Cechov e il racconto breve

Cechov è considerato unanimamente il maestro del racconto breve. Amato e imitato da tantissimi autori per tutto il Novecento ad oggi, credeva in una prosa liberata dalla "menzogna".

di Stas' Gawronski

Anton Cechov è il maestro del racconto breve che, insieme a Poe e a Maupassant, ha posto le fondamenta del genere letterario con cui si sono confrontati, dalla metà dell’ottocento ad oggi, moltissimi autori di narrativa. La fortuna del genere – e dell’inaspettata carriera di Cechov che alla professione di medico fu costretto dall’indigenza ad aggiungere quella di scrittore – è dovuta al boom della stampa periodica (in Italia dai primi decenni del novecento) e a quel particolare prodotto giornalistico che era il feuilleton. Cechov era tra quegli scrittori che venivano invitati a raccontare su quotidiani e riviste storie brevi che offrissero uno spaccato della società e del costume del tempo coinvolgendo i lettori in narrazioni di rapida e facile fruibilità. Fin dal primo racconto scritto nel 1880, la brevitas richiesta dai rigidi confini editoriali dei giornali costrinse lo scrittore russo a costruire le sue storie intorno ad un singolo fatto e a sviluppare la narrazione privilegiando la sintesi e la compattezza attraverso una selezione rigorosa dei dettagli e un controllo ferreo sul destino dei personaggi. Cechov era convinto che il narratore dovesse offrire gli elementi strettamente indispensabili a rendere evidente la situazione concreta in cui si trovano i personaggi, servendosi solo dei particolari necessari ad attivare l’immaginazione del lettore. Lo scrittore è chiamato ad essere un “testimone imparziale” del mondo e l’aderenza alla realtà è la regola fondamentale. La vita, secondo Cechov, doveva essere descritta nella sua oggettività, senza la sovrapposizione di elementi propri della visione etica, filosofica o spirituale dell’autore. Il lettore deve fare esperienza dei fatti narrati ed essere libero di trarre le proprie conclusioni. In una lettera all’amico Suvorin lo scrittore russo afferma: “Voi mi rimproverate l’obiettività, chiamandola indifferenza verso il bene e il male, mancanza di ideali, ecc. Vorreste che quando dipingo i ladri di cavalli dicessi: è male rubare i cavalli! Ma lo sanno tutti da molto tempo, senza che debbo dirlo io. Questo è affare dei giudici, il mio lavoro consiste nello spiegare che cosa essi sono… Nello scrivere mi affido al lettore, sperando che egli inserisca da solo gli elementi soggettivi”.

Diversamente dai grandi autori russi dell’ottocento, Cechov non ha un’etica da proporre con i suoi racconti. Lo aveva notato lo stesso Tolstoj che di Cechov aveva grande stima: “E’ pieno di talento e ha senza dubbio un cuore buonissimo, ma al momento non sembra possedere un punto di vista ben definito sulla vita.” Molti critici si sono sforzati di comprendere il suo pensiero attraverso l’analisi dei testi, ma questo risulta inafferrabile. Ci sono tanti Cechov quanti sono i personaggi dei suoi oltre duecentoquaranta racconti. Egli non prende posizione, ma osserva, registra e racconta la realtà preoccupandosi soprattutto di tenersi lontano dalla menzogna - “Mai si deve mentire. L’arte ha questo di particolarmente grande: non tollera la menzogna” – perché l’unico servizio che uno scrittore può rendere all’uomo è aiutarlo ad aprire gli occhi sulla realtà: “L’uomo diventerà migliore quando gli avremo mostrato come è”. Ed è inevitabile, a fronte di tanta acutezza di visione e all’impossibilità per lo scrittore di trovare una risposta alla miseria e agli inganni con cui l’uomo porta avanti la sua esistenza, che l’umorismo dei primi racconti di Cechov si faccia più cupo e intriso di malinconia negli ultimi testi.

La lezione di Cechov sulla concretezza della narrazione e sul senso del tragico nelle piccole cose, successivamente fatta propria da alcuni grandi scrittori americani di short stories come Hemingway (che teorizzava la “tecnica dell’omissione”) e Carver (maestro della “reticenza” che ha dedicato uno splendido racconto alla morte dello scrittore russo), si accompagna a quella sull’intensità del testo. I personaggi delle storie brevi di Cechov sono sempre colti in un momento significativo della loro vita, un episodio non necessariamente straordinario eppure tale da rivelare l’essenza del presente, del passato e, a volte, anche del futuro della loro esistenza. Basta, ad esempio, un casuale incontro alla stazione con un vecchio compagno di scuola, la scoperta di un tradimento, una piccola perdita al gioco o il regalo di colleghi d’ufficio ad un funzionario alle soglie della pensione, per svelare in poche righe il motore invisibile che muove la vita dei personaggi e, in molti casi, ne determina il tragico destino.
Cechov coglie le tensioni profonde dell’uomo alle prese con la sua quotidianità svelando, attraverso una fotografia nitida e semplice dei gesti, dei pensieri e delle parole dei protagonisti, il segreto di una vita. Secondo l’autore di grandi racconti come “Lo specchio”, “Le ostriche”, “Una storia noiosa”, “La saltabecca” o “Corsia n.6” non sono necessarie le riflessioni, i giudizi o la morale più o meno implicita dell’autore perché quanto di importante c’è da sapere su una vita è scritto nelle reazioni dei personaggi agli eventi, tutto è nelle motivazioni nascoste, nei desideri reconditi che emergono nel quotidiano confronto con il mondo. Un episodio, a volte banale, è sufficiente ad aprire una frattura attraverso cui intravedere l’abisso che si cela dietro alla maschera di psicologie complesse e, in fondo, il luogo dove è finito - il più delle volte dove si è insabbiato - il cuore del personaggio.

Poche pagine e uno stile semplice e lineare sono sufficienti a narrare storie che non cessano di interrogare il lettore. Come ricorda Lalla Romano nell’introduzione al primo degli otto volumi pubblicati da Feltrinelli che raccolgono l’opera dello scrittore di Taganrog, “pochi scrittori come Cechov, hanno spinto altri scrittori ad interrogarsi sulla sua e sulla propria arte letteraria: le pagine a lui dedicate di Thomas Mann, Virgina Wolf, Francois Mauriac, Ilja Erenburg ne sono un’illuminante testimonianza”. E’ la domanda sul senso della vita che traspare in filigrana nelle vicende di impiegati, medici, contadini, nobili, poveracci, attori, vedove, anziani, giovani innamorati, ladri, malati, viaggiatori e tanti altri personaggi che formano la vasta galleria di Cechov, a sorprendere il lettore che, arrivando senza sforzo alla fine di ogni racconto, si ritrova in una posizione dalla quale può guardare la vita dei personaggi con uno sguardo diverso, capace improvvisamente di accorgersi della nudità dell’essere umano e forse, come in uno specchio, anche di se stesso.