14 FEBBRAIO 1861 GAETA L’ULTIMO GIORNO DELL’INDIPENDENZA DEL SUD ITALIA Settembre 1860: il re Francesco II di Borbone, costretto dall'incalzare degli eventi a lasciare Napoli, si ritirò a Capua stabilendo nella Piazzaforte di Gaeta la base delle operazioni militari. Perduta anche Capua, il re, la corte ed il corpo diplomatico accreditato presso il governo borbonico, si rifugiarono a Gaeta. L'esercito borbonico aveva perduto ogni efficienza bellica. Battuto più dal tradimento che dal nemico, incalzato dalle truppe piemontesi del generale Enrico Cialdini, si apprestava a difendere la fortezza più per salvare l'onore delle armi che per vincere. Le operazioni d'assedio iniziarono sul fronte di terra il 5 novembre 1860. Il 12 novembre 1860 ci furono altri combattimenti nei pressi di Gaeta dove poi Francesco II, con gli ultimi 20mila uomini, fu stretto d’assedio dal 12 novembre 1860 al 13 febbraio 1861, per opera del generale Cialdini (per la storiografia ufficiale il quinto “Padre della Patria”, per altri un criminale di guerra) che aveva con sé circa 18 mila uomini. Il corpo d'assedio era forte di 18.000 uomini con 1.600 cavalli e 180 cannoni moderni. In media venivano sparate contro la piazzaforte 500 colpi di cannone al giorno. Il 22 gennaio 1861, i napoletani decisero di riaprire il fuoco. Alle 8 del mattino un colpo della batteria Regina dette il segnale: fu una giornata memorabile. La flotta piemontese dovette allontanarsi per i danni che i colpi della piazza le avevano inferto: oltre 10.000 colpi furono sparati dai napoletani, a dimostrazione che non si sarebbero arresi. Il nemico ne sparò oltre 18.000, ma il morale napoletano rimase alle stelle. Ad ogni colpo echeggiava il grido VIVA IL RE, e le bande militari intonavano l’inno di Paisiello. Ormai i piemontesi tiravano soltanto da molto lontano, e non prendevano mai l’iniziativa di assaltare la piazza: “li prenderemo per fame” scrisse Cialdini a Cavour, naturalmente in perfetto francese lingua ufficiale in Piemonte. Quando iniziarono le trattative Cialdini non volle interrompere i bombardamenti, anzi li rinnovò con maggiore accanimento perché “sotto il tiro dei cannoni cederanno a condizioni più vantaggiose per noi”, scriveva ancora il generale a Cavour. Con l’impiego dei modernissimi cannoni rigati francesi Cialdini, divenuto generale piemontese, poté dalla sua comoda poltrona sul terrazzo della modesta villa privata comprata da Ferdinando II a Mola, far bombardare senza essere colpito la piazza ed i suoi abitanti. Fu così che a capitolazione già firmata venne centrata la polveriera della batteria Transilvania, dove morì l’ultimo difensore di Gaeta. Un ragazzo di sedici anni, Carlo Giordano, fuggito dalla Nunziatella per difendere la sua Patria. Egli non ha degna sepoltura, come non la hanno i tremila altri caduti di Gaeta. Dal 12 novembre 1860 al 13 febbraio 1861 diecimila napoletani (lucani, pugliesi, calabresi, abruzzesi, siciliani, campani) decimati dalle fatiche, dai bombardamenti e dal tifo resistettero, senza mai piegarsi, ad un assedio condotto da Enrico Cialdini, considerato eroe risorgimentale. Il 14 febbraio il re Francesco II di Borbone, con la regina Maria Sofia, partiva da Gaeta imbarcandosi sulla corvetta francese Mouette, fatta venire appositamente da Napoli. Il monarca, salutato con la salva reale di 21 colpi della Batteria Santa Maria e con il triplice ammainarsi della bandiera borbonica di Punta Stendardo, prendeva "la dolorosa via dell'esilio da quella terra che l'aveva visto nascere". La partenza del Re quel giorno del 14 febbraio fu la prima di una serie di milioni di partenze di meridionali alla ricerca della dignità e di un futuro non di fame nera. “Non vi resteranno nemmeno gli occhi per piangere” profetizzò ai suoi popoli Francesco II lasciando Napoli. I militari borbonici e parte dei civili furono deportati nei lager dei Savoia costruiti appositamente in Piemonte e Lombardia, ad essi nei successivi anni seguirono altri 40.000 deportati, di questi, che mai vollero giurare fedeltà ai Savoia, sopravvissero in pochi. Celebre il lager di sterminio di Finestrelle a duemila metri d’altezza in Val Chisone. PER NON DIMENTICARE AFFINCHE’ IL LORO SACRIFICIO NON SIA VANO |
INV.34/Bracci 30 luglio 1861 Pattugliando da 6 ore con un forte caldo arrivammo nei campi di Casalduni e qui scorgendo un cafone nella campagna decisi di far riposo sfruttando quel momento. Afferratolo per il collo gli intimai di dirci chi nel suo paese fosse contrario alla nuova Italia. Guardando fisso nel basso non pronunciava alcunché bensì ansimava. Ed allora gli ordinai di urlare viva Vittorio Emanuele. Ma niente. Poi afferrata la pala gli ordinai di scavarsene la fossa e questi quasi a compiacersene si diede a farlo di gran lena. Finito il lavoro il sergente Bertacchi ridendo di cuore lo fece entrare nello sterrato ed il disgraziato eseguì e prese a pregare come se stesse per finire di li a qualche momento la sua esistenza. Poi fu ricoperto con la terra fino al mento e con sassi e massi intorno e sopra la testa. Solo in quel momento, con poca voce ripeteva quanto prima gli era stato comandato. Allora il sergente gli disse di essere libero e di andarsene ma con le sue forze. Fu un gran ridere per tutti ed il cafone starà ancora là ad invocare il nostro amatissimo sovrano ed a cercare di uscire dalla sua tomba. INV.45/BRACCI 24 luglio 1861 Mancando il necessario per causa dei ribelli fui incaricato di far del mio meglio al recupero di che mettere nelle caldare. Preso il carro mossi in direzione di Pondelandolfo dove giorni prima ne avevo scorto masserie e depositi appena fuori dalle mura. Circondata una casa ci avvicinammo cauti. Improvvisamente dal piano sovrastante ne apparve un giovinetto che imbracciando un fucile incominciò a far fuoco senza riparasene. Colpiti due bersaglieri ed ucciso il cavallo del traino, rispondemmo al fuoco. Entrammo nella masseria dove trovammo tracce di uomini ormai lontani protetti da volti di donne muti e senza sentimenti. Si prese ogni cosa potesse servir alla truppa ed ai briganti. Poi lasciammo al fuoco il resto mentre le donne cercavan di ricoprirsi dalla violenza della truppa. Rientrando scorgemmo sul monte a ridosso della strada le sagome dei briganti che da lontano avevano assistito alle sorti dei loro rifugi. Cap. Bracci 101/Mel/Fucilazione All'ora stabilita la 4" compagnia, comandata dal cap. Cartacci, si trovava schierata nella piazza di Arienzo, a forma di quadrato con un lato aperto ove colla fronte rivolta al muro doveva prender posto il brigante. Molta gente assisteva silenziosa alla tragica funzione; comparve il condannato tra quattro bersaglieri ed un caporale, che dopo avergli bendato gli occhi fece retrocedere di pochi passi i quattro bersaglieri. Sentita la propria fine vicina il brigante prese a maledire la truppa, il Governo ed a invocare la giustizia divina, pregando la Madonna ed i suoi Santi fino a che la scarica dei moschetti interruppe la commedia. Cadde boccone lo sciagurato, e fra gli astanti si udì un rumore crescente, tale che il caporale ordinò la ricarica dei moschetti ed il puntamento verso la folla dei più accesi. Il prete principiando un canto sacro distolse la tensione allontanando la possibilità di uno scontro con la popolazione. Tali esecuzioni se da fare in pubblico occorre essere scortate dall'intera Compagnia per allontanare i pericoli della rivolta dei cafoni. Cap. Paselli A Capo d’ Orlando (Messina) il sindaco Enzo Sindoni ha “preso a martellate” la targa della piazza intitolata a Garibaldi, maledicendo l’”eroe dei due mondi” come “feroce assassino al servizio della massoneria e dei servizi inglesi”. Al suo posto ha collocato un’ altra targa intitolata “Piazza IV Luglio” in ricordo di una battaglia navale svoltasi nel mare antistante nel 1299. A Sciacca (Agrigento) il sindaco Mario Turturici ha rimosso la targa di “Piazza Garibaldi” e l’ha sostituita con la “Piazza Ferdinando II, Re delle Due Sicilie”.Il comune di Gaeta (Libero del 25/10/08) ha intenzione di chiedere un risarcimento di 260 milioni di Euro alla famiglia Savoia per i danni causati alla città dai piemontesi invasori centocinquant’ anni fa. Gli atti coraggiosi di questi Amministratori stanno a indicare che, grazie ai numerosi documenti venuti alla luce, è iniziata una presa di coscienza della vera storia del Risorgimento relativa al Sud. Verità storica che solo in minima parte rende giustizia e onore a tutte le popolazioni meridionali: esse, finalmente, possono rendersi conto dei reali motivi che hanno dato origine alla Questione Meridionale; motivi che hanno determinato anche situazioni per le quali ogni anno il nostro Paese è attanagliato da mille problemi che non hanno mai fine. Ogni periodo storico è sempre la conseguenza di quello che lo ha preceduto e questa nostra Italia è figlia di un’Italia fatta in un modo così violento e ingiusto che peggiore non poteva essere. Ci si augura che le lodevoli iniziative dei Sindaci di Capo d’Orlando, Sciacca e Gaeta possano essere seguite da altri sindaci coraggiosi. Via Vittorio Emanuele e monumenti, Piazza Cavour , Via Lombroso, Via Cialdini, Via Crispi, Via La Marmora, Corso Garibaldi e monumenti, Via Bixio, Via La Masa, Via Menabrea, ecc.ecc. che senso hanno specialmente nelle città e nei paesi del Sud? |
PROCLAMA DEL COMANDANTE IN CAPO ALL'ARMI! ALL'ARMI! ALL'ARMI! di Antonio Ciano - "I SAVOIA E IL MASSACRO DEL SUD" - Grandmelò, ROMA, 1996 […] Il piemontese nemico del nostro Re, della nostra Monarchia, delle nostre leggi, nemico del patrizio, del borghese, del contadino, nemico di tutti gli ordini militari civili e religiosi; il piemontese che arde città, scanna i fedeli a Dio ed al loro sovrano, fa macello di sacerdoti, svelle dalle loro chiese i vescovi, e per sospetti caccia nelle carceri, negli ergastoli e negli esilii quanti non vede piegar la fronte all'idolo d'ingorda e bugiarda rivoluzione, il piemontese che copre con l'orgoglio la sua nudità, e che si gloria di non sentir pietà nello sgozzar vecchi, vergini, pargoletti, nè ritrosia nel dar di piglio nella roba altrui o pubblica o privata; il piemontese che profana le nostre donne ed i nostri templi, ubriaco di libidine, fabbro di menzogna e d'inganni, schernitore di vittime da lui tradite: il piemontese fugge dinanzi allo scoppio dei nostri moschetti rugginosi; e nelle città dov'egli avea fondate le case di prostituzione ed il servaggio, ormai sventola il vessillo della libertà e della indipendenza del Regno al grido di viva Francesco II. La bandiera del sovrano è già inalberata in Sora. Popoli degli Abruzzi, delle Puglie, delle Calabrie, dei Principati, all'armi! Sopra i gioghi degli Appennini, ciascun macigno è fortezza, ciascun albero è baluardo. Ivi il nemico non potrà ferire alla lontana coi proiettili dei cannoni rigati, né con l'unghie dei cavalli. Combattendo uomo con uomo, egli che non ha fede in Dio e in Gesù Cristo, ne può avere carità de' fratelli, dovrà soccombere al fremito del nostro coraggio, alla forza dei petti devoti alla morte per una causa che merita il sacrificio della vita. All'armi! Le falci, le ronche, i massi valgono nelle nostre mani più che le baionette e le spade. Un milione di anime oppresse si confortano con un grido alla pugna; sessantamila dei nostri stendono le braccia dalle carceri verso di noi; le ombre di diecimila ci dicono vendicateci. Corriamo dai boschi alle città, dalle province a Napoli. L'arcangelo San Michele ci coprirà col suo scudo, la Vergine Immacolata col suo manto, e faranno vittoriosa la bandiera che appenderemo in voto nel tempio. Il piemontese che ci deride, svilisce, conculca, tiranneggia, spoglia, e uccide con l'ipocrita maschera della libertà, ritorni nei suoi confini tra il Po e le Alpi. Ritorni a noi quel Sovrano che Iddio ci ha dato, e lo fe' generare nelle viscere di una madre santa, e crescere in virtù candido come il giglio, che adorna il borbonico stemma. Francesco II e Sofia, ed i Reali principi c'insegnarono come si debba star saldi ed intrepidi nella battaglia. Vinceremo. I potenti dell'Europa compiranno l'opera nostra rimenando la pace all'Italia; ed il nostro regno all'ombra della religione cattolica e del papato, si riabbellirà di quella gloriosa borbonica dinastica che ci sottrasse ai duri ceppi dei piccoli tiranni, e ci diede ricchezza e franchigia vera, e la indipendenza dallo straniero. All'armi! Il Comandante in capo CHIAVONE Luigi Riccardi Ajutante |
Brigantaggio a Vieste La legge Pica diede i suoi effetti e quando arrivò a Vico del Gargano il generale Pinelli con numerosi soldati, gli arresti furono a centinaia, parecchi fucilati, e furono scovati ed uccisi a tradimento i due briganti vichesi Vincenzo Scirpoli e Piero Iacovangelo, che aveva ucciso un soldato dietro una macchia. E’ memoria che il cadavere di quest’ultimo, portato in Vico, fu appeso ad una grosso albero nel largo San Domenico, obbligandosi la madre di lui a sedersi ed a mangiare sotto quell’albero da cui pendeva il figlio. |
BRIGANTI E BRIGANTESSE SUL GARGANO (1861-1865) Le polemiche sul brigantaggio sono tante. Ma che dire della partecipazione delle donne? Ricordiamo alcuni nomi: Nardella, Recchiemuzze, Patetta, Palumbo, Marianna Semeraro, Giovanna Biscotti, Lucia Taronna, Donna Carmela, Angela Greco, Rosa Martinelli, Leonida Azzarone, Mattia Prencipe, Anna Di Bari, Leonarda Armillotta, Filomena Pennacchio, Giovanna Di Maggio, Anna Maria Berardi, Anna Maria Guerrieri, Mafrolla, Medina e Vescera. A Volte le donne erano drude dei briganti, tal’altra anche brigantesse. Spesso erano seviziate (quando vengono catturate dai soldati piemontesi), rapate a zero, e persino i peli delle parti pudende venivano tagliati. Dopo, legate agli alberi, erano esposte al pubblico. A Trepuzzi, dodici braccianti donne furono violentate davanti alla madre e poi esposte. Angela Greco fu violentata davanti al marito. |
La Civiltà cattolica - 1863 il sig. Keller ritrasse al vivo le condizioni in cui fu gettata l'Italia, caduta sotto il giogo della rivoluzione; […] E dopo avvenne questo fatto, che affermo senza timore d'essere smentito, ed è che il numero sempre crescente dei prigionieri politici e delle vittime sorpassò d'assai il numero degli elettori. Lascio da parte gli esigliati ed i morti combattendo. Più di 20.000 Siciliani furono gettati in carcere, condannati alla galera, alla prigionia, o confinati nelle isole. Riguardo alle stragi, la commissione del brigantaggio ha verificato, che per 4, o 500 miseri briganti, cui si dà la caccia, ne furono fucilali 7000. Chiedo che i piemontesi ritirino i loro 90.000 soldati, e che lascino le popolazioni esprimere liberamente il loro pensiero. Riguardo ai modi di questa sovranità militare, lascerò parlare gli stessi militari. Il gen. della Rocca afferma che di molti prigionieri non si conoscono i motivi del loro arresto; che molti invece furono vittime dei briganti medesimi. In qual modo sono trattati i prigionieri? Udite un testimonio: «Non vidi mai nulla di simile! In una sola carcere ho visto 1300 prigionieri seminudi, rosi dai vermini, decimati dalla fame prima e poscia dal tifo!» Il testimonio aggiunge: «Appartengo al partito dell'unità italiana; ma non posso ammettere che nel 1863, sotto l'eroe Vittorio Emmanuele, accadano tali cose nella libera Italia.» È facile argomentare da questi fatti lo stato presente del paese. Cronaca della guerra d'Italia 1861-1862 NAPOLITANI, Mirate i campi saccheggiati, le città distrutte, i vostri fratelli scannati. Soffrirete ancor pazientemente tante stragi e rovine? Patirete voi più lungo tempo lo scherno e l’insulto? Dimenticate forse che nelle vostre vene scorre il sangue più generoso d’Italia? All’armi dunque all’armi! Si scuota il gioco del Piemonte che ci opprime e si rivendichi la nostra indipendenza. Fra oppressi ed oppressori non può esser dubbia la sorte, la nostra causa è giusta e santa, è causa di Dio, nè permetterà egli più a lungo il trionfo della tirannide piemontese. CALABRESI, La vostra patria è oppressa dallo straniero. Il vostro magnanimo Re, figlio della Santa, la sua giovine ed eroica Consorte, e tutta la stirpe di Carlo III, di quel Re, che vi riscattò dal servaggio straniero, richiamando a vita la vetusta Monarchia delle Due Sicilie, tutti gI'intrepidi Principi di Gaeta gemono nella terra dell'esilio deplorando lo strazio che di voi fa lo straniero. Insorgete dunque fieri e generosi figli delle Calabrie. Tutto può il vostro coraggio contro coloro che hanno manomesso la patria, conculcata la Religione, violate le vostre donne, saccheggiate le vostre proprietà, e che col ferrro e col fuoco vorrebbero consolidare la loro abborrita dominazione. All'armi Calabresi! La protesta di Michelangelo Cammineci - Colpo d’occhio su le condizioni del Reame delle Due Sicilie Cresce intanto la smania di arrestare con veemenza, definita dalla stampa di ogni colore la legge del terrore nelle provincie di Napoli. - Il Calabrese, giornale di Cosenza dei 23 ottobre, riferisce: «ne' giorni scorsi abbiamo veduto condurre in queste centrali moltissime famiglie, e corrispondenti di briganti, buon per essi che Fumel non li abbia tutti fucilati!». In varii luoghi si son veduti sagrificii umani di trenta a quaranta prigionieri, e pare che la soldatesca, e le salariate guardie mobilizzate abbiano versato sangue, pel solo piacere di vederne scorrere e bruciate case, raccolte di cereali, provvisioni, industrie armentizie, ed ogni avere degli abitanti pel solo diletto di ammiserirli. La raccolta delle circolari, e de’ bandi di costoro, uniti a quelli de’ Pinelli, de’ Galateri, de’ Virgilii, e de’ Gialdini, formerà ne' tempi avvenire «il Codice delle leggi del terrore nelle due Sicilie sotto il dominio piemontese», - ed allora sarà altresì difficilmente creduto, che non ostante codesti editti sanguinarii, vi sia stata la voce di un deputato napoletano, nel parlamento di Torino, che cosi abbia gridato.... «La legalità ci uccide! Io voglio un assoluto governo militare; io voglio misure eccezionali, acciò si reprima, quel brigantaggio, che da 18 mesi non si è potuto ancora domare» (tornata de’ 9 aprile 1862, mozione del deputato Petruccelli-Gattina). Si mena tanto rumore de' Drusi, che assassinarono i Maroniti; e voi, o liberali, da' sentimenti si pieni di umanità, non avete una parola pe' generosi abitanti del regno dì Napoli trucidati dal ferro dei carnefici piemontesi! Tante città messe a ferro e fuoco; tutti i prigionieri barbaramente uccisi; in Napoli e nel regno 25 mila persone rinchiuse nelle prigioni senza condanna e senza forma veruna di processo; la libertà individuale surrogata dal governo del ferro, la libertà civile dalla dittatura..... chiamasi questo, o miei signori, uno stato di cose che meriti la nostra approvazione?» Un più grave giudizio di censura politica si esprime su lo stesso proposito nel senato belga nella tornata de’ 2 maggio: vari senatori parlano contro il riconoscimento del nuovo regno d'Italia; ma il discorso più meritevole di attenzione è quello del senatore conte di Robìano: - «Le annessioni (egli dice) sono fatte in Italia per la corruzione degli uni, e la vigliaccheria degli altri. Garibaldi entrò in Napoli: era egli con napoletani? Niente affatto: egli entrò a Napoli con individui appartenenti a tutte le nazioni, e che io mi asterrò dal qualificare. Che fece allora il re di Napoli? Volendo risparmiare gravi disastri alla sua capitale, si ritirò in Gaeta, d'onde combatté i garibaldini, e gl'inglesi, che andavano a fare il colpo dì fucile con armi perfezionate, e ritornavano quindi a pranzare, vantandosi del numero de’ napoletani che avevano ucciso. - I napolitani si sono forse rivoltati contro il loro re? Niente affatto. Essi invece hanno dato di loro re un appoggio cosi efficace che fu per un momento sul punto di riportare la vittoria, poiché i garibaldini, senza il soccorso de’ piemontesi erano battuti» - E qui l'oratore afferma che il plebiscito, o suffragio universale, non si effettuò, che in un modo illusorio, avendo avuto luogo alla presenza di soldati, che con la spada impugnata minacciavano coloro che avessero votato pel no ed applaudivano a quelli che avessero votato pel sì. - Indi soggiunge: - Gl'insorti napoletani sono chiamati briganti: ma dopo il 1830 ancor noi eravamo briganti: l'onorevole ministro degli affari esteri era un brigante: quelli che combattevano nella Vandea contro la Convenzione del terrore erano pure briganti. Voi vedete che i briganti di Napoli si trovano in assai buona compagnia. - Veramente i filantropi inglesi trovavano al tempo de’ Borboni, che i prigionieri politici non erano ben trattati: essi s'informavano de' minimi particolari, andavano finanche a gustare la loro minestra per vedere, se fosse ben condita. - Oggidì non si tratta più di tutte queste prevenzioni; si fucilano le persone, ed a quel che pare almeno, si fa bene, perché i morti non alzano più alcun reclamo; né per essi si alza reclamo da altri; si fucilano partigiani, e sedicenti partigiani, quelli che danno loro da mangiare quelli che sono sospetti di darne loro, donne, vecchi, fanciulli, e dopo ciò s'incendiano i paesi. - Vorrei sapere se i miei avversarii in questa camera approvino codesti atti; per me io li trovo tutt'al più degni degl'irochesi e de' cannibali … LAGER ITALO PIEMONTESI e SOLDATI MERIDIONALI «Italia, o meglio negli stati sardi, esiste proprio la tratta dei Napoletani. Si arrestano da Cialdini soldati napoletani in gran quantità, si stipano ne' bastimenti peggio che non si farebbe degli animali e poi si mandano a Genova. Trovandomi testé in quella città ho dovuto assistere ad uno di que' spettacoli che lacerano l'anima. Ho visto giungere bastimenti di quegli infelici, laceri, affamati, piangenti: e sbarcati vennero distesi sulla pubblica via come cosa da mercato. Spettacolo doloroso che si rinnova ogni giorno in Via Assarotti dove vi è un deposito di questi sventurati. Alcune centinaia ne furono mandati e chiusi nelle carceri di Fenestrelle: un ottomila di questi antichi soldati Napoletani vennero concentrati nel campo di San Maurizio". Nel giornale «L'Armonia» del 3-9-1861 è scritto: "A Rimini il mal umore dei soldati giunge fino alla disperazione di darsi la morte. Parecchi si sono annegati nel mare volontariamente. Sicché dovettero le autorità porre delle guardie in piccole barchette per impedire simili eccessi". Altri episodi sono descritti nella stampa dell'epoca e riportati nel libro di Fulvio Izzo: “Sabato erano tradotti nella cittadella di Alessandria una quantità di soldati napoletani stretti a due a due da una lunga catena, perché rei di essersi ammutinati e di aspirazioni al loro sovrano". Quando e se venivano catturati questi ultimi erano esposti al ludibrio della folla nei vari centri emiliani, lombardi, liguri o piemontesi e le angherie allora erano molte e ben documentate. Nelle Romagne il passaggio di ex prigionieri napoletani disertori dall'esercito italiano, oppure componenti l'esercito pontificio, determinava grande turbamento, per disprezzo per i primi e per l'odio colà esistente per le divise dei secondi. I tentativi di linciaggio erano frequenti. Roberto Sgarzi NEL LAGER di STERMINIO di FENESTRELLE Posto a duemila metri d’altezza in Val Chisone, dal 1999 assurdo simbolo della Provincia di Torino, vi trovarono la morte 10.000 soldati borbonici sciolti nelle vasche di calce viva. Ufficiali, sottufficiali e soldati, dichiaratisi apertamente fedeli a Francesco II, giurarono aperta resistenza ai piemontesi e subirono il trattamento più feroce, costretti con palle al piede da 16 chili, ceppi e catene. Altrettanto duro era il campo impiantato nelle "lande di San Martino" a 25 km da Torino, nel settembre del 1861 deteneva 3.000 soldati delle Due Sicilie, nel mese successivo divennero 12.447. Altri lager furono: San Maurizio Canadese, Alessandria, Forte di Priamar (Savona), forte di S. Benigno (Genova), Milano, Bergamo, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altri nel Nord. TUTTI i soldati detenuti non vollero tradire il giuramento fatto alla loro bandiera e al loro Re ed altre migliaia di "liberati meridionali" furono confinati nelle isole, a Gorgonia, Capraia, Giglio, all'Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Un calcolo preciso dei deportati e vittime è impossibile, già ad otto mesi dall’aver proclamato l’Unità d’Italia, il 19 novembre 1861 il generale Manfredo Fanti inviò un dispaccio a Cavour per far noleggiare all'estero dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra, che ammassati in via Assarotti proseguivano poi a piedi per i lager del nord. Il deputato Ricciardi nella seduta parlamentare del 27 giugno 1862 affermò che nel 1861 nell'Italia meridionale (ab. 10 mil.) furono incarcerate 48.000 persone e 15.665 fucilate, oggi in Italia con 61 milioni di abitanti vi sono 63.000 detenuti. Nel 1873 l’Italia ricercava per il mondo (Patagonia, Australia, deserto eritreo, tunisino) un lembo di terra per impiantare un lager di sterminio per 20.000 borbonici, poiché le carceri napolitane ne ospitavano già 80.000 e nel 1872 in quelle della sola città di Napoli vi erano 11.635 internati. La recrudescenza della resistenza all’invasore nel Meridione fu tale che 11 settembre 1872 fu impartito il lapidario ordine ai militari italiani nel Sud: “Atterrite queste popolazioni”. Le cifre descrivono una vera diaspora biblica da pulizia etnica. Di questi soldati d'età prevalente dai 21 ai 26 anni, pochi sopravvissero, non resta una memoria, una lapide, una tomba, un monumento, l’Italia carnefice di allora e quella complice di oggi hanno cancellato il loro eroico sacrificio e la fedeltà alla Patria, quella vera. Oggi si scrive: “solo fra altri 150 anni le due parti (Italia e Meridionali) potranno leggere insieme con serenità le crudeltà commesse”. I PLEBISCITI e i FRATELLI d’ITALIA I plebisciti d’annessione furono internazionalmente bollati per falsi per l’esclusiva partecipazione di impropri votanti come gli invasori bersaglieri, carabinieri e garibaldini, mentre i cittadini residenti furono pochissimi, meno del 2% ed organizzati dalla malavita locale. L’Unità fu solo un progetto massonico e non delle popolazioni, lo dimostrano le rivolte in Romagna, contemporanee alla guerra nel Meridione e l’insurrezione di Palermo e provincia del 1866, che i Savoia bombardarono per sette giorni causando 4.000 morti. La prova della storica anti-italianità delle popolazioni meridionali si ha con il taciuto episodio dopo il quale iniziò la disfatta di Caporetto e che ebbe protagonista il battaglione Salerno. A quarant’anni dai più significativi episodi di feroce repressione italiana contro i Meridionali gli uomini del Sud furono costretti a combattere nella Grande Guerra per il loro storico nemico italiano. I 2000 soldati del battaglione Salerno, posti nelle retrovie, alla vista del tenete Rommel e dei suoi 400 soldati gli corsero incontro e portandolo in trionfo gridarono “viva Rommel, viva l’Austria”. L’episodio è emblematico per stabilire quanto fosse sentita la patriottica Unità d’Italia dai Meridionali nella Grande Guerra voluta dalle industrie belliche del nord e quanto fosse amato il tricolore. Tutta falsa la retorica storiografia risorgimentale, il povero fante o era ucciso dagli austriaci o dagli italici carabinieri. di Francesco Pappalardo Gli oppositori dell'Unità nel Regno delle Due Sicilie - Anche l'unificazione forzata della penisola italiana, nel decennio dal 1859 al 1870, suscita ovunque resistenze e reazioni, in particolare nel Regno delle Due Sicilie, dove la lotta armata contro l'invasore assume proporzioni straordinarie. Pure in questo caso gli insorti, che combattevano contro l'imposizione di una visione del mondo estranea alle proprie tradizioni civili e religiose, sono stati bollati come briganti. La resistenza nel Mezzogiorno ha inizio nell'agosto del 1860, subito dopo lo sbarco sul continente delle unità garibaldine provenienti dalla Sicilia. La popolazione rurale, chiamata alle armi dal suono di rustici corni o dalle campane a stormo, rovescia i comitati insurrezionali, innalza la bandiera con i gigli e restaura i legittimi poteri. La spietata repressione operata dagli unitari, con esecuzioni sommarie e con arresti in massa, fa affluire nelle bande, che i nativi denominano masse, migliaia di uomini: soldati della disciolta armata reale, coscritti che rifiutano di militare sotto un'altra bandiera, pastori, braccianti e montanari. Nella primavera del 1861 la reazione divampa in tutto il regno e il controllo del territorio da parte degli unitari diventa precario. In agosto è inviato a Napoli, con poteri eccezionali, il generale del Regio Esercito del neo proclamato Regno d'Italia Enrico Cialdini (1811-1892), che costituisce un fronte unito contro la "reazione", arruolando i militi del disciolto esercito garibaldino e perseguitando il clero e i nobili lealisti, i quali sono costretti a emigrare, lasciando la resistenza priva di una valida guida politica. Il governo adotta la linea dura e il generale Cialdini ordina eccidi e rappresaglie nei confronti della popolazione insorta, decretando il saccheggio e la distruzione dei centri ribelli, istituendo per legge il diritto alla rappresaglia collettiva verso i paesi ribelli o sospettati essere ostile al nuovo Governo. In questo modo viene impedita l'insurrezione generale, e viene scritta una pagina tragica e fosca nella storia dello Stato unitario. Dalla repressione all'emigrazione - Con il sistema generalizzato degli arresti in massa e delle esecuzioni sommarie, con la distruzione di casolari e di masserie, con il divieto di portare viveri e bestiame fuori dai paesi, con la persecuzione indiscriminata dei civili, si vuole colpire "nel mucchio", per disgregare con il terrore una resistenza che riannodava continuamente le fila. Viene introdotto per la prima volta nel diritto pubblico italiano l'istituto del domicilio coatto, che risulta particolarmente odioso per la sua arbitrarietà. La moltiplicazione dei premi e delle taglie crea un'"industria" della delazione, che è un'ulteriore macchia indelebile nella repressione e ispira amare riflessioni sulla proclamata volontà moralizzatrice dei governi unitari nei confronti delle popolazioni meridionali. Attenzione particolare è dedicata alla guerra psicologica, condotta su larga scala mediante bandi, proclami e soprattutto servizi giornalistici e fotografici, che costituiscono i primi esempi di una moderna "informazione deformante". In questo modo viene distrutto il cosiddetto "manutengolismo", cioè quel vasto movimento di sostegno e di fiancheggiamento alla guerriglia, che rappresenta un fenomeno così ampio e articolato socialmente da non poter essere stroncato con il solo ricorso alla legislazione penale, anche se eccezionale. Infine, la proclamazione dello stato d'assedio, le uccisioni indiscriminate, il terrore, il tradimento prezzolato stroncano la volontà di resistenza della popolazione. Quando le bellicose energie sono esaurite, l'estraneità al nuovo ordine si manifesta più pacificamente, ma non meno drammaticamente, nella grandiosa emigrazione transoceanica della nazione "napoletana", che coinvolge alcuni milioni di persone. Oltre la censura storiografica: le ragioni ideali e politiche - Questo periodo doloroso della storia della nazione italiana è censurato e deformato da oltre un secolo. La storiografia di ispirazione liberale, da Francesco Saverio Nitti (1868-1953) a Giustino Fortunato (1777-1862) e a Benedetto Croce (1866-1952), interpreta la resistenza popolare come manifestazione di criminalità comune e come esito della sobillazione "reazionaria", abile a sfruttare mali endemici e secolari del Mezzogiorno. Su un altro versante, ugualmente deformante, si pongono quanti partono dalle considerazioni di Antonio Gramsci (1891-1937) sulla "questione meridionale" per proporre una lettura del Brigantaggio come manifestazione della lotta di classe, identificando nella guerra per bande una forma di lotta armata condotta in prima persona dalle masse contadine contro le classi dominanti. In realtà, un'interpretazione esauriente del complesso fenomeno del Brigantaggio deve partire dalla considerazione che l'opposizione armata fu soltanto uno degli aspetti della resistenza antiunitaria delle popolazioni meridionali, che presentò contorni più vasti e profondi di quelli che avevano caratterizzato le insorgenze dell'età napoleonica. Infatti, negli anni successivi al 1860, la resistenza si presenta con forme molto articolate, di cui offrono testimonianza l'opposizione condotta a livello parlamentare, le proteste della magistratura, che vede cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni, la resistenza passiva dei dipendenti pubblici e il rifiuto di ricoprire cariche amministrative, il malcontento della popolazione cittadina, l'astensione dai suffragi elettorali, il rifiuto della coscrizione obbligatoria, l'emigrazione, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de' Sivo (1814-1867), che difendono con gli scritti i calpestati diritti di una monarchia da sempre riconosciuta nel consesso delle nazioni e benedetta dalla suprema autorità spirituale. La resistenza armata è però il fenomeno più evidente, che coinvolge non soltanto il mondo contadino, ma tutta la società del tempo nelle sue strutture e nei gruppi che la componevano. Nei primi anni il motivo legittimistico è dominante e le modalità della guerriglia, capace di unire aristocratici e popolo, sono tali da richiamare alla mente l'epopea vandeana. Questa continuità contro-rivoluzionaria non è affatto simbolica, ove si consideri che, a capeggiare gli insorgenti, "il fior fiore della nobiltà lealistica europea discese dalle brume dei propri castelli nel fuoco di una lotta senza quartiere “per il trono e l'altare”, “per la fede e la gloria”", come era scritto su uno dei pannelli della mostra su Brigantaggio, lealismo e repressione, organizzata a Napoli nel 1984. Il conte Henri de Cathelineau (1813-1891) - discendente di uno dei più valorosi condottieri della guerra di Vandea -, il barone prussiano Teodoro Klitsche de La Grange (1799-1868), il conte sassone Edwin di Kalckreuth, fucilato nel 1862, il marchese belga Alfred Trazégnies de Namour, fucilato nel 1861 all'età di trent'anni, il conte Émile-Théodule de Christen (1835-1870), i catalani José Borges (1813-1861), definito "l'anti-Garibaldi", e Rafael Tristany (1814-1899), sono artefici di memorabili imprese e fanno a lungo sperare in una conclusione vittoriosa della guerriglia. Le ragioni socio-economiche e le motivazioni religiose - Con queste considerazioni non si intende sottovalutare il carattere anche sociale delle insurrezioni. L'eversione della feudalità e la privatizzazione dei beni della Chiesa durante l'età napoleonica, che avevano trasformato l'assetto della società e dato origine alla questione demaniale, hanno una parte rilevante nello stimolare la partecipazione dei contadini alla lotta armata, ma questo aspetto non basta da solo a spiegare l'intensità, l'estensione sociale, l'ampiezza territoriale e la durata del Brigantaggio. L'attribuzione di un prevalente carattere sociale alla resistenza antiunitaria è causata sia da pregiudizi ideologici, che inducono gli storici a sottovalutare o a negare la componente politica del fenomeno, sia dalla diffusione e dalla persistenza del mito dell'oggettiva potenzialità rivoluzionaria delle sommosse contadine. Questa impostazione è caratterizzata da una generale incomprensione e negazione della cultura delle popolazioni italiane, e ciò vale in particolare per la componente religiosa, che ne rappresentava l'anima. L'elemento religioso è generalmente presente nelle raffigurazioni d'epoca, così come sui vessilli e sulle insegne di battaglia; frati e sacerdoti sono presenti in gran numero nelle schiere degli insorgenti, sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura; i vescovi - benché spesso scacciati dalle loro sedi - sostengono efficacemente l'insurrezione, pubblicando pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste e le scomuniche provenienti dalla Santa Sede. L'autorevole La Civiltà Cattolica esprime ripetutamente il suo appoggio a quello che era ritenuto uno spontaneo movimento di massa, a carattere legittimistico, contro le usurpazioni del nuovo Stato liberale. Il Brigantaggio, dunque, è stato un fenomeno composito, manifestazione del contrasto fra due mentalità, fra due differenti impostazioni culturali, ma soprattutto ha rappresentato l'espressione più macroscopica della reazione di una nazione intera in difesa della sua autonomia quasi millenaria e della religione perseguitata e, dunque, costituisce l'ultimo tentativo compiuto in Italia, insieme con la difesa di Roma a opera degli zuavi, per combattere la Rivoluzione con le armi. Se la resistenza antiunitaria non riesce a ripetere il successo della Santa Fede nel 1799, ciò è dovuto non soltanto alla situazione internazionale sfavorevole e allo scontro con lo Stato unitario, di cui non si conoscevano i meccanismi e che può concentrare per alcuni anni imponenti forze nel Mezzogiorno, ma anche all'assenza di una classe dirigente valida e ben determinata, che sapesse animare e coordinare la reazione popolare, spontanea e generale, ma non autonoma. LA RESISTENZA BORBONICA …. La reazione popolare, il Brigantaggio, sul finire del secolo, non è anti-feudale e neppure anti-aristocratica — se non dove la nobiltà era venuta meno alla sua funzione di mediazione e di comando —, ma rivolta contro la nuova mentalità rivoluzionaria, che imponeva un’economia senza vincoli corporativi e senza remore morali, infrangeva i legami esistenti fra i diversi ceti della nazione e veicolava una cultura estranea e avversa alle tradizioni civili e religiose del paese. L’INQUINAMENTO STORIOGRAFICO Nonostante il giansenismo e l’assolutismo illuminato, con i suoi corollari regalistici e livellatori, le armate giacobine e napoleoniche, che pretendono di agire per il bene del popolo, per la sua libertà e per il suo benessere, incontrano soltanto ostilità nella penisola italiana. "Singolare ed imbarazzante paradosso, contro il quale ha sbattuto più volte la faccia sia la storiografia liberal-progressista sia la storiografia marxista, cui venivano meno gli abituali schemi interpretativi" (10). Gli storici liberali, rappresentati innanzitutto da Vincenzo Cuoco e Pietro Colletta, tendono a ricondurre il fallimento della Rivoluzione a un cumulo di errori e di circostanze avverse, così da salvaguardare il ruolo dirigente dell’"intellettuale" e il suo diritto a ergersi come rappresentante della nazione. Benedetto Croce, inoltre, riduce in larga misura la storia del Mezzogiorno alla storia della sua classe intellettuale, giungendo a idealizzare i giacobini come nuova aristocrazia, "[...] quella reale, dell’intelletto e dell’animo" (11). Antonio Gramsci, che utilizza lo stesso procedimento logico, si rammarica dell’assenza "momentanea" di un’avanguardia intellettuale, cioè di un partito leninista che non era stato ancora fondato, e propone una interpretazione delle insorgenze in chiave di lotta di classe fra contadini e borghesia. Questa impostazione cerca di accreditare l’idea di una conflittualità sociale molto diffusa in tutta la penisola, che abbia sempre gli stessi caratteri in presenza di popolazioni differenti, rette da istituzioni diverse, situate in contesti geo-economici non uniformi e con le più varie tradizioni. Una spiegazione del tutto insufficiente è offerta anche dalla storiografia nazionalistica, che vede nelle insorgenze soltanto preziose affermazioni di valori nazionali e patriottici e, quindi, una reazione allo straniero invasore e non ai princìpi rivoluzionari, i quali — essa afferma — avrebbero ricevuto migliore accoglienza se presentati in altro modo e in altra circostanza. La matrice religiosa delle insorgenze risulta così sbiadita e la resistenza armata di interi popoli, che in Italia e in Europa si batterono in difesa della loro fede e delle loro tradizioni — soprattutto dove si era conservata la compattezza organica della nazione cristiana — è ancora oggi ignorata da molti o ricordata con disprezzo. "Tutto questo che è dignità, fierezza, spirito di sacrificio — scrive Niccolò Rodolico, autore di orientamento liberale — è stato considerato, specialmente per l’Italia meridionale, fanatismo e brigantaggio" (12). Queste considerazioni valgono in particolare per l’insorgenza meridionale che, rispetto ad altre simili vicende italiche, può essere assunta come modello per l’ampiezza del fenomeno, per la minore frammentarietà delle vicende e per la presenza di un piccolo nucleo dirigente che seppe coordinare la generosa reazione popolare (13). Nel 1799, i "lazzari" napoletani e i contadini delle province si rivelano ben lungi dall’essere una massa amorfa, avvezza a passare con facile rassegnazione da un padrone all’altro, e le loro gesta vanno a costituire la splendida epopea della Santa Fede, "[...] che ebbe nell’eroico cardinale Fabrizio Ruffo il suo condottiero e in sant’Alfonso Maria de’ Liguori il suo preparatore remoto ma profondo, nello stesso senso in cui san Luigi Maria Grignion de Montfort preparò la Vandea" (14). Quando i francesi ritornano, nel 1806, si verificano nuove e numerose sollevazioni popolari in diversi Stati italiani. Nelle province napoletane le bande, guidate da popolani, borghesi e anche sacerdoti, raccolgono impiegati, soldati sbandati, contadini e pastori, la cui lotta assume i caratteri della resistenza contro-rivoluzionaria, ma tale valoroso comportamento è definito sbrigativamente "brigantaggio" dagli invasori e il termine è tramandato da una mendace storiografia (15). La Rivoluzione italiana, dopo la Restaurazione del 1815 e un successivo periodo di tregua necessario per riordinare le fila e porsi sotto la protezione della monarchia sabauda, compie un nuovo passaggio negli anni 1859 e 1860 con la conquista di quasi tutti gli Stati della penisola da parte del regno di Sardegna, che porta a termine il disegno sovversivo fallito mezzo secolo prima. "La nazione italiana, prima una nella fede e nella diversità, viene unita nell’errore, cui si accompagna l’imposizione spesso crudele di una uniformità che è piuttosto rivoluzionaria che piemontese. Cadono tutte le Case regnanti, vengono disperse tutte le classi dirigenti che hanno servito la Cristianità a diverso titolo fin nelle terre più lontane, le differenze regionali e storiche sono bandite, la religione e i suoi ministri perseguitati" (16). Non mancano resistenze e reazioni all’unificazione forzata, ma soltanto nel regno delle Due Sicilie la lotta armata contro l’invasore assume proporzioni straordinarie. Tuttavia, anche questo doloroso periodo della storia della nazione italiana è censurato e deformato da oltre un secolo. Infatti, alla "[...] fase del silenzio patriottico o della rimozione che dura fino alla caduta del fascismo", ha fatto seguito un’analoga "[...] fase di silenzio, dovuto alla necessità della costituzione di una nuova Italia repubblicana" (17). La storiografia di ispirazione liberale ha tramandato una nozione ormai screditata della resistenza popolare come manifestazione di criminalità comune e come esito della sobillazione reazionaria, abile a sfruttare mali endemici e secolari del Mezzogiorno. È la tesi di Francesco Saverio Nitti (18), che trae alimento dalle Relazioni della commissione parlamentare di inchiesta sul brigantaggio, e di Giustino Fortunato, secondo il quale nell’Italia Meridionale il brigantaggio postunitario non era stato un "[...] tentativo di restaurazione borbonica e di autonomismo, bensì un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico [...], frutto di secolare abbrutimento, di miseria e di ignoranza delle nostre plebi meridionali" (19). Espressione emblematica del fastidio di trattare un argomento così ignobile è la posizione di Gino Doria, che considera il brigantaggio solo un episodio "da espellere" dalla storia d’Italia "e da relegare nelle cronache criminali" (20). Benedetto Croce considerava il brigantaggio una conseguenza del vuoto di potere seguito al crollo della monarchia borbonica e concludeva che non si poteva parlare di una Vandea italiana perché non si erano visti sul terreno operativo gentiluomini e difensori della causa legittimistica come in Francia (21). |
Il Brigantaggio nel Distretto di Nola 1860-1868· L'Autore · Il Plebiscito e la Rivolta nelle campagne · Lo scoppio della Guerra Civile
|