GIACOMO LEOPARDI
LA
VITA.
Giacomo Leopardi nacque a
Recanati nel 1798 dal conte Monaldo e da Adelaide Antici. Il padre era di idee
fortemente conservatrici, la madre rigidamente cattolica. Giacomo compì i primi
studi sotto la guida di un precettore che nel 1812 riconobbe di non avere più
nulla da insegnargli. Egli proseguì gli studi da solo nella ricca biblioteca
paterna dove, in sette anni di studio "matto e disperatissimo", imparò
senza insegnanti il greco, l'ebraico, lo spagnolo e l'inglese (conosceva fin da
bambino il latino e il francese) e scrisse numerose opere di vario genere, tra
cui la Storia dell'astronomia e il Saggio
sopra gli errori popolari degli antichi. Intorno al 1816 tradusse il 2°
libro dell'Eneide e maturò il
passaggio "dall'erudizione al bello": apprezzò i valori della poesia
e guardò con occhi nuovi anche i capolavori della tradizione volgare e cominciò
egli stessoa scrivere poesie. Nel 1818, in risposta a un articolo di Ludovico di
Breme scrisse il Discorso di un Italiano
intorno alla poesia romantica, che però non fu pubblicato. La sua salute già
malferma fu aggravata dallo studio forsennato: a una deviazione della colonna
vertebrale si accompagnò una malattia agli occhi, che lo costrinse per lunghi
periodi all'inattività. Nel 1819 Giacomo cercò di sottrarsi alle angustie
dell'ambiente familiare fuggendo da Recanati ma il suo tentativo fu sventato dal
padre. Fu un anno di grave crisi nel
quale elaborò una nuova visione della realtà e in particolare quella teoria
del piacere che avrebbe approfondito per tutta la vita. E' l'inizio di quella
che avrebbe poi definito conversione dal bello al vero, dalle lettere alla
filosofia. In questo periodo scrisse gli Idilli (pubblicati nel 1826) e compose dieci canzoni, raccolte in
volume nel 1824. Fra il '19 e il '24, egli scrisse quattromila pagine del suo Zibaldone,
nel quale raccoglieva le sue riflessioni. Nel 1822 Leopardi partì finalmente da
Recanati ma il soggiorno a Roma si rivelò deludente. Tornato a Recanati nel
1823, sentì progressivamente inaridirsi la vena poetica e l'anno successivo
scrisse gran parte delle Operette morali,
chre segnano il passaggio dal pessimismo storico (che addebita all'uomo e alla
ragione la colpa dell'umana infelicità) al pessimismo cosmico. In seguito si
recò a Milano dove iniziò la collaborazione col l'editore Stella, poi a
Bologna e a Firenze, dove restò fino al 1829, con una parentesi a Pisa dove
risorse in lui il bisogno di far versi e compose Il
risorgimento e A Silvia. Nel 1829
il poeta fu costretto a tornare a Recanati e fu tormentato dalla noia e dalle
malattie. La sua depressione fu interrotta dalla composizione, in meno di un
mese, dei Grandi idilli. Nell'aprile
1830 grazie all'interessamento dell'amico Pietro Colletta, lasciò per sempre
Recanati e si trasferì nel capoluogo toscano. Il periodo fiorentino fu
rallegrato dall'amicizia con Antonio Ranieri e dall'amore (non ricambiato) per
Fanny Targioni Tozzetti che gli ispirò le liriche del cosiddetto ciclo di
Aspasia, tra le quali Pensiero dominante
e Amore e morte. Nel 1831-32 si
interessò di politica e progettò un giornale letterario, terminando
contemporaneamente le Operette morali.
Nel 1833, conclusosi con un'ennesima delusione l'amore per la Targioni Tozzetti,
Leopardi partì per Napoli con Ranieri e nel 1836, per sfuggire a un'epidemia di
colera, si trasferì a Torre del Greco, alle falde del Vesuvio, dove compose Il
tramonto della luna e La ginestra.
Tornato a Napoli nella primabera del 1837, si spense improvvisamente nel mese di
giugno.
IL
"SISTEMA " LEOPARDIANO E LO
ZIBALDONE.
a)
la "filosofia" di Leopardi e lo "Zibaldone".
- Il Leopardi fu filosofo
nel senso illuministico, non di "specialista" in una disciplina
particolare distinta dalle altre, ma
di intellettuale che si chiede e si dà ragione delle cose e che si sforza di
organizzare in un insieme coerente i dati della sensibilità e dell'esperienza;
fu quindi filosofo sulle orme degli illuministi sensisti e materialisti sui
quali veniva formando la sua cultura.
- Questo lavoro si svolse
soprattutto su quel manoscritto lasciato inedito denominto Zibaldone: 4526 pagine di quaderno che contengono un numero
grandioso di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note di filosofia, di
letteratura, di politica. Il manoscritto dopo la morte del poeta fu affidato ad
Antonio Ranieri e se ne iniziò la pubblicazione solo nel 1898. Qualunque
giudizio si possa dare sul suo valore filosofico, è indubbiamente strumento
indispensabile per la comprensione dell'uomo come dello scrittore.
b)
Natura e civiltà: il pessimismo storico.
- Leopardi è isolato dal
mondo reale ma cerca un punto di contatto con esso e avverte, come i più
sensibili tra i romantici, la tragicità della solitudine interiore. La natura
spingeva Leopardi alla vita ed egli cercò in tutti i modi di superare la
negatività del mondo esistente ma non vi riuscì, fosse colpa di quel mondo o
colpa sua.
- Da questa incapacità di
adattarsi al mondo reale nasceva, come la definì Leopardi, la "noia",
stato di vuoto interiore, inerzia e carenza della sensibilità. Fin dal primo
momento egli pensò che il problema non era suo, individuale, familiare o
esistenziale, ma della sua società e del suo tempo, e si ribellò con energia
ogni volta che qualcuno volle riportare il suo pessimismo a ragioni biografiche.
Quando un'età è ricca di tanti Werther e tanti Ortis, nella realtà come nella
fuinzione, è segno che non si tratta di una moda, ma che sono in gioco ragioni
strutturali serie e profonde.
- Per Leopardi queste
ragioni erano nel conflitto (già individuato da Rousseau) fra Natura e Ragione
o civiltà. La Natura ci crea felici soprattutto perché ci dà una vita del
sentimento e della sensibilità atta a riempire la nostra esistenza e a dar
luogo a una società sana, nella quale realizzare pienamente noi stessi. La
storia ha distrutto questo stato felice, ucciso le illusioni, attutito la
sensibilità. Giunti a questa fase di "civiltà" la salvezza non può
venire che dalla stessa Ragione; lo stato di natura non può più essere
resuscitato; solo la Ragione può riscattarci dandoci coscienza del nostro stato
e aiutandoci a superarlo per quanto possibile.
- Perciò Leopardi ammira la
cultura dell'Illuminismo come il tentativo più coerente di riparare ai mali
dell'umanità, e la rivoluzione francese, che aveva scatenato un tumulto di
passioni, di illusioni, di speranze. Ma la rivoluzione era venuta meno e il
mondo era ripiombato in una barbarie di civiltà; all'uomo non restava che
sognare l'insensibilità assoluta degli animali o ribellarsi contro il presente
e risognare le età passate ricche di eroismi, di errori, di belle illusioni.
Questi sono dunque i punti fondamentali del pensiero del Leopardi in questi
anni:
1) anelito dell'uomo alla
felicità, per la quale lo ha creato la natura;
2) felicità dello stato di
natura;
3) perdita di questa felicità
attraverso lo sviluppo della civiltà dalla caduta dell'imopero romano in poi;
4) tentativi
dell'illuminismo e della rivoluzione per ripristinare uno stato di "mezzana
civiltà";
5) fallimento della
rivoluzione e di questo tentativo;
6) inerzia del mondo attuale
privo sia della sensibilità e vita del cuore, sia del culto della Ragione.
LA
TEORIA DEL PIACERE.
Nel 1820 Leopardi consegna
allo Zibaldone la sua teoria del
piacere, di derivazione sensistica, ma contaminata dalla nuova cultura
romantica:
1) L'uomo sperimenta in sé
un desiderio infinito di piacere, che in quanto tale è irrealizzabile per
definizione;
2) quando prova piacere, si
tratta di piaceri limitati e temporanei, per lo più prodotti dalla momentanea
cessazione del dolore, ma che non possono appagare il desiderio illimitato di
piacere;
3) la natura interviene
benevola a celare o attenuare l'intima contradditorietà della natura umana, in
un pietoso tentativo di celargli la verità;
4) l'età primitiva e
l'infanzia sono epoche di relativa felicità dell'uomo perchè allora era capace
di illudersi; il progresso storico e l'età adulta sono epoche di disillusione e
infelicità.
LA
POETICA DELL'INDEFINITO E DEL VAGO.
- Alla teoria del piacere si
ricollega anche la più specifica poetica dell'indefinito e del vago che
Leopardi comincia a elaborare in questi anni. Cardine di questa poetica è la
ricerca del modo di riprodurre mediante il linguaggio quella sensazione di
indefinitezza ( o di infinito) e di vaga immaginazione propria della
fancioullezza.
- Particolarmente adatte
allo scopo gli paioono tutte le sensazioni e percezioni indefinite e vaghe, di
cui egli nello Zibaldone fornisce un
ampio elenco, serbatoio di motivi e immagini realizzati poi concretamente nelle
sue liriche.
- Importante è la funzione
attribuita alla memoria della prima infanzia o di un passato anche solo
relativamente remoto, che consente di attenuare e rendere più vaga e poetica
anche l'esperienza del dolore.
- Ciò che è lontano nello
spazio e nel tempo, ciò che è solo intravisto nella penombra della luce
lunare, ciò che è solo immaginato e non percepito direttamente (comne nell'Infinito)
sono percezioni e stati di coscienza essenzialmente poetici perchè confondono i
precisi contorni delle cose, esercitando nell'uomo la facoltà poetica per
eccellenza, l'immaginazione.
LE
CANZONI.
- In questi anni, fra il
1818 e il 1823 (tra la conversione alla poesia e il ritorno da Roma) compose una
serie di liriche orientate in due direzioni diversi: da un lato la poesia di
ispirazione classicistica delle canzoni; dall'altro la poesia più colloquiale
degli "idilli". Le canzoni giovanili affrontano temi vari ma da esse
complessivamente emergono motivi quali l'esortazione all'impegno civile e
patriottico, la rievocazione storica e la riflessione sul senso dell'esistenza.
- Nelle due canzoni civili
del 1818, All'Italia e Sopra
il monumento di Dante, si denuncia la situazione in cui versa l'Italia, un
tempo grande e potente, ora debole e divisa, e si esortano gli italiani a
riportarla al passato splendore. Su un motivo simile (la celebrazione degli
italiani che fecero grande l'Italia) è svolta la canzone del 1822 Ad
Angelo Mai, ritrovatore ed editore
del De re publica di Cicerone e di
altri codici antichi; in questa canzone affiorano però anche accenti di cupo
pessimismo sulla vanità di ogni cosa.
- La riflessione
esistenziale è in primo piano nelle due canzoni più significative del ciclo,
il Bruto minore e l'Ultimo canto di Saffo. La prima rievoca la vicenda di Bruto che
sconfitto a Filippi lamenta il crollo delle illusioni della Roma repubblicana e
col proprio suicidio protesta contro un fato indegno che non concede alla virtù
di trionfare. In questa canzone la disillusione di Leopardi trova espressione
nella protesta di Bruto e nella sua titanica opposizione al fato. Ancora più
apertamente autobiografico è L'ultimo
canto di Saffo: la vicenda della poetessa suicida per amore acquista valore
esemplare. La composizione è dominata dal senso dell'incomprensibilità di un
destino nefasto, e dal senso di esclusione della dispregiata amante dalla
desiderata comunione con la natura, che si mostra in tutta la sua struggente
bellezza e che assiste indifferente al consumarsi di un tragico destino. Si
insinua qui almeno il dubbio che l'infelicità sia un destino legato alla stessa
condizione umana quando, rivolgendolsi a Faone prima di morire, Saffo gli
augura: "vivi felice, se felice in terra visse nato mortal".
GLI
"IDILLI".
- Negli stessi anni delle
canzoni compose sei liriche (L'infinito;
La sera del dì di festa; Alla luna; Il sogno; Lo spavento notturno; La vita solitaria) pubblicate nel 1826 col titolo
di Idilli (Preso dalle poesie greche
di Mosco, col significato di "quadretti").
- Dietro gli idilli sono
presenti le stesse ideologie che sorreggono le canzoni: nell'Infinito
lo stormire delle fronde al vento richiama alla mente le "morte
stagioni"; nella Sera del dì di
festa il morire del giorno festivo ridesta il ricordo dei popoli antichi,
della grandezza passata di Roma e d'Italia. Ma l'atteggiamento del poeta è
diverso: nelle canzoni era tutto proteso verso l'esterno, mirando a convincere
gli uomini delle sue tesi; qui è raccolto in se stesso a
godere della pietà che la natura gli mostra per risentire in comunione
con essa il palpito del suo cuore ancora vivo.
- Alle costruzioni
artificiose della canzone (strofe tutte uguali, rime ripetute) subentrano gli
endecasillabi sciolti e la tecnica dell'enjambement che permette di romperne la
misura creando ritmi sempre nuovi.
- Cadono i temi occasionali
e subentrano temi o occasioni interiori scaturiti da situazioni quotidiane:
nell'Infinito il trovarsi su un colle
e avere l'orizzonte limitato da una siepe è occasione per un moto
dell'immaginazione a cui il poeta si abbandona; esperienza tutta sentimentale e
immaginativa, espressa in una struttura formale controllatissima e nei ritmi
sapientemente variati grazie anche all'uso ripetuto dell'enjambement; in Alla luna l'esperienza dell'infelicità presente si sublima nel
colloquio con la luna e soprattutto nel ricordo di un precedente colloquio e di
una precedente angoscia, raddolcito dalla lontananza; altre situazioni poetiche
sono ascoltare nella sera festiva l'artigiano che rientra a casa di notte dopo
la festa; un sogno; i piaceri della vita solitaria in campagna.
- Scompare l'erudizione e
resta la consapevolezza della vanità delle cose; scompare la lingua poetica e
si delinea già la poetica del Leopardi maturo: semplicità di lingua parlata,
arricchita da qualche vocabolo arcaico. Nello Zibaldone distingue tra gli arcaismi ricercati e stentati e quelli
che cadono nel discorso moderno con naturalezza. In questo modo Leopardi si
andava accostando a una lirica da cui fossero banditi la mitologia, l'imitazione
dei classici e il vecchio linguaggio poetico, per una lingua nuova di
comprensione più larga ma che accogliesse in sè il risultato del lavoro delle
generazioni passate.
- Queste novità negli
Idilli non sono ancora tutte chiare e Leopardi non ha ancora conquistato una
lirica che nasca dall'intimità, ma ha già creato i primi miti: il colle dell'Infinito,
con la siepe che esclude l'orizzonte ma schiude agli tocchi della mente uno
spazio infinito; la notte di silenzio e di luna della Sera del dì di festa: trasfigurazioni liriche di uno stato d'animo
che il Leopardi aveva scioperto scavando dentro di sé.
LE
OPERETTE MORALI.
a) le "Operette"
Per un concorso di
circostanze esterne e interne il Leopardi a partire dal 1822 abbandona la forma
poetica e dichiara di sentirsi mancare l'ispirazione; proprio nel 1823 egli
moltiplica le riflessioni sullo Zibaldone
intensificando la propria riflessione filosofica sulla natura e sul destino
umano. L'anno seguente, in parte rielaborando pensieri già annotati, in parte
inventando originalmente, scrisse alcune prose satiriche, fantastiche e
filosofiche che uscirono in volume nel 1827 col titolo di Operette morali. Negli anni seguenti, Leopardi aggiunse alle venti
operette già scritte altre cinque, due delle quali pubblicate nel '34 e le
altre postume.
- Le Operette segnano il superamento della prospettiva individuale e
autobiografica della lirica precedente. A muovere il Leopardi non è neppure la
disperata, sarcastica volontà di protesta contro la natura e il destino (come
in un precedente progetto concepito nel '19-20 e poi abbandonato) e neppure
l'impegno civile che aveva ispirato il Bruto
minore.
- A muovere il Leopardi è
la volontà di guardare a fondo nella natura delle cose e di svelare l'aspra
verità a cui è giunto; l'atteggiamento è di un rassegnato e ironico distacco
dal dolore, dalle illusioni e passioni che avevano ispirato la sua poesia.
Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, oltre a
rappresentare una condizione sentimentale e un isolamento fisico e spirituale
dal mondo che riflette la sua condizione recanatese, Leopardi affida
l'esposizione della sua teoria del piacere, che riprende anche nel Dialogo
di Malambruno e Farfarello. Nel
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie affronta il problema se in
punto di morte l'uomo provi picere o dolore, per affermare che la morte stessa,
in quanto cessazione del dolore del vivere, produce una sorta di picere; inoltre
nel Coro dei morti premesso al dialogo egli comunica il senso di
assurdità della vita e il fatto che anche ai morti la vita appare un misterioso
evento privo di senso. Nel Dialogo di un
Folletto e di uno Gnomo Leopardi espone una visione straniata del mondo
senza uomini, deridendo la presunzione antropocentrica dell'uomo che si crede
centro dell'universo. Nel Dialogo della
Natura e di un Islandese espone la sua nuova concezione della natura: non
esiste un luogo e un clima che la natura abbia destinato come suo proprio
all'uomo; la natura stessa ha destinato l'uomo alla sofferenza. Il racconto
termina con un drammatico dialogo tra l'uomo e la Natura sull'esistenza umana e
sul senso della realtà. Nel Cantico del
gallo silvestre Leopardi torna sul tema dell'infelicità con una lirica
descrizione della sofferenza umana. Nel Dialogo
di Plotino e di Porfirio si compie una difesa del suicidio come liberazione
dalla sofferenza umana; nelle ultime due operette, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e il Dialogo
di Tristano e di un amico, il poeta torna sull'illusorietà della felicità,
esperienza che l'uomo proietta sempre nel proprio avvenire e polemizza contro le
concezioni ottimistiche del proprio tempo. Nell'ultima pagina del Tristano,
egli invoca la morte come liberazione dall'angoscia del vivere.
b)
pessimismo storico e pessimismo cosmico.
- Nelle Operette si accavallano due posizioni diverse del Leopardi di fronte
alla vita, tanto che nel corso di esse si passa da ciò che si è definito
"il pessimismo storico" a ciò che si potrebbe definire il suo
"pessimismo cosmico". La seconda operetta è un dialogo in cui Ercole,
ritornato da Atlante (il gigante che reggeva sulle sue spalle il globo
terrestre) si accorge che la terra è rinsecchita, meno pesante, non più
rumorosa. E Atlante gli racconta di essersi accorto anche lui che da molto tempo
la terra ha finito di produrre moto e rumore: è la tesi del corrompersi
progressivo, quasi dello svuotarsi del mondo.
- Ma nel Dialogo della Ntura e di un Islandese, come si è detto, quando
l'uomo chiede conto alla natura del dolore dell'uomo, del suo destino di pianto
e di morte, la Natura risponde impassibile che il mondo non è stato creato per
l'uomo e che la vita dell'universo è un ciclo perpetuo di generazione e
distruzione. Un tema che ritorna in varie altre operette come nel bellissimo Cantico
di un gallo silvestre, dove si canta la morte del mondo e dell'universo e si
annuncia il giorno in cui del mondo intero non resterà che il silenzio e il
nulla.
- All'ideologia del
pessimismo storico se n'è sostituita un'altra. Il Leopardi, scolaro del
Settecento sensista, aveva posto come fine dell'uomo il piacere, raggiungibile
nello stato di natura, perduto poi per colpa di un processo storico distorto. Ma
più tardi si convinse che se fine dell'uomo è il piacere, e questo gli è
negato, vi è una dissonanza tragica tra ciò a cui l'uomo aspira e ciò che può
raggingere; ne consegue che l'uomo è necessariamente infelice. Il Leopardi
coinvolgeva così nella sua condanna non più l'uomo e la storia ma la stessa
natura, e considerava l'infelicità un dato costante della natura umana.
- Conclusione naturale:
l'ottimismo dell'illuminismo doveva sboccare o nell'avvento di un'età migliore
o in un pessimismo radicale. E il fallimento della rivoluzione non poteva
sboccare che nell'abbandono alla fede (come nel Manzoni) o in questa recisa
accusa alla Natura. C'è un abisso enorme tra Rousseau e Leopardi: il primo non
smarrì mai la sua fiducia nella natura benigna; Leopardi e gli altri romantici
a un certo punto distrussero il mito di una Natura benigna per sostituirla con
la Natura - Sfinge del dialogo.
- Da questa evoluzione del
suo sistema, Leopardi ricavò un atteggiamento duplice di fronte all'uomo:
1) destinato al pianto e
alla morte, l'uomo per affermare la sua dignità deve guardare in faccia
serenamente il proprio destino e non nutrirsi di illusioni, riconoscere la
propria miseria. Ogni volta che il Leopardi pensa al dolore dell'uomo, un senso
fraterno di pietà lo commuove, ed egli piange il triste destino suo e degli
altri.
2) Ma se l'uomo è incapace
di guardare in faccia la realtà e si culla in vane illusioni, se parla della
propria grandezza e immortalità, Leopardi si sforza di strappargli i veli dagli
occhi e di chiarirgli il suo destino.
c)
la prosa.
Per esprimere questa visione
della vita il Leopardi ricorse a prose filosofico-letterarie che avevano dietro
di sè una lunga tradizione che risaliva a Luciano, lo scrittore greco che nei Dialoghi
degli Dei aveva dato esempio di una satira celata dietro invenzioni amene; e
conosceva anche operette del Settecento francese, soprattutto i romanzi
filosofici di Diderot e Voltaire che nell'ottica illuminista di educare
divertendo, avevano crato un vero e proprio genere. Il Leoprdi ora trae i suoi
temi dalla mitologia, dalla storia, dalla leggenda, ora li inventa, creando
personaggi e azioni di fantasia; elabora una prosa letteraria ma di
un'asciuttezza nuda e nervosa, in cui lo stile possa svariare per tutti i toni
possibili e ammaestrare, educare, preparare alla vita e alla morte.
- Il risultato è una prosa
assai diversa da quella manzoniana: più lavorata, più letteraria, meno
narrativa e colloquiale, che tende a raggelare l'affetto in una bellezza tragica
e squallida. Ad esempio nella fine del Dialogo dell'islandese, gli aggettivi sono quanto mai scarsi e
compaiono, come gli avverbi, in funzione ironica; prevalgono sostantivi e verbi,
cioè le parti essenziali del periodo; la sintassi è sciolta al massimo.
- Leopardi mira a una prosa
che vorrebbe essere a un tempo razionale e lirica, capace di interessare e
convincere e al tempo stesso di commuovere.
LA
SECONDA FASE DELLA LIRICA LEOPARDIANA.
a)
i temi.
- Gli anni che seguirono la
composizione delle Operette morali,
con le loro traversie di salute e di vita parvero impedire ogni attività
creativa; per qualche anno il Leopardi scrittore tace e c'è un senso gelido
dell'inutilità di tutto e di tutti. Tuttavia egli uscì da questo stato mortale
per la poesia, e ne è testimone una lirica, il Risorgimento, nella quale, pur non rinnegando nessuna delle sue
convinzioni, affermò la rinata capacità del suo cuore a sentire.
- Da questo risorgimento
sentimentale su un fondo di immutato pessimismo intellettuale nacque la seconda
e più grande stagione della poesia leopardiana, in cui compose una serie di
liriche che chiamò genericamente "canti" ma che i posteri
battezzarono "grandi idilli" per indicare il loro riallacciarsi, per
ispirazione e poetica, al tono degli idilli giovanili: A Silvia; Le ricordanze; Il sabato del villaggio; La quiete dopo la
tempesta; Il passero solitario; Canto notturno di un pastore errante dell'Asia.
- La poesia nasce dal
recupero degli affetti, non delle illusioni; anzi, i temi ricorrenti sono
proprio quelli della caduta delle illusioni, della scoperta dell'"arido
vero" e di una polemica contro la natura: "O natura, o natura, perché
non rendi poi quel che prometti allor?" (A Silvia).
- Questi temi, svolti in
forma di riflessione o interrogazione retorica, traggono spunto dal ricordo di
momenti, sensazioni, esperienze di un passato ormai lontano da cui emergono
figure come Silvia e Nerina (Le ricordanze),
oppure dalla rappresentazione di momenti, sensazioni, collocati in un presente
senza trempo, o da quadri di vita recanatese (La
quiete dopo la tempesta, il sabato del villaggio).
- In entrambi i casi figure
e sensazioni, pur mantenendo il loro carattere di memoria personale, diventano
anche testimonianze di una verità morale e filosofica, di una concezione del
mondo ormai matura.
- E' ancora in vigore la
poetica dell'indefinito e del vago, non
più come frutto di sensazioni e percezioni particolari, ma come prodotto per
sua natura dal recupero di ricordi. Per questo si parla spesso di poetica della
ricordanza, che non è se non una variante di quella dell'indefinito e del vago.
- Si verifica un'antinomia
tra contenuto filosofico (si parla dell'acerbità del vero) e poetica: se ne
attenua l'evidenza mediante il ricorso al dolce-amaro della ricordanza. La
poesia mantiene ancora qualcosa della sua funzione consolatoria; l'angoscia, il
brutto, il vero non sono ancora oggetto possibile di una poesia che
ne comunichi tutta l'asprezza, la disarmonia nei suoni, nei ritmi, nelle
immagini (come sarà invece per Montale)
- Anche il
Canto notturno rimane nell'ambito della poetica dell'indefinito, ma ci sono
importanti novità: il colloquio con la luna, motivo ricorrente nella poesia
leopardiana, viene privato delle componenti autobiografiche; la scelta del
pastore porta fuori dal mondo di esperienze del poeta ed è motivata da più
profonde ragioni culturali e filosofiche.
- Il pastore errante è sì
un alter ego del poeta, ma è anche un primitivo, la cui sofferenza e
riflessione testimoniano l'universale sofferenza dell'uomo e la capacità degli
antichi, dei primitivi e dei fanciulli di intuire e sentire più vivamente dei
moderni le verità essenziali intorno all'universo e alla condizione umana.
- Di fronte a un universo
arido e al silenzio indifferrente della luna il pastore scopre che non esiste un
momento da cui si possa attingere il senso ultimo delle cose. E la lirica si
chiiude, dopo un estremo moto illusorio ("forse se avessi le ali sarei più
felice") nella mesta ipotesi (che per il Leopardi è una certezza) che a
tutti, uomini e animali, sia "funesto a chi nasce il dì natale".
b)
l'arte.
- In questa fase della sua
poesia Leopardi rinuncia ai ritmi chiusi, ora conservando l'endecasillabo
sciolto degli idilli, ora ricorreendo alla cosiddetta "canzone a
selva": una serie di strofe di diversa lunghezza, intessute liberamente di
endecasillabi e settenari, senza schema, con la possibilità di adattare metro e
ritmo al fluire del sentimento e della meditazione.
- Leopardi portò anche a
compimento il rinnovamento e rinfrescamento lessicale iniziato negli idilli:
avversario del purismo, non contrario all'introduzione di parole straniere e
contrario al feticismo della toscanità, egli
era incline all'introduzione in lirica di qualche arcaismo poetico, e
disposto e servirsi anche di parole tratte dal linguaggio popolare, ma
come materia da forgiare, non solo da trasportare di netto nella poesia.
- Leopardi mirava a una
lingua poetica nuova, composta da tutto il petrimonio lessicale di un popolo, un
materiale duttile che lo scrittore potesse rielaborare. La lingua tradizionale
è abbandonata; le parole correnti adoperate ma senza intenti realistici;
arcaismi vivi e freschi impreziosiscono il lessico ("i veroni del paterno
ostello") e danno una patina poetica; certe parole vengono usate con
frequenza perchè con il loro indistinto gli paiono particolarmente poetiche.
- Il risultato è una lingua
non quotidiana e realistica, ma non più letteraria in senso tradizionale,
comprensibile da strati assai larghi di media cultura, che parla
all'immaginazione e al cuore.
L'ULTIMO
LEOPARDI.
L'ultima stagione della
poesia leopardiana presenta consistenti elementi di novità. Presupposto
ideologico e filosofico è la concezione del mondo maturata dopo la crisi del
1823 e soprattutto il rigido materialismo e la constatazione dell'ineluttabile
infelicità cui la natura ha destinato l'uomo.
- Ciò che muta in questi
ultimi anni nel Leopardi sono la disposizione d'animo, l'atteggiamento etico, il
porsi di fronte alla società e al mondo. Leopardi appare più combattivo, più
disposto a comunicare e difendere le proprie amare verità, a polemizzare contro
chi le disconosce, a difendere il proprio pensiero contro chi ne imputa le
conclusioni pessimistiche alla sua malattia e alla sua personale sofferenza.
- Numerose e talora aspre
sono le prese di posizione contro gli ottimisti che confidano in un progresso
tecnico, scientifico e politico e contro gli spiritualisti cristiani che si
illudono nell'esistenza di un disegno provvidenziale, non avvedendosi tra
l'altro che quel che preme all'uomo è la felicità presente, materiale e
terrena e non un'improbabile felicità futura inconcepibile.
- A questa nuova poetica
corrispondono un linguaggio e uno stile che non si curano più di evitare
asprezze e disarmonie in nome di un ideale estetico di vaghezza e
indeterminatezza, ma anzi sembrano talora cercare proprio l'asprezza e la
disarmonia come forma espressiva più adatta a rendere le amare verità che la
poesia prende come soggetto e a interpretare la nuova disposizione d'animo più
risoluta e aggressiva.
- Fra le opere più
significative degli ultimi anni sono le 5 liriche del ciclo di Aspasia (Il
pensiero dominante, Amore e morte, A
se stesso, Aspasia, Consalvo) databile tra il 1833 e il 1835: in esse emerge
da un lato il tema della passione amorosa concreta e intensa, e dall'altro la
cocente disillusione e il disprezzo per il proprio cuore che ancora una volta si
è lasciato ingannare. L'esperienza d'amore per Aspasia costituisce per Leopardi
il supremo ed estremo tentativo di affermare il proprio diritto alla felicità;
così la cocente disillusione è l'ennesima conferma del suo sistema di pensiero
e dell'ineluttabilità del destino infelice a cui ogni uomo è condannato.
- Fuori dal libro dei Canti
si colloca il poemetto satirico dei Paralipomeni
della Batracomiomachia, ideale prosecuzione della Batracomiomachia pseudo-omerica tradotta in precedenza dal poeta.
Sotto una veste favolistica (una guerra tra topi e rane) si cela un'aspra satira
politica. Leopardi da un lato polemizza contro le forze politiche conservatrici
e reazionarie (in particolare gli Austriaci, rappresentati nei granchi,
dominatori del regno di Topaia); ma d'altro lato la polemica colpisce anche i
liberali italiani (i topi) derisi per l'ottimismo, il vago progressismo,
l'attesa fiduciosa di un aiuto straniero, il costituzionalismo, la cultura
spiritualistica.
- L'ultima sezione dei canti
propone due liriche di grande
importanza e valore poetico: Il tramonto
della luna, che ripropone alcune immagini e temi degli idilli, inseriti però
in una meditazione spersonalizzata e astratta, e soprattutto la Ginestra, punto più alto della meditazione e della poesia
dell'ultimo Leopardi.
- L'umile fiore profumato
diventa un mito, simbolo dell'uomo illuminato che osa sollevare gli occhi
mortali contro il destino nemico, e non si ribella nè si umilia di fronte alla
natura più forte, ma aspetta serena, pronta a chinare il capo e a lasciarsi
travolgere dalla lava, e intanto emana un dolcissimo profumo che inonda il
deserto.
- In opposizione agli
spiritualisti cattolici e agli idealisti, che vantano "le magnifiche sorti
e progressive" dell'umanità, egli esalta l'illuminismo umanitario di chi,
dando la colpa dei mali dell'uomo alla natura, considera gli uomini tutti come
fratelli e li abbraccia con vero amore: solo solidarizzando tra loro e
confederandosi contro il comune nemico, e nel contempo metteando al bando le
superbe fole e riconoscendo la miseria della propria condizione, gli uomini
potranno fondare una convivenza civile più umana e duratura.
Il libro dei
Canti si chiude con questo messaggio di solidarietà
nata dalla coscienza stessa del dolore e del male.
CONCLUSIONI.
-L'esperienza del Leopardi
costituisce un caso unico nel panorama lettarario italiano dell'Ottocento
anzitutto per l'originale sintesi di elementi classicisti e romantici da lui
attuata. Partito da una formazione classicistica e da una scelta di campo
antiromantica, egli matura autonomamente alcune scelte di fondo romantiche:
1) l'abbandono della
mitologia;
2) una concezione della
poesia moderna come naturalmente sentimentale e filosofica;
3) il primato della lirica
pura.
Ciò avviene senza un
ripudio del classicismo, al quale rimane legato anche per la concezione
dell'antichità come epoca suprema della storia umana in quanto più vicina alla
natura e detentrice delle verità filosofiche fondamentali che il Medioevo ha
intorbidato.
- Il Leopardi attuò inoltre
un rinnovamento profondo del linguaggio poetico italiano: nuove sono l'immediata
trascrizione di un dato sentimentale ed emotivo attuata negli idilli, e la
poesia della memoria dei canti pisano-recanatesi che realizza un felice
compromesso tra esigenza di poesia filosofica e la poetica dell'indefinito e del
vago; originale è infine la poetica dell'ultimo periodo in cui la necessità di
svelare la verità si manifesta con un linguaggio aspro e disarmonico.