RICORDARSI DI DIMENTICARE TUTTO
Il beniamino del pubblico nei panni del poeta Dino Campana,
nel film di Placido con Laura Morante

Intervista di Marco Spagnoli

"Un viaggio chiamato amore" segna il ritorno di Stefano Accorsi sul grande schermo dopo la breve pausa seguita al successo di "Santa Maradona". Il film è stato ispirato dal carteggio tra il poeta Dino Campana e la scrittrice Sibilla Aleramo (interpretata da Laura Morante) ed è stato diretto da Michele Placido, che ha scelto come protagonista Stefano Accorsi dopo averlo conosciuto e apprezzato nel lavoro sul set di "Un uomo perbene". Incentrato sulla vicenda umana e sentimentale dell’Aleramo, "Un viaggio chiamato amore" ripercorre un iter emotivo e spirituale attraverso un arco narrativo che va dall’adolescenza alla maturità, soffermandosi sul biennio a cavallo tra il 1916 e il 1918, in cui la poetessa conobbe ed amò Dino Campana. 

Cosa la ha spinta ad interpretare un ruolo lacerante e complesso come quello di Dino Campana?
Ero attratto dalla possibilità di dare vita ad un personaggio fortemente tormentato nel contesto di un copione molto bello. Il ruolo mi ha fortemente interessato soprattutto per la sua fragilità enorme. E’ un uomo che fa del male agli altri, ma senza la consapevolezza di volerlo fare davvero. Un giorno mi piacerebbe interpretare un cattivo per eccellenza, ma devo dire che questo mio desiderio non ha nulla a che vedere con Campana che è sì un personaggio con delle forti zone d’ombra, ma, alla fine risulta tutt’altro che negativo.

Qual è l’elemento che l’ha incuriosita di più della biografia di questo poeta?
Il suo essere contro tutto e contro tutti. E’ un elemento affascinante: soprattutto in questo momento in cui sono più attirato dagli antieroi che dagli eroi. Tutte istanze fortemente presenti nella sua poesia che, purtroppo, al liceo viene un po’ trascurata. 

Che tipo di inquietudini ha esplorato attraverso questo ruolo?
Molte che non conoscevo fino in fondo. Fornire di Campana un’immagine normale o ritrarlo come un pazzo sarebbe stato sbagliato o riduttivo. Volevamo renderlo in maniera enigmatica, rispettando il personaggio afflitto da un’enorme solitudine, sofferente per la sua grande fascinazione nei confronti del mondo da cui rimaneva emarginato – comunque – ad una distanza a dir poco “siderale”. E nonostante questa separazione apparente, era capace – attraverso la sua sensibilità - di cogliere elementi quasi impercettibili dell’universo che lo circondava. Era un uomo in gabbia che si sentiva libero fino a quando non toccava le sbarre della sua diversità. Non era una persona autonoma, dato che era incapace di sganciarsi dalla famiglia e – al tempo stesso – viveva nel disperato tentativo di provare in prima persona la teoria nietzschiana del super – uomo. Nel concreto, poi, l’elemento più devastante è stato quello della gelosia che lui ha conosciuto nello stesso momento in cui ha provato per la prima volta l’amore per l’Aleramo. Gelosia, possessività, violenza, paranoia alternate a slanci di generosità e perdono costituirono, dunque, le radici del suo quotidiano.

Che differenza c’è tra un ruolo di fantasia e uno ispirato ad una persona realmente vissuta? Come si coglie, in questo caso, la verità del personaggio?
C’è qualche problema dato dalla responsabilità: quando in "Ormai è fatta" ho interpretato Horst Fantazzini mi sentivo responsabile nei suoi confronti, così come quando ho conosciuto la famiglia e gli amici del Salgueiro Maya di "Capitani d’Aprile", avvertivo un peso in più rispetto al solito. Però, al tempo stesso, quando hai tanti elementi a tua disposizione ti senti aiutato e incoraggiato a capire di più. L’aspetto più difficile, però, è quello di dimenticarsi ciò che si è letto per farlo così realmente tuo. Quando si porta in scena una storia l’elemento vincente non è dato dalla somiglianza, bensì, dai rapporti emotivi con gli altri personaggi. Il  vero cinema è assai diverso da un quadretto ben fatto, corretto e verosimigliante, che, però, non offre emozioni. Michele Placido non ha voluto dare delle spiegazioni su Campana. Tutto si è rivelato più difficile, ma – alla fine – anche più interessante.

Il costume riesce a dare una dimensione emotiva e narrativa del personaggio?
In un certo senso sì, anche se devo dire che in fondo ogni personaggio è in costume: sia che si tratti di un abito settecentesco come quello di Casanova che un vestito moderno. E’ una specie di maschera che va riempita il più possibile, senza scadere nel rischio di non avere nulla oltre l’abbigliamento che ti colleghi ad una determinata realtà o epoca. Il costume non può essere sinonimo di paludata freddezza e distanza. 

Che tipo di richieste le ha fatto Michele Placido dal punto di vista recitativo?
Michele domanda una grandissima disponibilità emotiva, lavorando con le emozioni più nascoste. E’ un modo di lavorare molto affascinante che ti mette, però, spesso anche in crisi. Ti toglie il terreno da sotto i piedi.

Cosa pensa del fatto che tutti i film cui ha partecipato di recente siano stati dei grandi successi al botteghino? Ritiene di essere lei il marchio di garanzia del buon risultato di pubblico?
Non faccio il modesto, ma credo che esistano anche altre spiegazioni. Dopo il successo de "L’ultimo bacio" penso che il fatto di trovarmi anche ne "Le fate ignoranti" abbia aiutato in qualche maniera il film, aumentando la curiosità del pubblico. Lo stesso vale per "Santa Maradona". La mia presenza crea una certa curiosità, ma se questi film vanno bene lo devono a fattori complessivamente positivi. Non credo di potere determinare da solo il successo di un film. Ci vuole il film giusto. Forse, ho solo fatto delle buone scelte. 

Sta di fatto che lei non sembra avere cercato di replicare una formula di successo, scegliendo film molto diversi tra loro e – sulla carta – anche un po’ rischiosi…
Sì, perché mi annoia enormemente rivedermi in ruoli simili. Dopo il film con Muccino mi sono arrivate decine di proposte riguardo la possibilità di interpretare dei trentenni più o meno nella stessa situazione. E’ qualcosa che non mi interessa. Preferisco fare dei film che mi colpiscono quando li leggo con dei personaggi che mi affascinano. Se i ruoli che mi vengono offerti sono molto diversi tra loro, allora tanto meglio. Ripetermi non mi va affatto…

Quest’anno lei è finito sulle pagine dei giornali per la prima volta non per meriti artistici, bensì per questioni personali ovvero la fine del suo rapporto con Giovanna Mezzogiorno. Che effetto le ha fatto?
E’ stato molto strano vedere la propria vita privata raccontata sui giornali che leggo abitualmente e – soprattutto – scoprire che questioni mie private attirino tanto l’interesse della gente. E’ una cosa che mi ha fatto effetto, anche se non le ho dato troppo peso, perché – in quel momento – i miei problemi erano altri e – decisamente – più concreti. 

E’ contento di tornare a Venezia con "Un viaggio chiamato amore"?
Sì, perché Venezia è il Festival che preferisco. Con la sua aria più intima e rilassata rispetto a Cannes e – soprattutto – con i suoi spazi più circoscritti. E’ sempre una grande emozione, perché ha una bella atmosfera anche se non sempre è funzionale al cinema italiano. Sarà perché il primo film che ho girato "Fratelli e Sorelle" è andato al Lido, sono molto legato al Festival e a quella sua atmosfera settembrina che mi affascina molto. Amo il suo tono decadente e ho dei bei ricordi, nonostante le mazzate ricevute – ad esempio – per I piccoli maestri. Quelle fanno ancora male… 

(intervista pubblicata sulla rivista VIVILCINEMA n°4 luglio/agosto 2002)

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