Anonimo del 1863 - Discorso a' posteri sulle vicende del Regno di  Napoli e Sicilia: "Diciotto briganti distrutti... altri  presi e fucilati... Tutto il Gargano nello stato di assedio...    le masserie chiuse; fabbricate le porte, bruciate le pagliaia... la gente via per le campagne non  più che  con mezzo  pane in  tasca". "E sì ne avvenne che, come a nembo di affamate locuste, ci vedemmo assaliti per veder consumato e perduto il prodotto delle  nostre fatighe; tanti nostri capitali accumulati, per processo di tempo, in fabbriche sontuose, in lavori di arte, in pubbliche istituzioni, in opifizi di varia sorte che davano costante lavoro al povero, e spandevano la pubblica ricchezza in tutte le parti del paese nostro".

JORNAL DE DEBATS, novembre 1860: “Quelli che hanno chiamato i piemontesi e che hanno consegnato loro il Regno delle Due Sicilie sono un’impercettibile minoranza. I sintomi della reazione si vedono ovunque".

HERCULE DE SAUCLIERES, 1863: Gli scrittori italianissimi inventarono dunque i briganti, come avevano inventato i tiranni; ed oltraggiarono, con le loro menzogne, un popolo intero sollevato per la sua indipendenza, come avevano oltraggiato principi, re ed anche regine colle loro rozze e odiose calunnie. Inventarono la felicità di un popolo disceso all’ultimo gradino della miseria, come avevano inventato la sua servitù al tempo de’ sui legittimi sovrani."

TEODORO SALZILLO, 1868: “Il progresso e la civiltà, nei tempi correnti, vengono interpretati diversamente da quello che si intendevano innanzi. Oggi, progresso e civiltà all’uso piemontese vuol dire: abbassamento della suprema autorità, della civiltà, della morale. Secondo la loro moda: la proprietà è furto; il diritto è tirannide; la religione è inceppamento; la pietà è delitto; il fucilare è bisogno; lo spoglio dei popoli è necessità. Chi è dunque cieco anche nella mente, da non vedere in questo civiltà ed in questo progresso l’abbruttimento della società?

I TRIBUNALI DI GUERRA DEI SAVOIA

I bravi piemontesi misero subito in azione quello che da mesi era già preventivato: misero in stato di assedio tutte le province del Mezzogiorno continentale ad eccezione di quelle di Teramo, Reggio Calabria, Napoli, Bari e Terra d’ Otranto già abbondantemente massacrate dall’esercito sabaudo. Il ministro della Guerra istituì Tribunali di guerra a Potenza, a Foggia, ad Avellino, a Caserta, a Campobasso, a Gaeta, a L’Aquila, a Cosenza che si aggiungevano a quelli di Bari, di Catanzaro, di Chieti e di Salerno. Il comportamento dei giudici militari di quei tribunali è stato a dir poco spregevole, orripilante: gli assassinii venivano legalizzati da un ufficiale facente le funzioni di giudice; le condanne a morte furono tante, tantissime, a volte anche senza processo. Quegli ufficiali mettevano a verbale solo qualche processo intentato dalla giustizia ordinaria, gli altri no.

Pasquale Stanislao Mancini, qualche anno più tardi affermò di volersi astenere dal meglio precisare le critiche verso quei tribunali di guerra, per non essere costretto “ a fare rivelazioni, di cui l’Europa dovrebbe inorridire” (Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano, 1983, pag 287)

Alcuni deputati meridionali, accortisi dell’inganno piemontese, accortisi che i governanti erano i veri esecutori di assassinii perpetrati ai danni della gente del Sud, fecero le loro rimostranze alla Camera, ma era ormai tardi.

Molfese riferisce: ”è certo che la procedura seguita nei giudizi militari lasciò molto a desiderare ...”

Luigi Minervini, nel giugno del 1864, affermò alla Camera cose molto gravi... dichiarò di possedere tutti gli estremi, che del resto erano ben noti al ministro della guerra. Nei verbali dei dibattimenti, in generale risultavano soltanto le generalità dei testi a carico o a discarico, ma non le loro deposizioni. Erano stati condannati a morte colla fucilazione individui volontariamente presentatisi, minorenni non catturati in conflitto, individui non punibili per brigantaggio ma soltanto per reati comuni... mogli di briganti condannate ai ferri a vita... fanciulle inferiori ai 12 anni, figlie di briganti avevano subito condanne di 10 o 15 anni...” (Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli editore, Milano, 1983, pag 287).

Angelina Romano, 9 anni, fucilata a Castellammare del Golfo di Trapani, pare che l'autore di detto scempio sia stato il colonnello Quintini, noto per aver fatto fucilare altre centinaia di meridionali e plurimedagliato per questo. Poi, Antonio Colucci, fucilato a 16 anni; Antonio Orsolino, 12 anni, condannato alla fucilazione per brigantaggio. Memorie storiche ci tramandano di un pastorello di soli 8 anni di Monte Sant'Agata, collina di Gaeta, fucilato perchè trovato con scarpe per lui grandi, ma piemontesi. Le aveva tolte dai piedi di qualche soldato morto.

Secondo i dati ufficiali resi noti da Petitti di Roreto, tra l’agosto del 1863 e il 31 dicembre del 1865 i tribunali militari giudicarono 10.666 persone di cui 2.901 nel 1863; 4.523 nel 1864; 3.242 nel 1865. Sempre secondo Petitti furono condannate 2.118 persone, ne furono rimesse ad altra giurisdizione 1.686, decedute in carcere 123, assolte 6.739. Dei 697 assolti del 1863, 270 vennero rimessi alle giunte per il domicilio coatto. Delle 1035 condanne del 1865, secondo i dati ufficiali, 55 furono a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 567 ai lavori forzati a tempo, 2 alla reclusione militare, 306 alla reclusione ordinaria, 22 al carcere. (Franco Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli Editore, Milano, 1983, pag 289)

Ma per lo più gli imputati o presunti tali non arrivavano mai al cospetto di un tribunale, venivano infoibati vivi, fucilati o uccisi per tentata fuga. Un vero massacro.
Ciò ci è confermato anche dal Molfese a pag 291 del suo lavoro: “...quanti furono gli arrestati per la legge Pica? È praticamente impossibile stabilirlo. Le cifre di fonte governativa fornite alla Camera dalla commissione incaricata... sono ridicolmente esigue: 179 briganti e 941 manutengoli … a dicembre del 1863...”.

Cifre smentite dalla stampa e dalle notizie che penetravano nelle redazioni dei giornali. Il 24 ottobre del 1863 Giornale Officiale di Napoli annunciò che erano stati arrestati 34 sindaci, 61 magistrati e 80 ufficiali della guardia nazionale e secondo il Roma, soltanto nel Salernitano, fra l’agosto ed il novembre del 1863 erano stati arrestati 51 comandanti della guardia nazionale su un totale di 159 comuni. Nella sola Basilicata, nei soli primi sei mesi dell’applicazione della legge Pica vennero effettuati 2.400 arresti; di questi ben 375 uomini e 140 donne furono inviati al domicilio coatto.

Luigi Dragonetti scrisse a Silvio Spaventa che nella provincia dell’Aquila, ormai generalmente poco infestata dai briganti, erano stati arrestati 400 manutengoli. Si parlò di 12.000 arrestati e deportati. Nel settembre del 1863 erano già un migliaio gli inviati al domicilio coatto nelle isole dell’Elba, Gorgona, Capraia e Giglio. 47.700 carcerati, 15.665 fucilati in un anno.  (Franco Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli Editore, Milano, 1983, pag 291)

Lo storico e patriota Giacinto De Sivo ci fa sapere che durante il 1861, sotto il governo piemontese i misfatti quintuplicarono. Napoli, ormai diventata una delle 24 province meridionali, ebbe 4300 reati di sangue, con i Borbone mai erano arrivati a mille. Il deputato Ricciardi, il 27 giugno del 1862 disse in Parlamento che i carcerati, nella sola parte continentale dell’ex Regno delle Due Sicilie erano 47.700 e i fucilati furono 15.665.(Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Edizioni Brenner, Potenza, Vol.II, pag.492)
Il Tribunale di Guerra di Caserta processò per “ connivenza” la signora Maria Saveria Parente, di San Giovanni di Ceppaloni, in provincia
di Benevento, di 52 anni, madre di sette figli; il 13 giugno del 1864 la condannarono a sette anni di carcere duro per aver fatto dormire nella sua stalla un suo compaesano, tale Carmine Porcaro, noto brigante del luogo. Costui, in una sera piovosa si era a lei presentato vestito da frate ricevendo accoglienza anche perchè irriconoscibile per colpa del buio e della pioggia.

La Parente, tramite l’avvocato fiscale, ricorse avverso la condanna alla Corte d’Appello di Torino col risultato di vedersi confermare dai signori magistrati torinesi la condanna di primo grado. Maria Saveria li scontò tutti. “Considerato in ordine alla competenza che il titolo del reato dianzi specificato di cui era la Parente imputata - recita la motivazione dei giudici - e per cui veniva condannata, non lascia punto dubitare che ai sensi della legge 7 febbraio 1864... rigetta il ricorso della Maria Saveria Parente...”. La Parente era stata arrestata nel dicembre del 1863, quindi avrebbe dovuto essere giudicata secondo le leggi allora in vigore, ma i magistrati torinesi... senza lasciar punto... rigettarono il ricorso della coraggiosa mamma sannita perché una legge del sette febbraio dell’anno seguente prevedeva ciò che non era previsto l’anno precedente. ( Archivio Centrale dello Stato, Roma, Tribunali Militari per il brigantaggio, Busta numero 55, fascicolo 735).

Tutte le sentenze sono state fatte in nome di Vittorio Emanuele II. I Savoia sono avvertiti, anche se eredi di quella progenie, potrebbero essere processati per leggi successive a quelle esistenti oggi, o, ieri.

Donata Caretto, di 88 anni viene arrestata il 14 novembre del 1863 con l’accusa di aver procurato viveri al brigante Nicola Tocci della banda Caruso; il 2 luglio viene processata e condannata a sette anni di reclusione. Sia il tribunale di guerra di Caserta che quello superiore di Torino, che respinse il ricorso della Caretto, non contemplavano l’età di un imputato né la solidarietà cristiana innata delle popolazioni meridionali. Erano gli effetti della Legge Pica, e non solo. (Archivio centrale dello Stato, Roma, Tribunale Militare di Guerra di Caserta, cartella N° 30 Processo N° 153)

Antonio Colucci, 16 anni - A Baiano, il 12 marzo del 1862, fu fucilato Antonio Colucci, un contadinello di 16 anni. Il ragazzo, per evitare uno scontro sul suo terreno coltivato, avvertì i patrioti dell’arrivo della truppa piemontese. Preso e interrogato dai savoiardi raccontò la sua verità. Lo condussero davanti ad un tribunale di guerra che gli inflisse la pena capitale. Otto militi della guardia nazionale furono prescelti per l’esecuzione, fra di essi vi era anche il compare del ragazzo. I colpi dei militi sbagliarono il bersaglio, pensiamo volutamente, non colpirono il contadinello in erba; allora quattro soldati piemontesi, afferrato il ragazzo, senza pietà lo stesero a terra. Il padre del ragazzo, impazzito, fu tradotto in carcere. (Michele Topa, I briganti di Sua Maestà, Editrice Fratelli Fiorentino di Fausto Fiorentino, Napoli.)

Orsolino Antonio, 12 anni, fucilato -  Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa, dov’è la vittoria, le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò, stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte… Su! Meridionali! Cantate a squarciagola l’inno nazionale; carabinieri, finanzieri, guardie di pubblica sicurezza, calciatori azzurri, su, cantiamolo forte, è l’inno di Mameli! Quale sentimento provarono i soldati del plotone di esecuzione che fucilarono Antonio Orsolino nato a Casalnuovo Monterotaro di Foggia, pastore ancora in erba, di anni 12 (dodici), domiciliato a Casalvecchio?

Fu preso sulle montagne tra Arienzo e Santa Maria a Vico il primo settembre del 1863 e giudicato dal tribunale di guerra di Caserta il 2 marzo del 1864 per il reato di brigantaggio secondo gli articoli 596 § 1 e 247 § 1 del Codice Militare. (Archivio Centrale dello Stato, Roma, Tribunale Militare di Guerra di Caserta, Cartella N° 37)

Il ragazzino andò fiero davanti al plotone di esecuzione, certo di imitare i suoi eroi, certo di aver difeso le sue pecore dalle ruberie piemontesi, certo di giocare a briganti e ladri, come si usava nel meridione. Aveva dodici anni!  Tratto dal libro di Antonio Ciano " Le stragi e gli eccidi dei Savoia-esecutori e mandanti" .                                                                                                                                                                                                                                  

DIARIO DI UN SOLDATO BORBONICO

NELLE CARCERI ITALIANE

Il Diario, scritto dal colonnello Duca de Christen eroe della battaglia di Bauco, descrive le terribili ed angosciose vicende di un soldato borbonico fortunato in quanto francese nelle carceri italiane. Le agghiaccianti vicende sono di un periodo storico non ancora sotto la famigerata legge Pica, che legalizzò la rappresaglia verso civili ed interi paesi e lasciano intuire le immani sofferenze inflitte ai napoletani dallo Stato italiano coi suoi aguzzini bersaglieri e carabinieri. Celle piccole, buie senza finestre ed aria, senza letti e coperte, esposti al freddo e umidità intensa ed a vivere tra insetti ed escrementi e mangiar pane duro e acqua o sozza brodaglia, legati ad altri detenuti da 16 kg di catena ciascuno. Ecco il trattamento che i “liberatori, fratelli d’Italia” riservarono al popolo napoletano borbonico, che lottò per l’indipendenza. Un memoriale per i posteri meridionali e napoletani, affinché maledicano sempre l’Italia, i savoia, il tricolore.

 

EVVIVA IL SUD INDIPENDENTE

 

PER NON DIMENTICARE

AFFINCHE’ IL LORO SACRIFICIO NON SIA VANO

 

 

                                                                                       

               

(continua)

LAGER di FENESTRELLE

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