A bordo del suo caccia stellare, Renci era aggrappata con entrambe le mani
alla cloche, nel disperato tentativo di costringere il velivolo a riprendere
quota. Il cappello che portava sempre in testa teneva raccolti i suoi lunghi
capelli castano chiaro, in modo che non le finissero davanti agli occhi durante
la guida.
Al momento, però, tale accorgimento le permetteva di vedere la superficie
rocciosa di Ord Mantell venirle incontro a folle velocità, cosa di cui avrebbe
fatto volentieri a meno.
Con la coda dell’occhio, la ragazza registrò il fatto che stava sorvolando Great
Rock, il secondo spazioporto e il primo ricettacolo di feccia del pianeta.
Dalle labbra le uscì un’imprecazione che avrebbe fatto impallidire un estrattore
di umidità di Tatooine; forse spaventato anch’esso dall’improvviso scoppio d’ira
del suo pilota, lo Z-95 Headhunter decise di ricominciare a rispondere ai
comandi.
«Meglio tardi che mai!» esclamò Renci, e tirò ancora più forte la cloche. Il
terreno era ormai vicinissimo e, non appena il caccia riprese l’assetto
orizzontale, urtò con violenza uno sperone roccioso.
Renci Tosh fu sballottata all’interno della cabina e batté la testa contro il
trasparacciaio dell’abitacolo.
Il suo ultimo pensiero prima di perdere i sensi fu per il rigattiere di Corellia
il quale le aveva assicurato che il sistema di guida era stato “perfettamente
riparato”.
La nave passeggeri attraccò a Great Rock con una manovra rude, che fece uscire
più di qualche mormorio dalle bocche, o cavità analoghe, di coloro i quali
avevano speso i crediti necessari al tragitto.
«Benvenuti a Great Rock.»
La voce roca e sibilante proveniva chiaramente dall’interfono e apparteneva
altrettanto ovviamente al capitano Ossik. Solamente un trandoshan, umanoide
dalle fattezze di rettile, poteva parlare il basic, il linguaggio universale
della galassia, con quel tono e quella cadenza.
«Il portellone sarà aperto tra breve.»
Quaranta “brevi” minuti più tardi, iniziò il deflusso dei passeggeri. Una tra
gli ultimi a scendere dalla passerella fu una giovane umana vestita con degli
abiti semplici ma adatti alla vita all’aria aperta. I suoi capelli biondi,
lunghi fino alle spalle, i suoi occhi azzurro chiaro, e soprattutto il suo viso
affusolato e il suo corpo ben modellato avevano attirato su di lei più di uno
sguardo da parte di quelli che si trovavano sulla nave, anche coloro che non
appartenevano alla sua specie.
Nessuno si era avvicinato a darle fastidio, ma il motivo non era probabilmente
da ricercarsi nell’arco e nel bastone rinforzato che erano assicurati alla sua
schiena, bensì nella persona che si trovava qualche passo più indietro.
«Dalia, tu sai dove si trova questo Qexi?»
Il ragazzo che le rivolse la parola era chiaramente più giovane di lei, e
dimostrava all’incirca quattordici anni. Il rispetto che incuteva nonostante
l’età era dovuto alla sua capigliatura corta, con un codino intrecciato che gli
scendeva accanto all’orecchio destro; questo, insieme al baluginio occasionale
dell’elsa della spada laser che si intravedeva sotto i suoi abiti, lo
identificava inequivocabilmente come un allievo padawan dell’Accademia Jedi di
Luke Skywalker.
Erano passati otto anni dalla battaglia di Endor, nella quale l’Alleanza Ribelle
aveva distrutto la seconda Morte Nera e abbattuto l’Imperatore Palpatine. Subito
dopo, Luke Skywalker cercò di riportare l’ordine dei Jedi all’antico splendore,
reclamando e ristrutturando gli antichi templi di Yavin 4 e iniziando a
viaggiare per la galassia al fine di reclutare tutti gli utilizzatori della
Forza che gli fosse riuscito di trovare.
Allievi di tutte le età e provenienze si erano riuniti sulla quarta luna di
Yavin per perfezionare le vie della Forza, senza l’ottusa rigidità morale che
caratterizzò i Jedi negli ultimi anni della Vecchia Repubblica; oltre a Luke
Skywalker, altri individui di grande sapienza avevano raggiunto il rango di
maestro e iniziato ad addestrare apprendisti.
«No, Sheen, ma stiamo cercando un bar in uno spazioporto. Persino un bantha
potrebbe darci delle informazioni.»
Emettendo uno sbuffo dalle narici, la ragazza si avviò verso le affollate strade
di Great Rock, con l’animo tutt’altro che sereno.
Dalia era abituata all’ambiente di Dathomir, dove era nata e cresciuta, avvolta
dalla vegetazione e dall’acqua che, seppure in maniera minore, aveva ritrovato
all’Accademia Jedi dove era giunta qualche anno prima. Ord Mantell, con le sue
rocce, l’atmosfera secca e la stella azzurra che scandiva l’alternarsi di giorno
e notte, non rappresentava proprio il suo pianeta ideale, e lei lo reputava un
asteroide troppo cresciuto.
Il suo umore non era reso migliore dal fatto che era stata inviata in missione
insieme a un uomo; anche se giovane, era pur sempre un maschio. Su Dathomir, la
società seguiva un rigido schema matriarcale, nel quale agli uomini erano
riservati compiti di fatica e avevano principalmente lo scopo di animali da
riproduzione. Il governo era rappresentato da un gruppo di donne sensibili alla
Forza chiamate streghe, che, a seguito dell’intercessione di Luke Skywalker,
avevano ammorbidito le loro posizioni e acconsentito a inviare alcune
studentesse presso l’Accademia; tutto ciò a condizione che la loro istruzione
fosse supervisionata da una strega e, per tale compito, fu scelta Kirana Ti.
Era stata proprio Kirana, una donna avvenente dai fluenti capelli neri e dagli
esotici occhi con taglio lievemente a mandorla, a fornirle i dettagli della
missione.
«Dalia, sai che i vertici dell’Accademia sono soliti inviare gli apprendisti in
semplici missioni, per fargli acquisire esperienza.»
«Sì, signora» aveva risposto rigidamente la giovane.
«Dalia, te l’ho detto mille volte che puoi chiamarmi per nome» aveva detto la
strega con un sorriso.
«Sì, sign... Kirana» era arrossita Dalia.
«Allora, non la faccio lunga: dovrete recarvi su Ord Mantell, a Great Rock per
la precisione. Qui dovrete incontrare il proprietario di un bar, un maschio
chiamato Qexi. E’ una buona fonte di informazioni per la Nuova Repubblica. Gli
consegnerete uno stick di credito, e lui vi darà in cambio un datacard. In
pratica, è una missione da corrieri.»
«Maestra Kirana, perché ha parlato al plurale?»
«Viaggerai con un padawan, per la precisione con l’allievo di Streen.»
«Sheen Ryu?» aveva esclamato Dalia.
«Lo conosci?»
«Da quel poco che so, è un tipo tranquillo e piuttosto ligio al codice Jedi.
Poteva andarmi peggio.»
«Esattamente. La missione non è difficile, sfruttatela per fare esperienza;
inoltre, dai un’occhiata al ragazzo, come si comporta e cose così. Sarai
responsabile per lui.»
E con questo, Kirana aveva chiaramente fatto capire che la conversazione era
finita.
Mentre poggiava il piede sul suolo di Ord Mantell, Dalia stava ancora
rimuginando sull’ultima frase di Kirana Ti.
“Certo, potevo trovarmi in compagnia di un fanatico esagitato, ma avere compiti
da balia... bah! Vediamo un po’ che cosa ha in serbo questo viaggio.”
La polvere delle desolazioni rocciose si appiccicava alla pelle di Renci, che
arrancava a piedi verso Great Rock, con una pistola blaster al fianco e lo zaino
in spalla, nel quale aveva infilato alcune provviste e un chip di credito. Aveva
previsto un viaggio di un giorno o due per raggiungere la città, dove aveva
intenzione di assoldare un meccanico per riparare lo Z-95 che, dopo
l’atterraggio di fortuna, necessitava di una verifica completa dei sistemi.
Stava fissando una larga striscia di verde all’orizzonte, una delle poche
macchie di vegetazione e foresta che erano riuscite ad attecchire sul pianeta
grazie alle sorgenti di acqua sotterranee che raramente raggiungevano la
superficie.
Improvvisamente, quattro sagome sbucarono dal folto degli alberi, dirette verso
di lei. Dalla velocità con cui si muovevano, Renci ipotizzò trattarsi di
motospeeder; la congettura si rivelò fondata, poiché pochi secondi dopo si trovò
circondata da quattro loschi figuri in sella a dei veicoli usurati e rappezzati
alla bell’e meglio. Tutti quanti indossavano abiti logori, con una camicia
grigia e rossa che era la parodia di un’uniforme.
«Cos’abbiamo qui? Una ragazza sperduta nelle desolazioni di Ord Mantell» esordì
un uomo grande e grosso, con il viso sfigurato dalle numerose cicatrici, e prese
una pistola blaster dal lato del suo motospeeder.
Renci si accorse con orrore che anche gli altri tenevano puntate le armi contro
di lei. Non sapendo che fare, tenne la bocca chiusa.
«Ehi, ha uno zaino... e pure un blaster!» disse un altro.
«Allora, abbiamo una nuova schiava per il capo... e del buon bottino per noi»
riprese il primo, sollevando l’arma.
La ragazza tentò di estrarre la sua pistola e attaccare, desiderando vendere
cara la pelle. Quattro lampi blu la investirono in pieno e, per la seconda volta
in poche ore, la vista le si oscurò e perse i sensi.
I tre schermi appesi alle pareti della caverna mostravano le immagini di una
dozzina di vascelli spaziali dalla forma aerodinamica che si stavano disponendo
lentamente in fila. Si stava infatti per disputare l’annuale Blockade Runners
Derby, una corsa che si snodava lungo la fascia di asteroidi attorno a Ord
Mantell. Tale avvenimento attirava numerosi viaggiatori spaziali e furfanti,
intenzionati a stringere accordi e scommettere somme consistenti nel periodo
dell’anno nel quale la popolazione del pianeta quasi raddoppiava.
La taverna di Qexi era in sostanza un anfratto scavato in una delle pareti
rocciose di Great Rock, e al momento era stipata di gente impegnata a bere,
urlare, guardare gli schermi e a piazzare puntate.
Uno dei fortunati ad aver trovato posto a sedere a un tavolo vicino al bancone
era un twi’lek, specie che sarebbe potuta passare per umana se non fosse stato
per due particolarità evidenti: la pigmentazione della pelle, che poteva variare
in tutti i colori dell’arcobaleno, e la presenza sul cranio di due appendici
simili a tentacoli, chiamate lekku.
La creatura osservava il riflesso della sua pelle azzurra sul bicchiere ormai
vuoto, immerso nei suoi pensieri.
“E’ mai possibile che nessuno sia disposto a offrire un lavoro onesto? Solamente
contrabbando, furti, riscossione forzosa di crediti... anche con la Nuova
Repubblica, certi pianeti non cambiano mai!”
La profondità della sue riflessioni era tale che non si accorse dell’umanoide
alto più di due metri, con il viso segnato da tatuaggi neri e blu e la testa da
cui sporgevano piccole appendici ossee, che si era avvicinato al suo tavolo; se
ne avvide quando era a meno di un metro.
Lo sguardo del nuovo arrivato era puntato su un piccolo rodiano, il quale alzò
gli occhi completamente neri e disse:
«Che posso fare per te, zabrak?»
«Liberare il mio posto, per esempio» tuonò il gigante.
Facendosi ancora più piccolo dalla paura, il rodiano dalla pelle verde trovò
comunque il coraggio di ribattere:
«Ma questo è il mio!»
Afferrandolo per il bavero e alzandolo dalla sedia, lo zabrak disse:
«Scommetto il tuo osso del collo che non è così!» e lo lasciò andare.
Non appena rimise i piedi a terra, il rodiano spiccò un balzo verso l’uscita e
si confuse tra la folla.
Rivolgendosi al barista, il gigante urlò:
«Dammi da bere!» e si mise seduto.
Ammiccò verso il twi’lek seduto alla sua destra, il quale rispose con un breve
cenno del capo e tornò a fissare il bicchiere; quando si volse alla sua
sinistra, i due giovani uomini lì seduti trovarono immediatamente più piacevole
osservare la partenza della gara in piedi e più vicini agli schermi.