrionali ed il potere politico centralista, che acquisivano tutte le gare d’appalto per la realizzazione delle infrastrutture al Sud o per impiantarvi industrie, le cattedrali nel deserto, che fallivano subito dopo o non avviavano per nulla la produzione. La Cassa istituita come operazione di sviluppo straordinaria per il Sud ha prodotto opere pari ad 1/3 di quanto è stato realizzato nelle regioni del centro nord con gli stanziamenti ordinari.

Il Sud, il Regno, dopo essere stato spoliato e saccheggiato di tutte le sue ricchezze durante la guerra di conquista dal 1860 in poi, ha dovuto subire il più feroce stupro, trasformare le sue popolazioni in “parco buoi” da sfruttare, come consumatori, come elettori, come mano d’opera a basso costo, come finanziatori diretti della parte nord dell’Italia.

20 milioni di Meridionali, che forniscono oltre il 70% dei militari che hanno e combattono ancora per l’invasore italiano;

20 milioni di Meridionali, che devono acquistare prodotti delle industrie settentrionali ed estere, che  rappresentano l’80% dei beni venduti al Sud.

20 milioni di Meridionali, che devono votare i partiti nazional romani, finanziati e controllati dai grandi poteri finanziari settentrionali, che non hanno alcun interesse per vere politiche di sviluppo al Sud.

20 milioni di Meridionali da cui attingere da sempre manodopera a basso costo e remissiva, che negli ultimi anni si è trasformata in manodopera qualificatissima, impoverendo ulteriormente il Sud di preziose risorse umane.

20 milioni di risparmiatori che depositano i risparmi in banche del nord, che finanziano prestiti e mutui al nord. Tali banche hanno acquisito, quasi gratis, le più importanti banche del Sud, il Banco di Napoli e di Sicilia, un tempo prima della conquista del Regno rappresentavano il più alto esempio di ricchezza e capacità gestionale al mondo.

Le risorse FAS inizialmente stanziate dalla finanziaria 2007 per il periodo di programmazione 2007-2013 ammontavano a 64,4 miliardi, poi drasticamente ridotte fino agli attuali 53,7 miliardi di cui solo 21,8 al Sud, peraltro ancora bloccati, nonostante la Comunità europea abbia posto il vincolo di destinare l'85% dei fondi FAS proprio al Mezzogiorno. Tali risorse che servivano, per recuperare il divario tra le aree ricche e quelle povere della Ue, devono essere spese entro il 2013, e rappresentano per il Sud l’ultimo treno poichè dal 2013 l’Europa ridurrà i finanziamenti, per dedicarsi al sostegno dei nuovi membri dell’Est europeo. Dal 2008 ad oggi il governo italiano ha saccheggiato i fondi FAS a copertura degli oneri di numerose disposizioni legislative. I fondi destinati alle aree sottosviluppate d’Italia, il Meridione, sono stati destinati per finanziare le opere per la realizzazione dell’expo 2015 di Milano, per rinnovare la flotta di traghetti dei maggiori laghi lombardi, per finanziare la crisi del consorzio del parmigiano reggiano, per pagare le multe agli allevatori settentrionali per lo sforamento delle quote latte, per coprire il disavanzo sorto dall’abolizione dell’ICI sulla prima casa, per la ricostruzione dei danni del terremoto in Abruzzo, per ridurre il debito pubblico, per gli ammortizzatori sociali (dei 4 miliardi, 3 vanno alle Regioni del Nord, dove è maggiore la quantità di ore di cassa integrazione in seguito alla recessione), per il G8 (mai realizzato, e che è costato da solo oltre 300 milioni di euro), per il termovalorizzatore di Acerra, per il credito alle piccole imprese, per la riqualificazione energetica degli immobili, per l’emergenza rifiuti di Napoli, per ripianare i buchi di bilancio di Roma e Catania, per veicoli per il soccorso civile, per l’edilizia carceraria, per finanziare il Servizio sanitario nazionale, per l’Alitalia, per l’aeroporto Dal Molin (dove gli americani intendono costruire una nuova base militare), per la privatizzazione delle Tirrenia, per risanare le Ferrovie dello Stato (che contemporaneamente hanno disposto la soppressione di dodici treni a lunga percorrenza dalla Calabria verso Milano e Torino). Persino per gli sconti su benzina e gasolio concessi agli automobilisti di Valle d'Aosta, Piemonte, Lombardia e Trentino Alto Adige.

I FAS sono stati, invece, negati alle regioni meridionali per il ripianamento del disavanzo sanitario, obbligando le amministrazioni regionali ad imporre maggiori carichi fiscali ad una popolazione già provata economicamente e che vive in uno stato di grave miseria.

Poco importa se i dati sulla recessione dimostrano che la crisi colpisce più duramente il Sud del Nord. Anche i fondi regionali vengono intaccati. i tagli del governo alla scuola, hanno costretto le Regioni a intervenire, con una nuova forma di welfare destinato ai docenti, i cosiddetti Contratti di solidarietà. Solo la Campania ha impiegato per i propri docenti disoccupati ben 20 milioni di euro. Pagati con fondi strutturali. Ma che vi fosse un grossa sperequazione nella distribuzione della spesa pubblica tra Nord e Sud è noto da 150 anni, tanto che già nei primi anni di unità lo Stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 per quello del Sud. Si calcola che l’ingiustizia fiscale sia costata al Sud 100 milioni/anno: nel 1901 il Mezzogiorno produceva un reddito pari al 22/23 % di quello complessivo italiano, ma pagava imposte sul reddito pari al 35-37% di tutte le imposte sul reddito percepito in Italia. Successivamente le cose non sono cambiate, così, nel primo decennio del secolo ventesimo, una provincia depressa come quella di Potenza pagava più tasse d’Udine e la provincia di Salerno, ormai lontana dalla floridezza dell'epoca borbonica essendo state chiuse cartiere e manifatture, pagava più tasse della ricca Como. L’iniquo sistema fiscale provocò ovviamente una grossa differenza tra nord e sud. La politica fiscale perseguita dallo Stato unitario fu assolutamente ingiusta perchè non omogenea dal Nord al Sud; il primo venne avvantaggiato, il secondo penalizzato.

Incolpevole SUD, Ingrato NORD, il mondo ringrazia gli italiani. L’Italia ringrazia gli immigrati.

Il Piemonte, che era anche lo Stato più indebitato d’Europa, si salvò dalla bancarotta unificando il “suo” debito pubblico con gli abitanti dei territori conquistati. Furono svenduti, a una casta di privilegiati tutti i beni privati dei Borbone, gli stabilimenti pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese per la “liberazione” e dei lavori pubblici (affidati alle speculazioni delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate proprio alle regioni del sud. Fino allora il sud  aveva un sistema fiscale razionale ed efficiente, tra i migliori d’Europa, con la politica sabauda, fu applicato un aumento di oltre il 32% delle imposte, mentre gli fu attribuito meno del 24 per cento della ricchezza “italiana”. Per le bonifiche delle aree agrarie tra il 1862 e il 1897, si spesero 267 milioni al Nord, 188 milioni nelle regioni centrali e solo 3 milioni al Sud! Queste bestiali scelte politiche favorivano gli espatri, spesso su pressioni dei paesi esteri (hanno svenduto il bene più prezioso), naturalmente stavano ben attenti di non oltrepassare certe quote oltre un certo limite per non correre il rischio di dover aumentare i salari a causa della scarsa offerta di manodopera. Un mezzo per il controllo sociale.

Gli Italiani erano in Belgio minatori, in Svizzera camerieri, in Francia contadini, in Germania facchini ecc…

Un ragazzo su tre non ha mai sentito parlare del fenomeno “emigrazione” esterna e interna che nell’ultimo secolo ha sconvolto l’Italia:

-30 milioni di Italiani hanno lasciato la penisola

-5 milioni sradicati dagli ambienti d’origine verso il nord Italia negli anni del secondo dopoguerra.

2/3 dei giovani non sanno nulla o quasi di emigrazione, neanche la SCUOLA approfondisce, meglio non far sapere la Storia negativa dell’Italia, “i giovani hanno bisogno di esempi positivi e che il resto non conta”.

“chi controlla il passato controlla il futuro”, potremmo dire, allora: OSCURIAMOLO, meglio l’ignoranza.

L’emigrazione iniziata nel 1820, subito dopo le guerre napoleoniche. Nel 1830 in America si contavano 439 italiani l’esodo continuò lento fino alla costituzione del Regno d’Italia, quando per le prime repressioni nel Sud (molti “briganti” fuggirono in Egitto facendo decollare il Paese), le sterili (e punitive) politiche d’intervento adottate dallo statuto “Piemontese” (come in Veneto, abbandonato a se stesso) il movimento migratorio dal 1880 fu di circa 100.000 unità l’anno (principalmente proprio dal Nord-Est – l’80%), andò crescendo in proporzioni impressionanti sul resto d’Italia, nel 1913 in 12 mesi emigrarono 872.598 individui. (Tra il 1906-1910 furono complessivamente 3.256.000, e nel periodo 1911-1915 ne partirono altri 2.743.000).

I piemontesi insediatisi al potere si resero protagonisti di: ruberie , assassinii (pulizia etnica), fucilazioni, debiti nei Comuni, nelle Province. Distrussero in poco tempo l’economia del Meridione. Fecero sparire tutto: i macchinari delle fabbriche, i beni religiosi, i beni demaniali, libri antichi e persino le rotaie dei binari ferroviari. Uomini e donne perseguitati abbandonavano città e paesi, accrescendo la ricchezza di popoli stranieri, costruendo dighe, porti, gallerie, grattacieli, palazzi, musei, ferrovie, o trasformando i deserti in terreni fertili. Dopo la I guerra nel 1920 emigrarono 614.611 italiani, e dal 1921 al 1930 il totale fu di 2.577.000. Una intera regione. Nel 1927 gli Italiani all’estero erano già 9.163.367, America; Europa; 188.702; Africa; Australia; Argentina; Brasile; Asia.Una ricchezza per questi paesi, un impoverimento per l’Italia. L’emigrazione riprende Dopo la seconda guerra mondiale. Dal 1946 fino al 1971, ripresa a pieno ritmo in 25 anni 5.737.000. Si calcola che nel corso del secolo il totale dei partiti furono circa 29.000.000, e solo 10.275.000 fecero ritorno in patria. Dopo la II guerra l’industrializzazione di una sola zona del Paese (il triangolo Nord-Ovest) provocarono migrazioni interne, sconvolgendo le regioni italiane. In negativo da dove partivano, ma neppure positivo dove arrivavano (urbanizzazione selvaggia e il non decentramento delle industrie).

Passato il “miracolo economico” nel Nord, i 5 milioni meridionali lasciando i loro paesi si sottraggono dalle risorse umane dei territori non solo di manovalanza ma anche professionali.                                                                                                                                                                                      

Nel 1862 - L'abolizione delle tariffe protezionistiche provoca il crollo dell'economia del Regno di Napoli a favore del Nord. Chiudono gli opifici  tessili, l'arsenale di Castellammare, le cartiere, le ferriere, ecc. Le commesse dei lavori pubblici nel Sud vengono affidate a ditte del Nord   pagate con i soldi dei "napoletani"   ridotti in miseria.

6 giugno 1861. Il giornale "Union" di Parigi scrive: "Si sono tolti al palazzo reale di Napoli, specchi, porcellane dell'antica fabbrica di Portici... e perfino delle batterie da cucina. Ma ciò che più è strano, si sono tolti ai due ospedali militari della  Trinità e del Santo  Sagramento due enormi mortai di bronzo cesellati, opera a quanto pretendesi  di Benvenuto Cellini.... Essi sono stati imbarcati per Torino. Infine si è tentato di rubare notte tempo la celebre porta di bronzo cisellata che fa il principale ornamento dell'Arco  di  Trionfo d'Alfonso d'Aragona nel Castel Nuovo... Il governo per non sollevare il popolo dichiarò che  l'avea fatta smontare per ripararla". (G. De Sivo - La Tragicommedia del 19.06.1861 - )

10 agosto 1863 - Gli operai della fabbrica di Pietrarsa scioperano contro i licenziamenti e l'innalzamento dell'orario di lavoro da 10 a 11 ore. I Bersaglieri sparano ed uccidono molti operai. 

Nel gennaio 1864 - La fabbrica di Pietrarsa, che dava lavoro a circa 7.000 operai, viene chiusa   e le macchine vengono mandate a Genova per rimodernare l'Ansaldo. (L'azienda Ansaldo nacque per interessamento del conte di Cavour, fermamente intenzionato a salvare le moderne strutture della Taylor & Prandi, sfortunata azienda meccanica fondata nel 1846 per la costruzione di piroscafi in ferro che, a causa di sopravvenute difficoltà finanziarie, aveva chiesto l'intervento dello Stato. Nel 1852, il ministro Cavour riuscì a coalizzare una solida compagine imprenditoriale, composta dal banchiere Carlo Bombrini, dall'armatore Raffaele Rubattino e dal finanziere Giacomo Filippo Penco, alla quale impose, promettendo commesse statali, la direzione del giovane e brillante ingegnere meccanico Giovanni Ansaldo, scelto tra i docenti dell'ateneo torinese.  Le intenzioni di Cavour erano di dare vita ad una industria piemontese per la produzione di locomotive a vapore e materiale ferroviario, in modo da eliminare le costose importazioni dei macchinari dall'Inghilterra e dal regno delle due Sicilie. - Ansaldo Wikipedia).

In 10 anni d'occupazione sono emigrati circa 40.000 abitanti del Sud, circa 123.000  partigiani , "briganti",  sono stati fucilati,  più di 43.000 "borbonici"  deportati nelle carceri del Piemonte. 

Carlo Bombrini (Genova, 3 ottobre 1804 – Roma, 15 marzo 1882) è stato un banchiere e imprenditore italiano. Senatore del Regno d'Italia fu amico in gioventù di Giuseppe Mazzini. Fu Direttore Generale della Banca di Genova dal 1845 al 1849, Direttore Generale della Banca Nazionale degli Stati Sardi dalla sua fondazione, 1849, al 1861 ed infine Governatore della Banca Nazionale del Regno d'Italia dal 1861 al 1882.Contribuì all'unità d'Italia finanziando le prime guerre d'indipendenza. Fu amico di Camillo Benso Cavour, del quale condivideva le aspirazioni per una modernizzazione del sistema industriale italiano. È stato tra i fondatori della società industriale Ansaldo. Fu tra i promotori dello smantellamento delle grandi industrie del meridione d'Italia, prima fra tutte quella di Pietrarsa, presentando il piano economico-finanziario che avrebbe alienato tutti i beni del Regno delle Due Sicilie. Famosa la sua frase «Non dovranno mai essere più in grado di intraprendere» riferita ai meridionali. Il suo piano ebbe gli effetti sperati e la sua Ansaldo beneficiò della neutralizzazione di Pietrarsa che non ebbe più commesse, dirottate a Genova.

NEL REGNO DELLA MAFIA

Napoleone Colajanni deputato 1900

“PER COMBATTERE E DISTRURRE IL REGNO DELLA MAFIA È NECESSARIO, È INDISPENSABILE CHE IL GOVERNO ITALIANO CESSI DI ESSERE

IL RE DELLA MAFIA

Napoleone Colajanni, ex garibaldino siciliano e deputato parlamentare scriveva nel suo testo “Nel Regno della Mafia” del 1900.

“Dal processo (Notarbartolo) contro due ferrovieri, che man mano si trasforma in un processo contro una forza poderosa e misteriosa, risulta che c’è una grande accusata: la magistratura!”

“… la voce mafia non si trovi registrata nella prima edizione (1838) del Dizionario siciliano – italiano del Mortillaro giudica che la parola e la cosa siano di data recente; e con compiacenza rileva che nella 3^ edizione (1876) a p. 648 venga registrata della parola mafia la seguente spiegazione: Voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra. Il Bennici alla sua volta fa derivare camorrista dai Gamos che furono i grandi proprietari di terra nell’antica Siracusa”.

La Mafia, in fine, rese i più grandi servizi alla causa della rivoluzione contro i Borboni; e in questo addentellato politico sta una delle cause del rispetto e della devozione della medesima verso l’aristocrazia, che in massa era avversa ai Borboni, come notò Alessandro Tasca. I più noti mafiosi furono di più valorosi combattenti nelle cosidette squadre nel 1848; gli stessi Mafiosi si batterono prodemente nel 1860 tra i picciotti di Garibaldi alle porte di Palermo e dentro Palermo. Quando trionfa la leggendaria spedizione dei Mille di Marsala, nel momento in cui una nuova vita doveva cominciare per la Sicilia, la mafia, specialmente nella provincia di Palermo, si trovò circondata dall’aureola del patriottismo e col battesimo del sangue versato in difesa della libertà.

“Sotto l’aspetto amministrativo la mezza libertà dei cittadini e la mezza autonomia degli enti locali sotto i Sabaudi segnarono un vero peggioramento sulle precedenti condizioni sotto i Borboni. Municipi e provincie servirono a gravare enormemente le imposte, a ripartirle per fini individuali, senza unità collettiva, a scopo di nepotismo e di favoritismo, per preparare candidature politiche”.

Colajanni scrive che Alongi, funzionario di P.S. nel 1893 afferma: “Il 90% dei Comuni in Sicilia era amministrato con criteri e forme tali che fanno desiderare il tipo dell’antico governo paterno perché allora si aveva il diritto d’inchiodare sulla gogna i tirannelli locali, il conforto e la speranza di un avvenire migliore e, di tanto in tanto l’intervento violento, ma pure sempre riparatore, del governo centrale”.

(continua)

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