Le scuole coloniali italiane.

 

 

Molto tempo prima che si prendesse possesso della Libia, funzionava a Tripoli una scuola nostrana, fondata da un maestro pioniere, Giannetto Paggi. Ne segui un'altra, destinata alle ragazze. Fu il primo passo di un impegno teso a promuovere l'elevazione culturale dei nativi, nel rispetto profondo delle tradizioni e delle abitudini locali.

 

 

Molti anni prima che l'Italia prendesse possesso della Libia nel 1911, già nel 1876 funzionava a Tripoli una scuola italiana, fondata da un maestro pioniere, Giannetto paggi. A quella prima scuola ne era seguita, sempre a Tripoli, un'altra, destinata alle ragazze, voluta da un gruppo di coraggiose maestre. Un fatto rivoluzionario per tutto il mondo arabo. Fu il primo passo di un impegno finalizzato a promuovere l'elevazione culturale dei nativi, perseguito con una quantità di investimenti e con un vigile, profondo rispetto per le tradizioni e le abitudini locali tale da non trovare alcun corrispettivo nella politica scolastica delle altre e più ricche potenze coloniali.
Ad incoraggiare l'istituzione di quelle prime scuole era stato Francesco Crispi, sempre più convinto che anche l'Italia dovesse assicurarsi un proprio futuro coloniale.
Quando poi, estromessa dalla Libia la Turchia, che nulla aveva costruito ma tutto aveva sfruttato, fu tutta nostra la responsabilità di amministrare il territorio, il problema dell'istruzione dei nativi fu affrontato con estremo scrupolo evitando l'errore di applicare nella "Quarta Sponda" le formule in vigore nel sistema scolastico italiano.
La realtà libica era molto diversa e variegata: c'erano i musulmani ripartiti in tre componenti, arabi, berberi e sudanesi; poi gli israeliti, molto attivi nel commercio; quindi gli europei non italiani; infine i connazionali, ma anche questi provenienti da tutte le regioni d'Italia, e quindi con tradizioni e abitudini diverse; oltre a minoranze di indiani, ciprioti, maltesi e armeni. Ciascuna comunità con proprie caratteristiche, ciascuna custode, con orgogliosa fierezza, di consuetudini derivate anche da società primitive.
Esclusa ogni tentazione di procedere ad assimilazioni sicuramente destinate al fallimento, furono applicate direttive nel senso di "vivificare senza sradicare, illuminare senza disorientare, agire nel persuadere i nativi che noi desideriamo tutelare i loro interessi almeno quanto vogliamo curare i nostri".
In quanto al delicatissimo rapporto con gli israeliti - da tempo immemorabile soggetti ai "codici" musulmani, persino con l'imposizione del modo di vestire - le direttive furono quanto mai coraggiose: "Sollevarli dal grado di minoranza morale che secoli e secoli di servitù hanno loro imposto; rialzare la loro dignità senza esaltare troppo il loro orgoglio né eccitare i loro appetiti; indirizzarli ad attività concrete in vista del bene comune".
Alla Scuola l'impegnativo compito di sapersi muovere con intelligente cautela in questa complicata realtà. Niente principi astratti né astratti apriorismi ma costruttivo realismo nel tener conto dei pregiudizi, dei timori e della congenita diffidenza di cui è impastata l'anima dei libici.
Avvertiva Angelo Piccioli, sovrintendente all'istruzione in Tripolitania: "Non si trasforma l'anima degli uomini per via di decreti e di ordinamenti formali. Occorre procedere per piccoli tentativi, discreti, continui, premurosi. Quale istituzione potrebbe assumersi un simile compito, se non la Scuola?". Piccioli aveva idee molto chiare e le applicava a tutto campo: rifiuto del colonialismo imperialista ma impegno costante di maestri rigorosamente selezionati fra i diplomati con il massimo dei voti e preparati da esperti africanisti al fine di "consolidare i legami di simpatia che uniscono gli indigeni all'Italia". II nostro maestro coloniale - raccomandava - "deve dare la prova ad ogni tappa del suo cammino, della generosità delle nostre intenzioni, della liberalità dei nostri procedimenti, della larghezza della nostra visione politica; deve inculcare ai giovani che gli sono affidati - e in modo che persista in loro limpidamente e nettamente quando abbiano abbandonato la scuola per la vita - l'idea che l'Italia ha compiuto, nella storia del mondo, un glorioso compito di civiltà che la rende degna di assolvere la sua missione in queste terre".
Il nostro modo di procedere nell'educazione scolastica dei nativi irritava molto le altre potenze coloniali, che lo consideravano eccessivo, fuorviante e pericoloso. Un commentatore francese, Cherveriat, tentò di spaventarci, giurando che "ogni indigeno istruito è destinato a diventare nemico di chi lo istruisce". Il che era in parte vero per quanto riguardava le colonie delle altre potenze europee, non certo per quelle italiane, che dal confronto ne uscivano largamente premiate. Basterebbe ricordare che mai nessun commentatore italiano ha sostenuto, come un altro studioso francese di ordinamenti coloniali, George Hardy, all'epoca direttore generale dell'istruzione in Marocco, che "non bisogna lasciare in mano agli indigeni quegli istituti che, se mantenuti da essi, potrebbero costituire una pratica dimostrazione del mancato adempimento da parte nostra alla fondamentale funzione educatrice, e che in ogni caso potrebbero divenire domani quello che non sono oggi: un'arma morale e politica contro di noi". L'Italia seguiva altre strade e puntava ad altri obiettivi nella duplice convinzione che lo sviluppo delle nostre colonie non poteva realizzarsi senza la partecipazione degli indigeni, e che non la forza delle armi ma l'esempio avrebbe assicurato lunga e pacifica convivenza nei nostri territori d'Oltremare.
E gli indigeni vennero a noi, sempre più numerosi, ad istruirsi nelle scuole che avevamo allestito per loro in tutto il territorio, dalla costa sino alle più sperdute oasi all'interno. Scuole moderne, in edifici confortevoli, che avevano preso il posto delle vecchie, indecorose e malsane scuole dell'epoca ottomana Con arredi e materiale didattico a volte più scelto e più abbondante di quello in dotazione agli istituti metropolitani.
Un decreto del 31 ottobre 1919 prevedeva che "per i musulmani, in tutte le classi delle elementari e nelle medie, l'insegnamento delle discipline religiose, della lingua, delle scienze islamiche, della letteratura e della storia sarà impartito in lingua araba L'insegnamento delle altre materie sarà impartito in lingua italiana". Era l'inizio del grande approccio con il nostro idioma.
Al fine di preparare le disposizioni per attuare quanto previsto dal decreto, fu costituita una speciale commissione formata da docenti italiani ed arabi. Una delle proposte più significative, formulata dalla commissione e accettata sia dal governo locale che da quello di Roma, il 14 settembre 1922, riguardava il suggerimento di "mantenere la scuola coranica al di fuori di ogni ingerenza da parte dello Stato". Era l'ennesima conferma della rispettosa attenzione con la quale l'Italia riconosceva e garantiva la libertà e l'autonomia delle tradizioni culturali e scolastiche della popolazione araba
Si stabiliva pertanto che per il ciclo triennale della scuola elementare musulmana l'insegnamento sarebbe stato impartito in lingua araba per le seguenti materie: apprendimento a memoria e lettura di parte del Sublime Corano; principii di religione e morale; lettura scritta e dettato; prime nozioni di aritmetica; nozioni varie (osservazione e descrizione di cose e fatti naturali; nozioni elementari di igiene e notizie sul Paese); lavoro manuale preliminare (facoltativo); canto (facoltativo). Nell'ultimo anno del triennio, cioè in terza elementare, cominciava il corso di approccio con la lingua italiana, prime nozioni parlate e scritte.
Nei successivi tre anni (corso superiore), queste le materie di insegnamento: Corano, religione e morale; Lingua araba; Lingua italiana; Aritmetica e geometria elementare; Calligrafia; Nozioni varie (lezioni di cose, storia, geografia, agricoltura, igiene, ecc.); Ginnastica; Canto (facoltativo). Aritmetica e geometria; Calligrafia, Nozioni varie, venivano insegnate sia in lingua araba che in lingua italiana. Era anche previsto, qualora ne venisse riconosciuta l'opportunità, un quarto corso superiore.
Fu una politica talmente illuminata che nel 1922 il governatore, conte Volpi di Misurata, mentre raccomandava di "tener sempre presenti le esigenze delle popolazioni", si trovò di fronte all'inattesa proposta dei beduini della Tripolitania di estendere l'insegnamento della lingua italiana anche alle prime tre classi delle elementari.
Per apprezzare quanto fosse scrupolosa l'attenzione delle nostre autorità scolastiche nei confronti delle abitudini e delle tradizioni locali, valga un esempio di cui fu protagonista il sovrintendente all'istruzione in Tripolitania, Angelo Piccioli. Un giorno, visitando una piccola scuola sperduta in un'oasi del deserto, si accorse, dai quaderni degli alunni, che il maestro italiano assegnava temi molto più adatti a ragazzi che vivevano nei centri urbani. A questo punto, rivolto più al maestro che agli scolari, annunciò che avrebbe dettato lui un tema. Si recò alla lavagna e scrisse: "Raccontate una leggenda del vostro paese, nella quale agiscano uno o più animali". 1 bambini si misero al lavoro con inusitata letizia e il maestro finalmente capì quanto fosse culturalmente importante il folklore locale.
Particolare cura fu riservata alle ragazze, con l'istituzione di corsi della durata di cinque anni in apposite scuole di "istruzione e lavoro per alunne musulmane. Ci furono molte resistenze da parte della popolazione indigena adulta, tradizionalmente contraria all'istruzione della donna, in quanto, secondo un millenario e consolidato proverbio, "Istruire le donne significa corrompere la religione". Ma poi la barriera del pregiudizio fu pian piano superata grazie ad un'accorta politica di persuasione indirizzata ad impartire alle ragazze un'istruzione essenzialmente pratica di preminente interesse domestico. Sarebbe stata grave e fallimentare imprudenza inserire insegnamenti dottrinari o anche lontanamente paragonabili a quelli che si impartivano nelle scuole femminili in Italia
Dalle scuole per musulmani istituite dagli italiani uscì la futura classe dirigente della Libia indipendente, uscirono soprattutto fior fiore di maestri arabi che, perfettamente integrati con i nostri ordinamenti scolastici, seppero impegnarsi egregiamente nell'insegnamento bilingue ai loro allievi musulmani. Passo dopo passo si arrivò ad un ambizioso traguardo, l'istituzione di una "Scuola Superiore Islamica" che pose fine al disagio e alle spese che la gioventù colta libica doveva affrontare per recarsi a completare la preparazione nelle alte scuole di Tunisi o del Cairo.
L'impegno per l'istruzione dei nativi fu esteso ai giardini d'infanzia, ai "ricreatori" (con molti giochi istruttivi), scuole d'arti e mestieri, persino scuole speciali per alunni affetti da tracoma, malattia oftalmica contagiosa particolarmente diffusa nei paesi caldi.
Nella profilassi e nella prevenzione sanitaria scolastica furono impegnati medici prevalentemente italiani e infermieri prevalentemente indigeni, anche con funzioni didattiche per elevare il livello igienico dei ragazzi.
11 quadro non sarebbe completo se non accennassimo alle istituzioni sussidiarie e post-scolastiche, dai corsi serali per adulti analfabeti, ai patronati scolastici in favore degli alunni indigenti, alle molte iniziative a protezione della madre e del fanciullo, soprattutto per togliere dalla strada l'infanzia abbandonata E poi i film educativi, le biblioteche stabili e itineranti (anche sino alle scuole nel deserto), l'educazione al risparmio d'intesa con gli istituti di credito. Furono istituiti "libretti al portatore", che suscitarono notevole entusiasmo fra i ragazzi e finirono per interessare anche le famiglie.
Un primo bilancio dell'impegno italiano per l'istruzione scolastica in Libia fu documentato nel 1925 alla "Mostra Didattica Nazionale" di Firenze. In un telegramma del ministro dell'Istruzione alle autorità didattiche della Libia si esprimeva tutta l'orgogliosa soddisfazione per l'esemplare lavoro compiuto. Ed eravamo soltanto agli inizi. Altri e ancor più importanti primati sarebbero stati conseguiti negli anni successivi, nella preparazione dei futuri dirigenti libici.
Molti non l' hanno dimenticato. Nonostante il furibondo accanimento di Gheddafi nel tentativo di cancellare dalla memoria della sua gente il prodigioso sviluppo che gli italiani seppero imprimere alla Libia.