(tratta dal sito www.primissima.it)

Un viaggio duro ed emozionante.
 

Intervista a Stefano Accorsi, protagonista di Un Viaggio chiamato amore in concorso a Venezia.
Da Jack Frusciante al ragazzo gay di Le fate ignoranti, passando per Freccia e il trentenne "mucciniano", ma anche, perché no, per il fortunato spot del Maxibon, Stefano Accorsi non ha sbagliato una mossa e la sua carriera sembra costruita con scienza, a tavolino.
 Non solo è un ottimo attore, forse il migliore della sua generazione, ma è anche molto bravo a scegliere i ruoli: "Il primo incontro con un personaggio è sempre istintivo. Certo, lavorare con un regista che stimo facilita la scelta, ma non è tutto. Il copione che leggo mi deve emozionare, tutto qui". Così, con molta schiettezza, Accorsi svela il segreto del suo successo che, come tutti i segreti, ha qualcosa di imponderabile e al tempo stesso è molto semplice. Ed è lecito sospettare che la sua carta vincente sia proprio questa: fare semplicemente cose anche molto difficili, come il ruolo di Dino Campana nel nuovo film di Michele Placido, Un viaggio chiamato amore. 
 -Calarsi nei panni di Dino Campana non deve essere stata un passeggiata, ci può raccontare come è andata?
"Inizialmente mi ero fatto una certa idea del personaggio. Volevo rendere le sue ambiguità, i suoi momenti di follia in modo molto normale, ma lavorando con Michele le cose sono cambiate.
E confrontando i rispettivi punti vista è emersa una linea d'interpretazione molto precisa e, credo, efficace: non voler svelare l'enigma di Campana, anzi metterlo in scena. Non svelare, ad esempio, dove finisse la genialità e dove invece iniziasse la pazzia. L'importante era non concentrarsi su un solo aspetto ad esempio la sua poesia o la sua fragilità psichica, ma rendere il tutto quasi fosse un gioco, anche con ironia. L'approccio ‘biografico’, lineare a un personaggio realmente esistito è sempre riduttivo". 

-Conosceva Campana prima di affrontare il film? 
"Sì, ma solo di nome. Poi ho letto tutto e, nonostante la preparazione, questo ruolo è stato una vera scommessa, forse il personaggio più difficile che ho interpretato fino ad oggi. Mi spiego, più di altri poteva uscire o non uscire affatto, era così ricco di sfumature che si rischiava di non trovare il giusto mezzo per esprimerle. Questo poi è uno di quei film in cui non è possibile avere le idee troppo chiare quando vai a girare una scena, anche perché è probabile che il regista la rivoluzioni, la cambi mentre si lavora e Placido in questo è un maestro". 

-Come è stato lavorare con lui? 
"Molto affascinante. Era da tempo che volevo farlo perché sapevo che era un'esperienza importante e formativa. Già guardando i suoi film ti accorgi che dietro c'è un lavoro di set molto particolare... ". 
 

- Ecco, ce lo racconti...
"Placido non cerca formule, non definisce i caratteri, non giudica mai, ma anzi mette in scena i difetti che lui chiama 'le fragilità' dei personaggi e degli attori. E' un percorso creativo seducente ed estremo. Devo dire che a fine giornata si torna a casa un po' provati, ma è una fatica che fa bene. Una cosa va detta: la sua critica, i suoi cambi di rotta non sono mai distruttivi. Mettendoti sempre in discussione riesci a tirare fuori cose che non credevi possibili e il set
diventa una continua sorpresa. Fare un film con lui è un viaggio, non un viaggio comodo ma davvero avventuroso". 

- Crede che questa "tattica" creativa abbia a che vedere con la sua esperienza d'attore? 
"No. Placido quando gira è più che mai regista. Credo invece che il suo continuo desiderio di andare oltre, di trovare un po' di vita nelle immagini sia un talento. Io non ho mai incontrato nessuno così... ". 

- Eppure lei ha lavorato con grandissimi registi... 
" Infatti, non ho detto che sia migliore o peggiore di altri, ho detto che questa è la sua maniera e non c'è nessuno che gli somiglia. Ognuno poi lavora a suo modo, ovviamente". 

-Ozpetek, Muccino, Moretti, come sono le rispettive "maniere"?
"Muccino è uno che ti sprona in continuazione. Io, scherzando, chiamavo il cast di L'ultimo bacio, il cast 'spronato'. Forse guardando il film non ci si rende conto di quanto il lavoro degli attori sia 'fisico', tutto giocato sul controllo dell'emotività. E Muccino era sempre lì a spingerci a questo confronto continuo con i propri mezzi espressivi. E' uno che va al sodo, al di là dell'estetica e questa è la sua caratteristica principale. Ferzan invece è molto tranquillo, pacato e ironico, e il suo segreto è la naturalezza: a fare le cose che lui vuole ci si arriva quasi senza accorgersene. Le faccio un esempio, la terrazza che si vede nel film era anche il luogo della vita di set. Noi abbiamo lavorato lì per giorni non vivendola mai come una location, non c'era, apparentemente, frattura fra lavoro e fiction. Una continuità misteriosa e bella. Ferzan mi ha molto aiutato ad affrontare il personaggio, perché all'inizio ero molto preoccupato, preoccupato per una sciocchezza: non credevo di essere in grado di affrontare un omosessuale. Mi spaventava. Ferzan lo ha capito e da subito ha fatto in modo che io evitassi di cadere nella trappola della macchietta. Credo che questa naturalezza si veda e che sia un pregio del film". 

-E Moretti?
"Posso dire che la mia scena era molto forte e arrivare a renderla in modo credibile e autentico non è stato semplice, credo per entrambi. Ma è stata una delle prove più belle della mia vita d'attore". 

-A proposito di Moretti, questa è la seconda volta che lavora con Laura Morante, come è andata?
"Ne La stanza del figlio ci siamo appena incontrati. Mentre in questo film ci sì è visti eccome. E' stata una sorpresa per me scoprire un’ attrice con tanta capacità d'analisi del personaggio. Mi ha aiutato il suo punto di vista sul film, parlare con lei. Anche perché il film è un film sulla passione tra i due, ma la protagonista è l'Aleramo". 

-L'Aleramo e Campana erano tra loro diversissimi, la loro passione era basata sulla diversità?
"No. Assolutamente no. Li univa invece, nonostante le molte differenze, un'idea assoluta dell'amore e la vita randagia. Una tensione all'assoluto che Sibilla ricercava in tutte le storie, nei molti incontri sentimantali che aveva avuto, mentre Campana se la ritrova all'improvviso tra le mani quando la incontra. L'Aleramo è stata l'unica donna della sua vita, l'unica che lo ha compreso, capito, seguito con leggerezza e coraggioso abbandono di sé". 

-Qual è la scena del film alla quale tiene di più?
"Quella del primo incontro. Perché è lì che prende corpo, per la prima volta, una delle caratteristiche narrative del film: il senso di predestinazione tra i due. Sanno già cosa accadrà. E questo nei rapporti passionali, quelli veri, è tutto. Perché, vede, questo film non racconta la storia di una scrittice e di un poeta vissuti in un determinato periodo storico. Questo film racconta qualcosa di universale: l'incontro tra un uomo e una donna. E le dico di più, io non credo che, oggi come oggi, siano in molti a poter dire d'aver avuto una storia tanto travolgente. E il fatto che modernità, anticonformismo e intensità nel vivere la propria vita vengano dal passato è una cosa interessante".
 

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