Il monaco nero

Il monaco nero
sembra appartenere al genere dei racconti fantastici dell’Ottocento: il protagonista, Andréj Vasìl’ič Kovrin, professore universitario, era affaticato e aveva i nervi fuori posto, quasi come un personaggio di Poe. Kovrin trascorre allora un periodo di riposo nella tenuta del suo ex tutore Pesóckij, frutticoltore famoso per i suoi metodi razionali e innovativi e ristabilisce con lui e sua figlia Tania il rapporto di familiarità che aveva avuto nell’infanzia. Durante il soggiorno gli viene in mente la leggenda di
un monaco vestito di nero che mille anni fa camminava per il deserto, in Siria o in Arabia… Ad alcune miglia da dove camminava, dei pescatori videro un altro monaco nero che si spostava lentamente sulla superficie del lago. Questo secondo monaco era un miraggio.
Il miraggio si trasmette all’infinito, vaga per l’universo intero, e ora, dopo mille anni, dovrebbe ricadere nell’atmosfera terrestre ed essere visto ancora dagli uomini.
Un giorno Kovrin passeggia in un luogo solitario e, assorto nella contemplazione della natura, pensa:
“Che spazio, che libertà, che silenzio! … E sembra che tutto il mondo mi guardi, che si sia nascosto e aspetti che io lo capisca…”
Il mondo dunque, pur essendo grande (spazio, libertà, silenzio) e misterioso (nascosto), chiama ad un rapporto personale.
Ed ecco che con un fruscio arriva una specie di vortice: sfreccia il monaco nero, che si volta a guardare Kovrin con un sorriso tenero e giocoso. Si tratta di un’apparizione nello stesso tempo terribile e lieta, tanto che il professore ne resta piacevolmente turbato.
Dopo qualche giorno, il monaco nero compare ancora, si siede accanto a lui su una panchina e si dichiara, sempre con aria tenera e giocosa, un prodotto della sua immaginazione eccitata, un fantasma.
Gli chiede Kovrin:
«Ma perché mi guardi con tanto entusiasmo? Ti piaccio?»
«Sì. Sei uno dei pochi che si possono giustamente chiamare eletti da Dio. Sei al servizio della verità eterna. I tuoi pensieri, le tue intenzioni, i tuoi studi sorprendenti e tutta la tua vita portano un’impronta divina, celeste, poiché sono dedicati al razionale e al bello, ossia a ciò che è eterno.»
«Hai detto: verità eterna… Ma è accessibile e necessaria, agli uomini, la verità eterna, se la vita eterna non esiste?»
«La vita eterna esiste» disse il monaco.
«Tu credi nell’immortalità degli uomini?»
«Sì, certo. Un grandioso brillante futuro aspetta voi uomini. E più sulla terra ci sono uomini come te, prima si realizzerà questo futuro.»
Kovrin, razionalista miscredente, vede dunque scardinata la sua nozione di realtà, si sente chiamato a servire la verità eterna (una strana mescolanza di cristianesimo e messianistica fede nel progresso dell’umanità) che non pensava nemmeno esistesse, si sente incluso
tra quelli che renderanno con alcune migliaia d’anni d’anticipo l’umanità degna del regno di Dio, ossia eviteranno agli uomini altre migliaia d’anni di lotta, di peccato e di sofferenze.
Ne è felice, ma si preoccupa di essere malato di mente, visto che parla con un miraggio. Il monaco lo rassicura: la sanità è mediocrità, il genio, utile all’umanità, è affine alla follia.
Kovrin è pieno di gioia.
Decide di sposare Tania e, tornato al suo lavoro, vi si dedica con febbrile passione, continuando periodicamente le esaltanti conversazioni con la sua allucinazione.
La moglie e il suocero, però, preoccupati per le sue stranezze, lo spingono a curarsi.
Le visioni scompaiono, ma Kovrin è profondamente insoddisfatto e depresso. Tornato in campagna per rimettersi ulteriormente, egli prova rancore verso la moglie e il suocero e li accusa di crudeltà, perché le cure a cui si è sottoposto per loro insistenza l’hanno sì guarito dalle manie di grandezza e dalle allucinazioni, ma l’hanno costretto a una vita mediocre e noiosa.
Un paio di anni dopo ritroviamo Kovrin malato di tubercolosi, separato da Tania, in viaggio verso Jalta per sottoporsi a un periodo di cure. Durante una tappa, dal balcone dell’albergo sente un canto e il suono di un violino, che lo riportano con la mente alla tenuta dei Pesóckij: prova grande malinconia e, insieme, la gioia miracolosa, dolce che aveva ormai dimenticato da un pezzo.
Con le stesse modalità della prima volta, il monaco nero ricompare e, ripetendo il contenuto dei precedenti incontri, lo rimprovera dolcemente di non avergli creduto.
Kovrin ha un grave sbocco di sangue, cade a terra e nella sua mente si fondono i ricordi delle conversazioni con il monaco, di Tania, della sua giovinezza, del suo lavoro.
Vide sul pavimento vicino alla sua faccia una grande pozza di sangue e dalla debolezza non riusciva più a dire nemmeno una parola, ma una felicità inesprimibile, senza limiti riempì tutto il suo essere.
Anche dopo la morte, rimane impresso sul suo viso un sorriso beato.

Il monaco nero
è dunque un racconto fantastico? A ben guardare mancano i caratteri tipici del fantastico: non ci sono confini incerti, ambigui tra realtà e irrealtà, così come non ci sono dubbi sulla natura allucinatoria della apparizione e sulla malattia mentale di Kovrin. Il rapporto con il mistero, inoltre, non comporta un contatto pauroso con un soprannaturale terribile, ma è un rapporto che comunica la certezza di essere oggetto dell’amore divino e quindi grande felicità.
Questo racconto invece pone altri interrogativi.
Se c’è la pazzia all’origine della vicenda, vuol dire che tutto ciò che vi si svolge è necessariamente folle?
Il protagonista ha la rivelazione di essere scelto da Dio e di conseguenza concepisce la propria vita come lavoro per corrispondere a questo dono: è follia questa?
Quale concezione della vita e del mondo corrisponde maggiormente al desiderio di felicità e di pienezza dell’uomo, quella che comprende la possibilità di un Altro o quella che la esclude? Non è meno “sana” la vita dei Pesóckij, tutti definiti e come rinchiusi nel loro frutteto?