<<In
questo scritto reso umile e quasi spaurito dal magma incandescente, dalla
vertigine della parola, lascerò il Poeta stesso a disvelarsi, tra
singulti, canti e infinito percorrere l’infinito, in un continuo contrappunto>>.
Dino
Campana nacque il 20 agosto 1885 a Marradi, un fazzoletto di terra in provincia
di Firenze, al confine con la Romagna, figlio di un maestro elementare.
Il
diritto di persona gli fu negato ben presto dall’incomprensione familiare,
dall’educazione repressiva del collegio - a cui seguì il liceo,
l'iscrizione alla facoltà di Chimica dell'Università di Bologna
per assecondare il padre, senza sostenere mai nessun esame, ostinandosi
invece a frequentare le lezioni di Lettere,
e
l'iscrizione a Firenze -, da un vizio di poeta che non si adatta alle regole
del mondo, che travolge ciò che incontra, come la piena di un fiume.
A
ventun anni, dietro iniziativa della famiglia, venne per la prima volta
ricoverato in manicomio, dal quale fuggì. Iniziò allora un
lungo vagabondaggio di luoghi e mestieri: fu in Svizzera e in Francia,
poi in Argentina, dove lavorò come bracciante; e ancora, negli anni,
Odessa, Anversa, Bruxelles e Parigi, mozzo, pompiere, venditore ambulante
e poliziotto. Di nuovo internato nel 1909, di nuovo in viaggio per l'Italia
di lì a poco, per seguire l' "ansia del segreto delle stelle, tutta
un chinarsi sull'abisso". Vagheggiò amori angelicati e si dannò
i sensi con le prostitute del porto di Genova. Compì un pellegrinaggio
a piedi da Marradi al santuario della Verna, dove Francesco d'Assisi aveva
ricevuto le stigmate. Tentò inutilmente di riprendere gli studi
universitari, sempre continuando a comporre liriche e poesie.
Nell'estate
del 1913, Campana lesse casualmente un numero di Lacerba, la rivista letteraria
delle avanguardie. Da sempre ostile alla società intellettuale,
ai "cari sciacalli dell'ambiente fiorentino", Campana rimase entusiasta
dei proclami futuristi della rivista, e fece avere ad Ardengo Soffici,
che la dirigeva insieme a Papini, il manoscritto di un suo poema intitolato
"Il giorno più lungo". Soffici non lo lesse mai e presto lo perse,
e Campana, che non ne aveva altre copie, attraversò mesi di buia
disperazione fino a che, nella primavera del 1914, iniziò a riscrivere
quelli che sarebbero diventati i Canti
Orfici, ricostruendo a memoria l'opera
perduta e utilizzandone solo alcuni appunti. Li pubblicò a sue spese
presso una piccola tipografia di Marradi, in mille copie, senza ricevere
quasi nessun riscontro critico.
Ripresero
i viaggi, a Torino e a Ginevra, intrecciati a una tempestosa relazione
con la poetessa Sibilla Aleramo, di quasi dieci anni più vecchia
di lui. La fine della loro storia (durata dal 1916 al 1918) precede di
pochi mesi il definitivo ricovero di Dino Campana nel manicomio di Castel
Pulci - nei pressi di Firenze - nel gennaio del 1918. Non ne uscì
più, fino alla morte avvenuta l'1 marzo 1932 in seguito a una malattia
mai ben chiarita.
Molti
dei suoi scritti uscirono postumi, dagli Inediti
al Taccuino
alle Lettere.
Il suo carteggio con Sibilla Aleramo è uno dei più dolorosamente
romantici del Novecento. Nel 1973, tra vecchie carte appartenute ad Ardengo
Soffici, venne ritrovato il famoso manoscritto andato perduto.
disegno
di Ottone Rosai
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foto
di Dino Campana
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Una
delle più belle poesie che Campana scrisse per Sibilla Aleramo:
Vi
amai per la città dove per sole
strade
si posa il passo illanguidito
dove
una pace tenera che piove
a
sera il cuore non sazio e non pentito
volge
a un’ambigua primavera in viole
lontane
sopra il cielo impallidito
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