Il
giallo dei nostri tempi già postapocalittici, nei quali non fa più differenza
se si uccide o si ama, lotta chisciottescamente contro l'indifferenza etica
che indice la perdita di valori e significati. Un giallo da consumarsi
velocemente, con una lettura di poche ore, dopo la quale anche il turista
casuale, o intenzionale, che frequenta questo genere non può fare a meno di
provare simpatia per il commissario-maresciallo di turno votato alla sua lotta
contro il crimine. Anche nel romanzo di Roberto Mistretta Non crescere troppo c'è un maresciallo, Saverio Bonanno, circondato da una
folla di personaggi (in tutto quarantasette) con i quali condivide una storia
nella quale lo spurgo umano sembra raggrumarsi in quel “pattume immoto”, in
quel “puzzo acre del putridume mischiato al tanfo della morte” che si annuncia
sin dall'incipit del racconto.
“L'autocarro
comunale marciava fiacco ed impestato” come impestati sono “l'aria che casca a
pezzi ammorbata e putrida” o il “fetore rancido di malo campare” oppure le “zaffate
pungenti e il tanfo irrancidito” che chiasticamente risolvono il cibo in
vomito-spazzatura, la fame-voracità in sazietà ributtante. La silhouette ben connotata del
maresciallo Bonanno, protagonista di una quadrilogia che lo serializza alla
pari di altri illustri colleghi, spicca in una galleria di ritratti aiscrologici
ai quali corrispondono gli attanti della vicenda. Che è di morte e di violenza,
di miseria ed ignoranza di una Sicilia-mondo, vecchio e sterile, dai cui spazi
desolati non può nascere altro giallo se non di gente che si nasconde e si tradisce.
Anche in quello di Mistretta, come nel giallo classico, c'è un morto, gettato
in prima scena, ma presentato e raccontato con un linguaggio ibridato di espressioni
dialettali, volutamente deformato e anacolutico. Un morto verso il quale la pietas naturale che tocca a chiunque
sia vittima viene impedita da una sensazione di barbarie che, complice
l'ambientazione scatologica (viene trovato in una immonda discarica,
luogo-protagonista di tutto il racconto), diviene, col procedere della vicenda,
onnipervadente. La ragione è presto spiegata: il morto ammazzato, la cui non
certo nobile vita viene abilmente ricostruita attraverso il veloce procedimento
mimetico del racconto che squaderna un'ordinaria disonestà, è anche il
responsabile di un incestuoso atto di violenza nei confronti di sua figlia, è
l'animale dai turpi occhi pelosi che sì muove nella storia altra e comprimaria
della principale che legittima il titolo stesso del romanzo. Una storia-incubo
che recupera analetticamente il tempo della violenza che genera altra violenza,
raccontata in un presente atemporale che la attualizza, in un italiano che,
col suo stile fintamente liricato, non ingentilisce la pagina ma, al contrario,
vuole, parimenti all'idioma mescidato di calchi dialettali, intenzionalmente
sporcarla, giacché sporca è la storia stessa. A questo racconto tutt'altro che
digressivo, infilato in quello principale, che innerva con la sua novità,
costituendo ulteriore elemento di suspense,
è affidata una duplice funzione, strutturale e morale: di stratagemma
narrativo col quale offrire gli indizi indispensabili alla risoluzione
dell'indagine e di spazio ideologico nel quale riaffermare l'umanità pur
attraverso il cinismo, la spietatezza, lo strazio.
(Stilos quindicinale di cultura del
quotidiano La Sicilia, 8 gennaio
2002)