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“… ho costruito una
macchina che è in sostanza una turbina a vapore, e il “motore
meraviglioso” che non è altro che una testa di metallo con il busto
empito d’acqua, posto sopra carboni ardenti, che non possa esalare in
altro luogo che dalla bocca… “ |
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Siamo a
Pesaro, nel 1626, e il fisico Giovanni Branca (1571-1645), presenta con
queste parole una curiosa invenzione che ingenerò nei suoi contemporanei
un successo che si può dire di curiosità, una sorta di giochetto senza il
quale ben difficilmente, duecento anni dopo, si sarebbero poste le basi
della trazione meccanica a vapore da applicarsi alla ferrovia. Il fisico
pesarese fu il primo ricercatore che pensò di applicare la straordinaria
forza del vapore quale generatore di movimento, e per dimostrarne la
possibilità realizzò un bizzarro congegno costituito da un busto umano
metallico cavo, colmo d’acqua e posto su un fuoco vivace: attraverso
l’unica apertura, un tubicino che si estende di pochi centimetri dalla
bocca, il vapore prodotto dall’ebollizione dell’acqua fuoriesce con forza
e imprime un movimento vorticoso e costante ad una ruota a palette
sistemata orizzontalmente su un trespolo, alla stessa altezza del tubicino
ed ad una conveniente distanza dallo stesso. |
La dimostrazione del
principio arrivò, tuttavia, in un epoca culturalmente impreparata non
soltanto al mezzo meccanico ma anche al principio dei servizi di trasporto
collettivi, se è vero che il sistema troverà una prima affermazione
soltanto nel 1828 a Parigi, ovvero nella stessa città che aveva istituito
un primitivo servizio di omnibus addirittura nel 1665 su proposta di
Biagio Pascal, ma l’esperienza di Branca aprì la strada a tutta una serie
di progressi che, come si è detto, avrebbero posto le basi che portarono
alla grande intuizione di Gorge Stephenson, colui che viene definito come
l’inventore della locomotiva ma che nella realtà diede soltanto seguito
alla convinzione che la macchina a vapore avrebbe potuto valicare gli
stessi confini del mondo. |
Soltanto pochi anni dopo, siamo nel 1680, un altro inventore, il francese Dionigi Papin (1647-1714), riuscì ad “imbottigliare” il vapore in
un recipiente metallico di sua invenzione, la famosa “pentola di Papin”
che può essere considerata come un antesignana della moderna pentola a
pressione. Partendo dall’esperienza di Branca il francese ideò una
macchina a vapore nel vero senso della parola, dal momento che la sua
pentola presentava alla sommità uno stantuffo meccanico per certi versi
simile a quello che sarà in seguito applicato alla locomotiva: la forza
del vapore, che scaturiva verso l’alto, azionando il meccanismo consentì
al suo inventore di utilizzare in vari modi il moto alternato dello
stantuffo, tra l’altro realizzando il primo battello a vapore che abbia
solcato le acque di un fiume sul principio che avrebbe trovato di li a
poco vastissime applicazioni in tutto il mondo. |
I due esperimenti di Branca e Papin, entrambi morti lasciando in eredità
al mondo decine di esperienze in parte incompiute, concedono l’onore del
primissimo esperimento di locomotore meccanico azionato dalla forza del
vapore a un altro francese, il capitano e ingegnere Nicola Cugnot
(1725-1804), che pensò di applicare il principio della pentola di Papin ad
un comune carro a ruote normalmente trainato dai cavalli. Nelle intenzioni
di Cugnot si ravvisa quello che sarà poi il principio dell’automobile, dal
momento che il carro si muove sulla sede stradale a mezzo di una grossa
caldaia che aziona le ruote e “spinge” questo primitivo mezzo alla “folle”
velocità di 40 Km orari lungo un breve tragitto, fino a sfasciarsi contro
un muro che non riesce a scansare, e proprio questo fallimento –
costituito dalla difficile maneggevolezza – se da una parte convince
l’inventore ad abbandonare la ricerca consente, dall’altra, ad un
ingegnere inglese di applicare finalmente le straordinarie potenzialità
offerte dalla trazione meccanica a vapore alle rotaie. |
L’ingegner Richard Trevithick (1771-1833), partì inizialmente
dall’esperienza di Cugnot, ovvero realizzando una macchina a vapore
costituita da una caldaia sistemata su un carro capace di procedere lungo
la strada, ma quest’ultimo (siamo ormai nel 1802), non è una fragile
struttura in legno, bensì una infrastruttura in gran parte metallica,
azionata da tutta una serie di stantuffi, manovelle e ingranaggi che
distribuiscono il movimento similmente al meccanismo di un orologio. La
macchina presenta quelle stesse caratteristiche della locomotiva quale la
conosciamo oggi, ovvero sparge tutt’intorno fuoco e fumo, ed oltre a
questo pare facesse anche un baccano infernale, ciò che spinse le autorità
a imporre la sospensione di quell’esperimento. Condannato dal tribunale
per disturbo della quiete pubblica ed al risarcimento di una cospicua
somma per danni morali e materiali, il Trevithick pensò di abbandonare la
sua ricerca ed in effetti dei suoi esperimenti non si parla più per circa
un anno. |
Nel 1803, superato lo scoraggiamento per quell’iniziale incomprensione,
troviamo il nostro ingegnere nuovamente impegnato nella sua ricerca,
stavolta, però, in un campo di prova recintato e lontano dalle case. La
sua macchina si è nel frattempo perfezionata nell’impianto ed anche la
manovra è diventata meno difficile, ma quello che più conta e che nella
mente di Trevithick, probabilmente per le solite difficoltà legate alla
guida del mezzo, si affaccia l’idea di vincolare il moto della sua
macchina ad un tracciato fisso secondo il principio che aveva visto
utilizzato in alcune miniere dove aveva lavorato precedentemente. |
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Già, perché se la macchina a vapore capace di muoversi senza la trazione
animale si affaccia timidamente, ed in forma ancora primitiva, a cavallo
tra il XVIII e il XIX secolo, il principio della guida vincolata ad un
binario viene utilizzato dall’uomo fin dall’antichità ed in varie forme.
Lontana che era nel tempo l’applicazione dell’asfaltatura la superficie di
rotolamento della strade era quella delle moderne mulattiere, non di rado
con caratteristiche piano-altimetriche proibitive, e sembra che già gli
antichi egizi utilizzassero nelle miniere dei carrelli che venivano
sospinti dagli schiavi su primitive rotaie realizzate non in metallo ma in
vari altri materiali, non ultimo la pietra. L’applicazione di rotaie in
ghisa o in ferro, tenute insieme da traverse in vari materiali e sulle
quali i carrelli di trasporto si muovevano più agilmente ed in maniera
stabile, era cosa comune ai tempi in cui il Trevithick sbarcava il lunario
facendo il minatore, cosicché il geniale inventore pensò di “armare” un
breve tratto di binario nel suo campo di manovra, adattando nel contempo
le ruote della macchina alla nuova superficie di rotolamento. |
Il risultato dovette essere ben più che soddisfacente dal momento che una
compagnia mineraria inglese invitò l’inventore a fabbricare una macchina
che fosse in grado di trasportare il carbone al di fuori della miniera, ed
in effetti il suo veicolo meccanico è diventato più veloce, ha acquistato
stabilità e, soprattutto, risolve il problema delle difficoltà legate alla
manovrabilità con la guida vincolata del binario, cosicché diviene
superflua l’applicazione di un pur rudimentale sterzo che trovò una
difficoltà allora quasi insormontabile nella trasmissione del movimento
alle ruote. Come che sia nel 1803, e per la prima volta al mondo, un
carico di materiali viene spostato da una forza che non è quella animale,
e la macchina doveva essere già allora abbastanza potente dal momento che
i vagoncini diventarono via via sempre di più, aumentando
contemporaneamente il peso complessivo del convoglio e lo sforzo di
trazione della (possiamo ormai chiamarla così), locomotiva. |
Mancava a questo punto l’ultima intuizione, ovvero la possibilità di
ferrare una vera e propria strada non in uscita da una miniera, bensì
capace di congiungere due punti di particolare interesse a prescindere
dalla distanza intercorrente tra questi, ed è quella che animò
l’entusiasmo di un minatore ivi impiegato, quel George Stephenson
(1781-1848), la cui lungimiranza lo portò a credere che quella macchina
sbuffante, ancora goffa nella sua primitiva versione, avrebbe un domani
potuto valicare i monti e solcare le valli, trasportando le persone e le
merci ovunque ce ne fosse stato bisogno. Era un intuizione per quei tempi
particolarmente ardita dal momento che l’iniziale impreparazione al nuovo
mezzo rendeva scettici gli ingegneri relativamente all’aderenza tra le
superfici lisce della ruota e della rotaia, entrambe metalliche (ma con
troppo ardite soluzioni sarebbero state superate ben altre pendenze che i
pochi millimetri per metro già allora indicati come limite insuperabile). |
Le effettive realizzazioni dello Stephenson, tuttavia, arrivarono alcuni
anni più tardi, e per tutta una serie di buoni motivi. Anzitutto egli si
costruì un esperienza sempre più preziosa nel campo della trazione
meccanica a vapore finchè nel 1813, diventato nel frattempo un operaio
specializzato nella riparazione delle locomotive di allora, iniziò la sua
attività aprendo una propria officina di costruzioni meccaniche dove la
macchina ideata da Trevithick sarebbe diventata sempre più stabile e
veloce, ma la perfetta conoscenza del sistema di trazione e della macchina
che lo sfruttava erano, da sole, insufficienti al perseguimento di
obiettivi tanto ambiziosi. Mancava un apporto scientifico, una base che lo
Stephenson non possedeva, e fu così che a prezzo di grandi sacrifici
(allora tanto più grandi di quelli richiesti oggi), avviò suo figlio
Roberth (1803-1859), alla carriera universitaria, in modo da averlo
accanto nel ruolo prezioso di consulente e collaboratore. Roberth divenne
così il primo ingegnere ferroviario della storia e dal binomio
scienza-esperienza prese il via la grande rivoluzione industriale che la
ferrovia rappresentò nel XIX secolo. |
Una rivoluzione partita dall’idea che per rendere più veloce la primitiva
macchina a vapore che facilitava il lavoro delle miniere non era
necessario progettare e realizzare i più strani adattamenti del binario
come pure – e parecchi anni dopo – si sarebbe fatto in Francia, laddove fu
imposta una rotaia centrale sulla quale sarebbe andata a poggiarsi una
ruota supplementare di sostegno (1), bensì adottare un
accorgimento infinitamente più semplice quale l’aggravamento del peso
della macchina sulle ruote motrici. A questa prima idea si affiancò quella
di distribuire equamente il moto tra queste ultime e le ruote portanti,
quelle che servivano soltanto di sostegno alla macchina, attraverso quello
stesso sistema di biellismi caratteristico della locomotiva a vapore nella
tipica forma che conosciamo e per certi versi simile, come già si è detto,
al meccanismo che il Papin aveva montato sulla sua pentola e utilizzato
per varie applicazioni dal suo inventore. |
Nel giro di 12 anni, siamo nel 1825, i due Stephenson fecero muovere il
primo treno viaggiatori della storia, costituito da una locomotiva
rinnovata secondo i principi ora descritti e da sei piccoli vagoni nei
quali presero posto i viaggiatori, tra le città di Stockton e Darlington,
nel Newcastle, ad una velocità per quei tempi eccezionale di 25 Km/h; si
trattò di un esperimento che coronò il definitivo successo del trasporto
ferroviario ma come tutto quello che è nuovo anche il treno dovette
affrontare le battaglie di retroguardia di una sorta di ecologisti
ante-litteram, rappresentati nella fattispecie dai contadini dei territori
interessati da questo primissimo tracciato ferroviario. Sobillati dal
notabilato locale, preoccupato quest’ultimo dalle prospettive che il nuovo
mezzo apriva alle comunicazioni con ovvio annientamento dei servizi a
trazione animale, i coltivatori portarono la questione in tribunale,
preoccupati dal fumo che la macchina disperdeva nell’aria e dalle
scintille che si sprigionavano minacciose al suo passaggio. Certo per la
pressione dei grandi proprietari terrieri e degli imprenditori dei
trasporti i giudici pronunciarono una sentenza che dispose la chiusura ad
ogni tipo di esercizio di quel primo servizio ferroviario, poiché il fumo
avrebbe potuto compromettere la genuinità dei prodotti e le scintille
incendiare le coltivazioni. |
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Il convoglio
inaugurale della linea Liverpool-Manchester in una stampa dell'epoca |
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La strada era stata comunque intrapresa e fermare il progresso non era più
possibile. L’eco di quel primo esperimento ferroviario aveva fatto il giro
del Paese ed un gruppo di industriali bandisce nel 1829, ovvero solo
cinque anni dopo, un concorso pubblico per la costruzione e l’esercizio di
una linea ferroviaria tra Liverpool e la città industriale di Manchester,
dove aveva sede la principale produzione cotoniera britannica. Le
condizioni per l’aggiudicazione della gara erano già per quei tempi
particolarmente severe: la locomotiva non avrebbe dovuto pesare oltre le 6
tonnellate e il peso complessivo del materiale rimorchiato a pieno carico
le 20, tenuto conto anche della scorta di acqua e carbone necessaria al
funzionamento della locomotiva. Come pure è ovvio al bando di concorso
parteciparono moltissimi soggetti, tutti praticamente improvvisatisi
tecnici del nuovo sistema di trasporto, ma la vittoria degli Stephenson
era scontata soltanto perché erano allora gli unici in grado di
predisporre un progetto effettivamente realizzabile, e non soltanto
secondo le condizioni imposte: la locomotiva aveva nel frattempo subito
ulteriori miglioramenti, cominciando ad assumere anche un aspetto che
iniziava ad avvicinarsi a quello stereotipato cui siamo sempre stati
abituati anche per una nuova, e più funzionale, disposizione dei vari
componenti. |
“Il Razzo”, così fu battezzata la nuova macchina, trasportò il suo primo
carico tra le due città ad una media di 25 Km/h, ovvero la stessa velocità
raggiunta tra Stockton e Darlington, ma la sola motrice raggiunse e
oltrepassò addirittura i 40 Km/h, seppure soltanto in un lungo tratto
rettilineo e pianeggiante. Concepita essenzialmente per il trasporto delle
merci la nuova linea cominciò tuttavia a trasportare anche le persone nel
giro di brevissimo tempo e fu quindi, dopo il primo esperimento di cinque
anni addietro, la prima linea ferroviaria effettivamente aperta
all’esercizio merci e viaggiatori secondo una vocazione che non sarebbe
mai venuta meno fino ai nostri giorni. |
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Al suo esordio ed ancora per molti anni, però, la ferrovia è un
infrastruttura elementare, essenzialmente costituita da un unico binario
sul quale si attestano, alle estremità, due stazioni terminali altrettanto
semplici, al punto che neanche appare giusto definirle in tal guisa.
Relativamente semplice è il binario, costituito da rotaie di ghisa o di
ferro con un peso non superiore ai 30 Kg per metro lineare, l’equidistanza
delle quali è assicurata da semplici pietre ovviamente più larghe e unite
alle rotaie a mezzo di una sorta di dadi in ghisa. Il basso peso delle
rotaie è paragonabile a quello della Decauville, che è una ferrovia di
tipo trasportabile che si può impiantare e rimuovere per esigenze
momentanee (2), ma al momento non crea particolari
problemi non essendosi ancora posto il problema di aumentare ulteriormente
il peso del materiale di trazione sugli assi motori: il rapporto tra
quest’ultimo valore e lo sforzo di trazione esercitabile non è ancora
stato stabilito, né ancora si sa con esattezza quale rapporto di valore
debba esistere tra la robustezza dell’armamento (e quindi il peso delle
rotaie), e il peso che va a gravare sugli assi motori. |
Le stazioni, dal canto loro, non presentano alcuno degli elementi cui
siamo normalmente abituati. Ancora inesistenti i sistemi di segnalamento i
piazzali sono costituiti da una serie di binari in fila uniti non da
comuni scambi, ma da una sorta di piattaforma mobile che si muove
trasversalmente agli stessi trasportando un singolo rotabile da un
convoglio (o da un binario di corsa), all’altro a seconda delle poche
esigenze di movimento dell’epoca. Ciò avviene principalmente in un Italia
che è ancora un espressione geografica, suddivisa in una miriade di
piccole realtà nazionali perennemente in conflitto tra loro ed oltretutto
particolarmente dispotiche nel rapporto tra lo Stato e i cittadini. Tra
l’altro nel nostro Paese le poche ed isolate ferrovie che si costruiscono
almeno fino al 1861, anno dell’unità d’Italia, nascono per le sole
esigenze vacanziere dei sovrani. |
Le prime due linee attivate in un Italia che ancora non esiste sono la
Napoli-Portici (Regno delle Due Sicilie), e la Milano-Monza (Regno
Lombardo-Veneto), a collegamento non di località particolarmente
strategiche per il trasporto delle merci ma con le residenze estive di
questi monarchi assoluti, ed anche le successive realizzazioni non si
discostano da questa tendenza dal momento che la prima linea ferroviaria
aperta all’esercizio nel Lazio (allora ancora Stato Pontificio), fu la
Roma-Ciampino-Frascati, a collegamento con una cittadina dove sorgevano
numerose ville appartenenti al clero e alla nobiltà della Capitale. Se nel
resto dell’Europa la ferrovia cominciava ad assumere un carattere
progressivamente sempre più complesso da noi i pochi tronchi via via
realizzati vengono progettati con una visuale limitata al territorio dello
Stato e certo nessuno pensa ad un opera di cucitura di queste linee
isolate, una sorta di collegamenti internazionali di primitiva concezione,
per il venir meno delle possibilità di controllo sugli spostamenti delle
persone. |
Si tenga nel debito conto che all’epoca in cui la ferrovia fa il suo
apparire in Italia (la Napoli-Portici viene attivata il 3 ottobre del
1839), esistono già fortissimi movimenti insurrezionali tesi al
raggiungimento dell’unificazione nazionale, e curiosamente neanche i
militanti di questi moti guardano alla ferrovia come ad uno strumento
capace di varcare i confini dei piccoli Stati per unire gli italiani che
non hanno ancora una Patria. |
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Il treno inaugurale
della Napoli-Portici nella ricostruzione del 1939, per celebrare il
centenario della prima linea ferroviaria Nazionale. |
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Tra il 1839 e il 1861 vengono aperte all’esercizio in Italia 10 linee
ferroviarie le quali, con l’eccezione della Piacenza-Bologna (146,7 Km),
della Rimini-Ancona (92,9) e della Pordenone-Treviso (56,8), non superano
i 28,6 Km della Padova-Mestre e si mantengono tra gli 8,8 della Napoli-Portici
e i 20,4 della Roma-Frascati. Se si tiene conto che le tre linee più
lunghe sono attivate dopo il 1855 questi valori danno un idea della
limitata visione che si ha dell’infrastruttura ferroviaria, non soltanto
limitata agli interessi nazionali ma anche vocata al solo trasporto delle
merci. Per di più, non ultima ragione, al fine di impedire l’allacciamento
dei vari tronchi, non poche linee vengono realizzate con valori di
scartamento (ovvero la distanza che intercorre tra le rotaie), diversi
anche di pochi cm, lontana ancora essendo l’idea di una unificazione dei
criteri di costruzione e secondo una logica che sarà dura a morire in
Italia, manifestandosi indiscriminatamente almeno fino alla seconda metà
degli anni ’30 del XX secolo. |
A proposito della vocazione al trasporto delle merci, poi, probabilmente
sorprenderà più di un lettore il sapere che nei suoi primi anni la
ferrovia vede correre lungo i propri binari ben poche carrozze adibite al
trasporto delle persone. I treni rappresentano una rivoluzione industriale
nel vero senso della parola, dal momento che la macchina a vapore viene
progressivamente utilizzata non soltanto per il movimento ma anche in sede
fissa, in luogo dell’energia eolica e/o idraulica. Da un giorno all’altro
le fabbriche possono trovare sede ovunque se ne trovi un effettiva
convenienza e non soltanto lungo il corso dei fiumi, e questa possibilità
ne consente l’edificazione in razionale corrispondenza con i primitivi
tracciati ferroviari, i quali – come si è detto - sono tendenzialmente
rettilinei ed anch’essi impiantati secondo un tracciato che eviti tratti
in pendenza o iscrizioni in curva. Si affaccia timidamente sulla scena
l’esigenza di una pianificazione nello sfruttamento del territorio secondo
la logica di quei progetti più complessi e curati che saranno
successivamente identificati con la denominazione di “Piano Regolatore”. |
Il nuovo mezzo di trasporto consente la nascita di primitive zone
industriali dove si raggruppano fabbriche, magazzini e quant’altro, un
facile reperimento di manodopera oltre quella del posto ma anche, e
soprattutto, il duplice – e più facile – trasporto di generi di prima
necessità per le esigenze della popolazione locale e di prodotti finiti da
destinarsi alla spedizione e alla vendita. Vedremo in seguito i
significativi progressi che la ferrovia andrà assumendo proprio nella
movimentazione delle merci, la mobilità delle persone essendo un fenomeno
ancora di là a manifestarsi in proporzioni massicce o, peggio ancora,
pendolari (ma anche questa scarsità di traffico viaggiatori consentirà
significativi progressi), ma già dai primissimi anni di attività
ferroviaria nella solita Italia che ancora non esiste come realtà
nazionale troviamo chi prova a guardare oltre quelle prime applicazioni,
chi cerca di immaginare a quali straordinari progressi potrebbe andare
incontro il servizio ferroviario. Si comprende da subito che i treni non
potranno arrivare ovunque lo si chieda e non soltanto per le
caratteristiche del territorio; l’esercizio è già all’epoca costoso (anche
più dell’attuale), e c’è chi si rende conto che le rotaie non potranno mai
arrivare laddove l’entità di traffico, presente o futura, non giustifica i
costi di realizzazione e di esercizio. Già nel 1841, ad appena due anni
dall’attivazione della linea Napoli-Portici, un tale Luigi De Cristoforis,
milanese, prospetta l’idea di sostituire la macchina a vapore a seguito de
“il bisogno già da molti sentito di una potenza motrice godente di
requisiti per ora inconciliabili colle macchine a vapore”, in modo “di
prestarsi utilmente per le piccole occorrenze e per le grandi”.
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L’idea del De Cristoforis anticipa di moltissimi anni il motore a
combustione interna ma è il segnale che la via del progresso nei trasporti
si sta già indirizzando verso ricerche di altro tipo. Si pensa da subito
alla necessità di collegare le stazioni coi centri abitati più lontani,
specie quelli arroccati sulle montagne dove la ferrovia ancora oggi non
arriva e non potrà mai arrivare, un mezzo alternativo che sia di
completamento al servizio offerto dal treno ma del quale non si ha ancora
un idea precisa. Abbiamo visto poc’anzi che i primi tentativi di far
muovere un mezzo stradale con la forza del vapore erano andati incontro al
fallimento per diversi motivi, dalla scarsa maneggevolezza alla presenza
di strade che a malapena consentono la circolazione dei veicoli a trazione
animale, ma è anche lo stesso sistema di trazione a creare dei problemi su
una sede che non è quella della rotaie: una macchina a vapore richiede
lunghi tempi di (usiamo impropriamente un termine moderno), “accensione”,
dai 30 ai 120 minuti a seconda della grandezza della macchina e che è il
tempo occorrente a far si che l’acqua arrivi alla piena ebollizione, e già
si pensa alla possibilità “di potersi animare la forza istantaneamente”
attraverso una propulsione più potente, capace di affrontare le sedi
stradali di allora anche, e soprattutto, nei tratti in pendenza. |
Diciassette anni dopo viene brevettato un motore che sfrutta la forza
della detonazione di un fluido infiammabile, realizzato dagli ingegneri
Barsanti e Matteucci dopo anni di esperimenti, ma la strada verso la
motorizzazione era ancora lunga. |
Il vapore, però, era proficuamente utilizzato già da un decennio prima
della Napoli-Portici per la navigazione lungo il Po e sui laghi lombardi.
Il primo battello con questo tipo di propulsione era stato addirittura
realizzato dal già ricordato Giovanni Papin, e fu una delle applicazioni
del moto alternato che riusciva ad ottenere dalla sua pentola. I trasporti
per vie d’acqua erano esercitati con battelli di modeste dimensioni
azionati dalle classiche ruote laterali, ed anche all’apparire della
ferrovia – ed ancora per molti anni a seguire – rappresenteranno l’unica
valida alternativa al treno. Il corso dei fiumi era addirittura sfruttato
dall’antichità a mezzo di grossi barconi o di chiatte che si muovevano
controcorrente a mezzo del traino di muli o cavalli che camminavano su
entrambe le rive in gruppi di quattro o più. |
Le buone intenzioni relativamente all’uso della ferrovia, insomma,
andranno ad infrangersi contro l’impossibilità di poter ottenere un valido
mezzo terrestre che rappresenti un alternativa, e questo ancora per molti
anni a venire, perché se il primo motore a benzina viene sperimentato con
successo già nel 1889 su quello che sarà il primo veicolo stradale di
questo tipo, nella realtà dei fatti sarà soltanto il progresso nel campo
dei pneumatici e delle sospensioni che conferirà al veicolo su gomma
prestazioni capaci addirittura di attentare allo strapotere del trasporto
su ferro (e questo non prima del 1925), anche se alla benzina (e poi al
gasolio), si tenderà dapprincipio all’applicazione della trazione
elettrica in quello che sarà il filobus. |
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Ancora per parecchi anni, dunque, sarà la ferrovia a rappresentare l’unico
valido mezzo di trasporto in grado di aprire la via del progresso e della
comunicazione (qui intesa anche nello scambio culturale tra le varie
popolazioni italiane), ed è a quest’ultima che vengono richieste
prestazioni sempre più rispondenti alle aspirazioni e ai bisogni di una
Patria ormai avviata all’unificazione dalle Alpi alla Sicilia.
L’inesistenza di valide alternative sarà all’origine di un abuso
dell’infrastruttura ferroviaria, specie quando al treno vero e proprio si
affiancherà il tram, ed anche le ferrovie cominceranno a distinguersi in
“principali”, “complementari”, “secondarie” ed “economiche” e diventeranno
più veloci (e più costose), con l’apparire della trazione elettrica. |
Eravamo tuttavia rimasti, dopo questa non inutile divagazione,
all’apparire dei primissimi tronchi ferroviari e alla semplicità
intrinseca che li caratterizzava. Se per le stazioni i primi testi
relativi alla costruzione secondo concetti più moderni non appaiono prima
del 1854, i tracciati e i sistemi di circolazione iniziano ad evolversi
con maggiore rapidità per la convenienza che se ne ravvisa nella
movimentazione delle merci. |
Significativo il sistema di esercizio adottato già sulla seconda linea
ferroviaria italiana, la Milano-Monza, laddove è ammesso alla circolazione
un solo treno alla volta lungo un tracciato perfettamente rettilineo, a
binario unico e privo di raddoppi intermedi. Da una delle due stazioni non
viene data via libera ad un convoglio se prima non è giunto quello
proveniente dall’altra, e lungo la stessa linea si trova un primitivo
sistema di segnalazione che vigila sulla regolare circolazione di quell’unico
convoglio: la linea è suddivisa in una sorta di sezioni di blocco di circa
2 Km lungo le quali la corsa del treno viene seguita a vista da alcuni
addetti che utilizzano bandiere e lanterne per scambiarsi informazioni
relativamente alla corsa e ad eventuali inconvenienti, addetti che si
trovano in cima a delle torrette a conveniente altezza dal suolo. Questo
sistema è antesignano dei moderni sistemi di segnalazione a luci di
colore, dove una stessa sezione della linea è vigilata da un sistema
elettronico ed un segnale rimane rosso se il treno appena passato (per
qualunque motivo), si arresta e continua ad occupare il tratto che quello
stesso segnale sovrintende. |
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Manifesto pubblicitario della seconda linea ferroviaria italiana, la
Milano-Monza. Il tracciato rettilineo, le torri di osservazione, il
materiale rotabile. Non ci è pervenuta alcuna notizia circa i criteri
utilizzati dagli addetti per la segnalazione. |
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Del 1847 è la prima applicazione del telegrafo, anche se l’introduzione
dell’alfabeto Morse avviene soltanto nel 1852, cosicché sulla Pisa-Livorno
la partenza dei treni e la loro circolazione è regolata secondo un sistema
di consensi tra le stazioni di testa ed anche (perché cominciano ad
apparire in tempi abbastanza brevi), tra quelle intermedie. |
Intanto si concretizzano altre importanti novità, la prima delle quali è
l’introduzione dello scambio, che consente il trasferimento da un binario
all’altro di un intero convoglio a prescindere dalla lunghezza, e lo
sviluppo dei sistemi di rimessaggio. Quest’ultimo trovò una forte spinta
da quella iniziale vocazione al trasporto delle merci cui si è accennato,
che imponeva lunghi e convenienti ricoveri del poco materiale passeggeri
allora esistente e che veniva poco o nulla utilizzato. Scomparsi
l’iniziale curiosità e l’entusiasmo per questo nuovo sistema di trasporto,
infatti, le popolazioni interessate continuavano perlopiù a vivere secondo
consuetudini secolari, poco o nulla interessandosi alla conoscenza del
mondo: si ha notizia di carrozze viaggiatori rimaste inattive anche per
mesi e mesi, e a questo materiale occorreva trovare un ricovero
conveniente, sicuramente al coperto, dove poter accantonare anche le
locomotive per le normali operazioni di pulizia e manutenzione. Già dal
1840 funziona l’impianto di Pietrarsa (Napoli), dove oggi ha sede il museo
ferroviario nazionale, autorizzato dal Re Ferdinando II alla costruzione
di locomotive con un Decreto del 1843, e alcuni anni dopo iniziano la
propria attività le officine di Torino Porta Nuova (1848), e Porta Susa
(1854), impianti destinati principalmente a far si che venga sempre meno
la nostra dipendenza dal mercato estero per quanto riguarda la fornitura
di adeguato materiale rotabile ma che vengono da subito utilizzati per la
piccola e grande manutenzione, oltre che per il semplice rimessaggio.
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A questo tipo di impianti, che vengono raccordati al piazzale e ai binari
di corsa e di sosta, si affianca una netta distinzione dei fabbricati di
stazione tra quelli da destinarsi al servizio e quelli per l’accoglienza e
il transito dei viaggiatori. La stazione quale la conosciamo oggi comincia
a prendere corpo, e si cura in modo particolare l’edilizia di servizio.
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Pur lontane ancora tante conquiste sindacali relativamente alle
caratteristiche e alla durata dei turni, nonché sullla qualità e la
sicurezza del lavoro, ci si preoccupa di garantire un alloggio al
personale che viene impiegato direttamente al funzionamento delle linee: “si
consideri per esempio un macchinista o un fochista che giungano dopo un
viaggio di tre o quattro ore sotto la neve”, recita una proposta in
tal senso, “se avranno una stanza dove cambiarsi ed un buon fuoco dove
ristorarsi dei disagi sofferti, pronti e volenterosi ritorneranno in
servizio”. (3) Anche i fabbricati viaggiatori,
tuttavia, prendono corpo con la distinzione dei locali nelle sale
d’aspetto di prima, seconda e terza classe, la biglietteria, i servizi
igienici, ma l’evoluzione di questi ultimi e più lenta, si manifesta con
forza quando le stesse stazioni cominceranno ad affrontare livelli di
traffico sempre più alti. Inizialmente i binari sono suddivisi tra quelli
di partenza e quelli di arrivo ed i pochissimi treni possono essere
istradati, scomposti e indirizzati con estrema tranquillità, senza quello
sfruttamento intensivo degli impianti che farà non soltanto venire meno
qualsivoglia distinzione ma renderà spesso necessario far condividere
anche a due treni in arrivo lo stesso binario. |
Parimenti all’apertura di sempre nuovi tronchi si inizia a far condividere
agli stessi una parte comune della percorrenza o a farli incrociare in un
punto strategico attraverso quelle stazioni intermedie che iniziano a
prendere una forma diversa dalla stazione di testa, che nello stesso
periodo comincia ad essere definita centrale per il comune attestamento di
più relazioni. Avviene pertanto che nelle grandi città le primitive
stazioni di partenza delle linee fino al momento aperte all’esercizio
diventano intermedie per la cucitura dei vari tronchi verso un'unica
destinazione. Non poche stazioni intermedie, nel contempo, assumono un
ruolo sempre più importante per l’incrociarsi di più relazioni e lo
smistamento dei convogli a seconda delle destinazioni. |
Anche il materiale rotabile comincia ad assumere una forma che si avvicina
sempre di più a quella che conosciamo, a partire dalla locomotiva. Se già
nel 1854 compaiono le prime locomotive di costruzione completamente
italiana prodotte dall’Ansaldo di Genova (fondata l’anno prima per volontà
di Cavour), dal 1857 queste cominciano ad assumere una forma sempre più
moderna, mentre gli studi relativi alle varie problematiche che pone
l’esercizio ferroviario – a partire da quell’autentico incubo che fu per
molti anni il superamento dei tratti in pendenza – comincia a far uscire
dalle fabbriche macchine sempre più complesse, non di rado prototipi
sperimentali cui non segue una produzione in serie. Per quanto riguarda il
materiale rimorchiato, per contro, le carrozze passeggeri continueranno a
somigliare ancora per molti anni a una sorta di giocattolini di latta;
tutte a due assi presentano tre porte per ogni lato e nove finestrini, tre
dei quali in corrispondenza degli accessi, sotto i quali appare un gradino
cui si arriva a mezzo di una pedana continua, che si estende per tutta la
lunghezza della carrozza (uno schema che in Italia conserveremo per molti
anni con le gloriose carrozze “centoporte” di terza classe, solo più
lunghe delle antenate e dotate di car relli in luogo del rodiggio a due
assi). |
Il parco delle carrozze merci, infine, è composto essenzialmente da carri
di tipo chiuso e pianali: questi ultimi furono impiegati per lungo tempo,
fin dagli esordi dalla ferrovia, per lo scarso traffico viaggiatori
esistente attraverso il trasporto delle carrozze stradali. |
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A vent’anni dall’inaugurazione della Napoli-Portici il sistema ferroviario
italiano è già parecchio sviluppato, sono in esercizio anche tratti di
linea che assumeranno un ruolo fondamentale nella formazione della rete
nazionale come le due relazioni che collegano Milano con Torino e Venezia,
la Piacenza-Bologna (che diventerà parte del lungo itinerario Roma-Milano,
fondamentale prima dell’apertura della direttissima Roma-Firenze), la
Pisa-Livorno e la Padova-Mestre. E’ tuttavia in costruzione anche la linea
Torino-Genova, lungo la quale si affronterà per la prima volta (siamo nel
1853), il grave problema dei tratti in pendenza. |
Questa linea presentava grosse difficoltà nelle zone del Dusino e dei
Giovi, dove la pendenza da superare era del 35 per mille (ovvero 3,5 cm
per metro), un valore il cui superamento può destare perplessità perfino
ai giorni nostri, quindi figuriamoci quali difficoltà si affrontarono in
quel 1850 in cui erano in corso i lavori lungo le famose rampe dei Giovi.
Queste ultime furono visitate addirittura da Roberth Stepehenson, secondo
il quale non esistevano all’epoca macchine in grado di affrontare una tale
salita e propone di utilizzare un sistema di trazione a fune, azionato da
una macchina a vapore a monte della linea, similmente ad un sistema allora
in voga oltremanica ad imitazione di quella che sarà in seguito la
funicolare. L’esperienza degli esperimenti ivi condotti, cui non sarà
inutile accennare, determinò in seguito un indirizzo in parte diverso alla
costruzione di quelle linee che dovevano affrontare impervi tratti di
montagna o comunque tratti in forte pendenza. |
Per l’esercizio di questa linea furono ideate delle locomotive che la
storia ricorda, non a torto, col nome di “mastodonti del Giovi”, capaci di
una potenza di 500 cavalli contro i circa 200 fino ad allora raggiunti.
Gli assi di queste macchine sono tutti motori e tutti accoppiati per mezzo
di un sistema di biellismi piuttosto complessi; volendo scendere nei
particolari, poi, si tratta in realtà di due macchine accoppiate, ognuna a
due assi motori, che richiedono – oltre al macchinista – la presenza di
ben due fochisti, e da questa unione nacque una potenza di trazione capace
di trasportare un peso complessivo di oltre 150 tonnellate ad una velocità
di circa 12 Km nel tratto in estrema pendenza, di una lunghezza non
indifferente. Un altro esperimento è quello del sistema cosiddetto “ad
aderenza artificiale”, altrimenti conosciuto come sistema “Fell” (dal nome
del suo inventore): in questo tipo di ferrovia l’aderenza della motrice
andrebbe più propriamente definita come “forzata” e si ottiene attraverso
due ruote supplementari motrici, sistemate orizzontalmente, che vanno a
premere contro la facciata interna delle due rotaie esercitando una
pressione che può essere automatica, secondo lo sforzo di trazione
richiesto, o regolata direttamente dal macchinista. Una linea di questo
tipo fu costruita tra Susa e San Michel de Maurienne in Val Moriana, sui
versanti del Moncenisio opposti all’Italia, per una lunghezza di poco meno
di 80 Km, riducendo il viaggio a 5 ore (contro le 12 richieste dalla
carrozza), e potendo trasportare una cinquantina di persone o un peso
analogo di merci |
La ferrovia sistema Fell trovò applicazione anche a Roma, con materiali e
mezzi recuperati dallo smantellamento della ferrovia del Moncenisio, lungo
una linea di circa 3 Km realizzata con lo scartamento di 75 cm lungo la
via Trionfale, linea che però non svolse un servizio di tipo pubblico e
rimase di solo interesse militare. |
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Un immagine dei mastodonti del Giovi, nella quale si nota il complesso
dei biellismi che unisce i due assi entrambi motori. Queste macchine
veni vano accoppiate due a due ed erano capaci di esercitare uno
sforzo di trazione di ben 500 cavalli. |
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Un immagine della
ferrovia sperimentale sistema "Fell" impiantata dal genio militare
lungo la via Trionfale. In questa immagine ci troviamo gros somodo
all'altezza dell'attuale piazza Igea. |
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Entrambi i sistemi furono abbandonati all’apertura del traforo del Frejus
tra Bardonecchia e Modane, ma un ulteriore esperimento avrebbe di li a
poco trovato larghissima applicazione, e non soltanto in Italia. Il
principio è quello già esternato da Roberth Stephenson e fu realizzato
praticamente dall’Ing. Agudio sul tronco ferroviario di Villafranca (Dusino),
che ebbe comunque vita brevissima. Si trattò del primo esperimento
italiano di ferrovia funicolare, con motrice a vapore fissa sistemata a
monte della linea e con materiale rotabile trainato da una fune che fa
salire e scendere due vagoni. |
Poco più di dieci anni dopo, nel 1865, ad unificazione del Regno già
avvenuta, si inizia un opera di cucitura delle varie linee lungo
l’obiettivo di una rete ferroviaria nazionale, e il legislatore inizia
anche un opera di riordino che prevede la suddivisione delle linee in
quattro realtà aziendali (Ferrovie Alta Italia; Ferrovie Romane; Ferrovie
Meridionali; Ferrovie Calabro-Sicule), e la classificazione delle linee in
“principali”, “complementari”, e “secondarie”. A proposito di quest’ultima
definizione va detto che tra le secondarie di allora sono compresi alcuni
tronchi destinati a diventare fondamentali nella realizzazione di linee
tuttora a fortissimo traffico quali la Roma-Firenze (prima dell’apertura
della Direttissima), e la Roma-Napoli via Ceprano, ma la sua genericità
nasconde un'altra realtà che aveva negli anni cominciato a prendere piede
e che, in questa panoramica sulla nascita e lo sviluppo dei trasporti
terrestri, è il punto che maggiormente ci interessa. |
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(1)
L’idea della cremagliera, una rotaia dentata sulla quale va a sostenersi
una motrice attraverso una ruota supplementare, anch’essa dentata,
utilizzata per superare tratti in fortissima pendenza quando non appare
conveniente, tecnicamente o economicamente, la realizzazione di lunghe
varianti di tracciato, verrà in seguito applicata su larga scala nella
costruzione delle linee ferroviarie a scarso traffico e delle tranvie
extraurbane. |
(2)
L’esempio più classico di ferrovia decauville è rappresentato dai piccoli
trenini che scorazzano all’interno dei luna park itineranti, impianti
costituiti da rotaie e materiale rotabile particolarmente leggeri, che
possono essere smontati, trasportati e rimontati da un posto all’altro nel
giro di pochissimi giorni. |
(3)
Convenienti sistemi di ricovero pel personale” – Manoscritto anonimo e
senza data (Bibl.FS) |
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