Reduce dai successi con Muccino, Moretti, Ozpetek
Accorsi, divo della porta accanto
«Un film sulla crisi dei
neolaureati»
Non capita spesso che un
attore centri, in una sola stagione, i tre film in testa agli incassi e
ai dibattiti. Ma Stefano Accorsi, il nuovo volto trentenne del cinema italiano,
bolognese, ex ragazzo saltellante del cono gelato per spot, ha fatto l’en
plein. Fidanzato in crisi nell’«Ultimo bacio», paziente nevrotico
in «La stanza del figlio», gay vedovo in «Le fate ignoranti».
Ora tutti lo vogliono, tutti lo cercano: ma da un anno e mezzo, travolto
dall’insolito destino del successo, non ha un giorno di vacanza. «E’
stato un momento fortunato. Prima ero stato fermo mesi, poi è arrivato
"Radiofreccia" e ora ho girato tre belle storie in cui la gente si è
identificata. Il cinema deve parlare in modo onesto e sincero di quel grande
soggetto che è la vita». Ora Accorsi è un divo simpatico,
raggiungibile: lo chiamano il fidanzato della porta accanto, ma Giovanna
Mezzogiorno ha da tempo occupato il posto: è un po’ come il Morandi
del cinema.
«Non mi allargherei.
Il sex symbol mi va largo, il fidanzatino mi va stretto. Certo che oggi
la gente mi riconosce e io penso di usare questa popolarità per
scegliere le cose che mi piacciono, in cui credo. Tutto merito di mia madre:
fu lei a leggere nel ’90 un’inserzione di Pupi Avati». Rinato il
cinema, cambiato il pubblico? «E’ andata bene. Ma diciamo che sono
i primi segnali, non parliamo di rinascita».
Le piace scommettere sui
giovani? «Il lato bello del lavoro è l’esplorazione, l’avventura.
Mi piace investire su storie diverse anche senza garanzia di successo,
amo divertirmi sul set. La nostra generazione ha meno pudore e più
leggerezza: odio la dimensione industriale, professionale, di questo lavoro,
la lucidità e la freddezza di chi si programma, mi spaventa l’assenza
di incognite».
Così ha accettato
il primo film del 34enne Marco Ponti «Santa Maradona» presto
sugli schermi, girato scanzonatamente a Torino in una casa di 370 metri
quadri, dove si scherza, si fa zapping, si vede in tv «Butch Cassidy».
Il suo partner è Libero De Rienzo che in uno spot fa assaggiare
gli spaghetti alla mamma, ma nel film della Breillat «A mia sorella»
illude e violenta dolcemente una ragazzina. «E’ uno dei volti che
piacciono, che avranno successo. Avevo visto un corto di Ponti, il copione
era bello, a me piace vedere come un’idea diventa laboratorio, lavoro,
esperienza».
Il titolo si ispira a una
canzone di Manu Chao sul mito del pallone. «Il regista ama mixare
sacro e profano, le storie ordinarie che diventano straordinarie. Basta
un niente perché un momento di vita diventi epico. Quella del film
è la storia di due amici diversi ma complementari che vivono insieme,
dopo la laurea, in quella specie di limbo che sono gli ultimi giorni di
vacanza prima di entrare in una società di cui non condividono gli
aspetti globalizzanti, consumistici, pubblicitari». Una storia seria,
ideologica, contestatrice? «Soprattutto una storia scanzonata in
cui un piccolo cosmo regolato dall’amicizia e dall’amore deve confluire
nel grande cosmo comandato da ben altri sentimenti: non vogliono e il mondo
del resto non è sicuro di aver bisogno di loro».
Morale? «Non diamo
risposte facili o precostituite, ma suggeriamo volentieri le assurdità
e le contraddizioni del mondo. Il film finisce quando i due cominciano
a muoversi: quello che più mi affascina è raccontare le persone
che cercano strade alternative». E il film di Battiato su Casanova
per Canale 5 come si inserisce? «Casanova è stato un uomo
a molte dimensioni, quasi un contenitore di esperienze. Noi lo vediamo
solo dai 27 ai 30 anni, dalla fuga dei Piombi alla corte di Versailles.
Non è né un santo né un eroe, né solo un seduttore
a tempo pieno, ma un uomo che si è lanciato in molte avventure diverse
del resto ben spiegate nelle sue Memorie. Ma la tv è un cinema particolare,
che voglio centellinare. Perciò, con rammarico, non farò
i Promessi Sposi. Voglio riposarmi».
Intanto, in Abruzzo gira,
nella parte di Dino Campana, con la regìa di Michele Placido, «L’estate
più lunga« con Laura Morante come Sibilla Aleramo. «E’
la storia di una lunga estate calda e appassionata, quella del 1916, con
un’invasione totale dei sentimenti, nelle tinte calde pastello degli affetti
prorompenti: una pagina di letteratura, poesia e poi di cinema. Ma si parte
sempre dalla vita, da quella non banale. Il peccato mortale di un attore
è la routine».
Maurizio Porro
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