APPROFONDIMENTI SUI REGIMI FASCISTA E NAZISTA

Il fascismo italiano

Il fascismo è un movimento fondato in Italia da Benito Mussolini nel 1919 con la conseguente conquista del potere nel 1922. Benché non abbia costituito un fenomeno esclusivamente italiano, il fascismo ha avuto origine nel nostro Paese come reazione e conseguenza della grave crisi politica ed economica seguita alla Prima Guerra Mondiale.

La classe dirigente, erede dello Stato liberale post-risorgimentale, aveva voluto spingere l'Italia nel conflitto, senza prevedere le gravissime perdite umane e materiali che ne sarebbero derivate. Così, dopo la fine vittoriosa, si era trovata improvvisamente costretta a dover fronteggiare una situazione difficilissima, ricca di tensioni e contrasti interni, dove gli interessi dei gruppi economico-sociali privilegiati si scontravano con le aspirazioni della maggioranza della popolazione, fino allora tenuta ai margini della vita dello Stato. Il ritorno alla "normalità" non aveva offerto a milioni di reduci la meritata ricompensa, dopo i lunghi anni di pericoli e sofferenze in trincea. Anzi, insieme al dissesto delle finanze pubbliche, che i responsabili al governo non riuscivano a sanare, l'aumento dei prezzi e il diffondersi della disoccupazione alimentavano le agitazioni popolari. In questo sconvolgimento sociale, dove l'inefficienza economica stimolò il rafforzamento dei partiti di massa, con una forte crescita dei socialisti, soprattutto fra gli operai, e un'affermazione del Partito Popolare fra i cattolici dell'ambiente contadino, nacque e si andò affermando il movimento fascista.

Già nel 1915 Mussolini, leader del fascismo, aveva fondato i Fasci d'azione rivoluzionaria, con scopi puramente interventisti nella guerra europea, risposta immediata e risoluta al neutralismo socialista, che lo aveva costretto ad abbandonare il partito nel quale aveva fino ad allora militato.

Sulla stessa linea politica, Mussolini fondò a Milano, il 23 marzo 1919, i Fasci italiani di combattimento. Fu questo il primo passo di un movimento che si trasformò in Partito Nazionale Fascista e che conquistò il potere. Alla riunione di piazza San Sepolcro a Milano parteciparono un centinaio di persone (questi primi fascisti furono chiamati sansepolcristi). Il movimento aveva un programma vago ed era alla ricerca di un'ideologia. Tentava di fondere i motivi nazionalistici, cari soprattutto ai combattenti, con la polemica contro l'inefficienza del parlamentarismo, che trovava facili consensi anche negli ambienti piccolo-borghesi. "Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente", dichiarò Mussolini, il quale, oltre a interpretare gli ideali patriottici della piccola borghesia, capì che la debolezza della classe dirigente, incapace di stabilizzare la situazione economica e sociale, si poteva vincere solo conquistando i favori dei gruppi dominanti del padronato industriale e dei proprietari terrieri, sempre più intolleranti verso le manifestazioni popolari e pronti ad appoggiare chiunque fosse disposto a usare la "mano forte". Così, nel giro di pochi mesi, la propaganda fascista conquistò terreno e, senza far segreto di una volontà autoritaria, dichiaratamente antidemocratica, cercò di sfruttare il malcontento e di incanalare la spinta reazionaria delle forze borghesi e conservatrici, già deluse per la "vittoria mutilata" a Versailles e atterrite dalla ascesa delle classi popolari, che sembravano voler scuotere e schiacciare il tradizionale assetto gerarchico della società italiana. Inoltre, insieme al crescente squilibrio fra Nord e Sud, esasperato dai contrasti interni fra ceti padronali e proletariato operaio e contadino, il passaggio dalla vecchia economia agricolo-artigianale alla grande industria capitalistica (specie nel "triangolo" Milano-Torino-Genova) tendeva ad accrescere il peso dei più forti gruppi imprenditoriali, ma nello stesso tempo portava alla ribalta il proletariato operaio, sminuendo il ruolo che i ceti medi avevano continuato a svolgere dal periodo post-risorgimentale fino agli anni giolittiani del primo Novecento.

Il fascismo rifiutava ogni forma di lotta fra le classi e faceva appello al principio della superiore "unità nazionale", intesa come un organismo vivente cui dovevano essere subordinati tutti gli interessi particolaristici. Parve quindi, inizialmente, fornire un'efficace alternativa tanto alla debolezza di una classe politica dilaniata da insanabili contrasti interni, che mettevano capo a continue crisi di governo, quanto alle velleità rivoluzionarie dei socialisti, che si scontrava con le opposte cautele delle centrali sindacali, ancora fiduciose di spingere la borghesia sulla via delle riforme. Ma proprio l'esaltazione di un ipotetico primato nazionale, da raggiungere non più nel segno della politica liberale, che aveva caratterizzato tutto il periodo del Risorgimento e la storia postunitaria, ma attraverso un esplicito rifiuto degli ideali democratici e una vigorosa difesa della "diseguaglianza irrimediabile e benefica degli uomini", accentuò il ricorso ai metodi della violenza fisica, con l'intervento delle squadre d'azione Queste si diffusero alla prima sconfitta politica accusata dal movimento nelle elezioni del 16 novembre 1919: il fascismo riuscì infatti a presentarsi solo a Milano.

L'alta industria aveva trovato nel fascismo la forza da opporre alle rivendicazioni operaie, agli scioperi, alle durezze della lotta sociale che raggiunse il vertice con l'occupazione delle fabbriche nel 1920. Nella Valle Padana e nell'Italia meridionale, dove dominava la grande proprietà fondiaria e il bracciantato soffriva delle peggiori condizioni di sottoccupazione e dove i contadini alla testa di organismi sindacali avevano tentato l'occupazione delle terre, il fascismo divenne lo strumento della reazione e sviluppò massicci attacchi contro gli avversari, con spedizioni punitive, incendi, devastazioni, assassini, soprattutto nei confronti dei socialisti e dei cattolici-popolari. Giolitti, reputando che il fascismo sarebbe stato un fenomeno transitorio, consentì alla sua strumentalizzazione per spegnere la carica rivoluzionaria dei socialisti, nel presupposto che la lotta contro rossi e bianchi avrebbe smorzato la carica dei neri per il conseguito ideale Partito Nazionale Fascista.

Il movimento fascista, divenuto partito (novembre 1921), cercò di darsi una dottrina e, poiché il grande momento per i socialisti era passato, Mussolini, prima di puntare decisamente al potere, tentò la politica delle alleanze. Entrò, per le elezioni del 1921, nei blocchi nazionali giolittiani, ottenne un primo successo mandando alla camera 35 deputati e cercò l'alleanza con i socialisti e i popolari. Era l'equivoco di una grande coalizione che portò al patto di pacificazione con i socialisti ma che non convinse i fascisti intransigenti e rappresentò una parentesi brevissima, perché pochi mesi dopo riprendevano scontri, lotte, violenze e il fascismo nuovamente autonomo, si appoggiava ai liberali, convinti che il movimento di Mussolini avrebbe restituito a molti il senso dello Stato. E infatti Mussolini espose nella sua Dottrina del fascismo una concezione dello Stato che sembrava riallacciarsi al pensiero risorgimentale, nutrito di concetti idealistici hegeliani (accolti del resto dallo stesso Croce che non intuì subito la minaccia del movimento, sperando di vedervi soltanto forze nuove capaci di un loro apporto risoluto); ma in realtà il fascismo pretese di costruire uno Stato che accogliesse in sé ogni individualità per annullarla nella concezione di una propria priorità assoluta volta solo ad affermare il primato del dominio e della forza. Nello Stato vide l'organo supremo per garantire la libertà individuale. L'assolutismo dello Stato diventò facilmente assolutismo di guida, unicità di potere, volontà di uno. Di conseguenza, il drastico annullamento della volontà individuale significava esaltazione mistica del sacrificio, subordinazione assoluta alla volontà del capo per il bene della Patria. Il fallimento dello "sciopero legalitario" dell'agosto 1922, la dimostrazione fascista di saper intervenire contro ogni tentativo di sovversione, aprirono senz'altro al fascismo la via del potere. La marcia su Roma non fu tuttavia la conquista del potere, ma il cammino verso il potere e, mentre socialisti e comunisti si schierarono subito all'opposizione, molti rappresentanti della vecchia classe politica liberale, non diversamente da una parte dei popolari, si illusero di poter controllare l'ascesa del fascismo al potere, incanalandolo nell'ambito della vita democratico-parlamentare. Il primo governo di Mussolini, formato da fascisti, da liberali, da popolari e da indipendenti, poté così ottenere una larga maggioranza alla Camera; ma la speranza di una rapida normalizzazione non si realizzò, mentre lo svuotamento delle istituzioni parlamentari e l'avvio verso un sistema dittatoriale cominciarono subito con l'inquadramento delle camicie nere nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, vero esercito di partito messo direttamente "agli ordini del capo del governo" e con la creazione del Gran Consiglio del fascismo destinato nel 1928 a diventare l'organo supremo che avrebbe coordinato e integrato tutte le attività del regime.

Inoltre, la riforma elettorale del 1924, con la legge Acerbo che riduceva la rappresentanza delle forze di opposizione, non solo non mise a tacere le intimidazioni fasciste ma accentuò le violenze e i brogli elettorali, che il deputato socialista Matteotti denunciò alla Camera, anche se l'atto coraggioso gli costò la vita a opera di alcuni sicari fascisti. Nonostante lo sdegno dell'opinione pubblica e la reazione degli altri partiti che abbandonarono il Parlamento su iniziativa di Amendola, Mussolini, col discorso del 3 gennaio 1925, diede una svolta decisiva al regime dittatoriale. Tra il 1925 e il 1928 furono varate le leggi (cosiddette "fascistissime") che consacrarono la nuova struttura e lo strapotere dello Stato. Croce e con lui Giolitti, Salandra, Orlando e altri dovettero arrendersi all'evidenza. Ogni speranza legalitaria o di riporto alla legalità del fascismo cadeva. Essa moriva con la soppressione della libertà di stampa, le persecuzioni contro gli antifascisti, col ripristino della pena di morte, l'istituzione di un tribunale speciale per reati politici, l'istituzione dell'O.V.R.A. polizia politica segreta, e con l'attribuzione al potere esecutivo di emanare norme di legge. I normali meccanismi dello Stato di diritto e i fondamenti della libertà politica e della sovranità popolare vennero sovvertiti, mentre a cominciare dal 1926 nelle amministrazioni comunali alla procedura elettiva del sindaco e del consiglio venne sostituita la nomina governativa del podestà e della consulta, così da sconvolgere l'intero ordinamento centrale e periferico nel processo di fascistizzazione dello Stato. il Parlamento risultò svuotato di ogni prerogativa e le elezioni (1929) vennero ridotte a semplici plebisciti di approvazione di una "lista unica" di deputati designati dal Gran Consiglio. Il capo del governo, che era contemporaneamente duce del fascismo, prese a occupare il vertice della piramide politica, che simboleggiava l'ordinamento gerarchico del regime, e venne sottratto a qualunque controllo o sanzione, con l'obbligo di rispondere solo al sovrano. Con le elezioni plebiscitarie del 1929 Mussolini poté contare su una Camera tutta composta da fascisti, e il carattere totalitario del fascismo finì rapidamente per coinvolgere ogni settore della vita italiana. La politica economica e sociale cercò di avviare una politica corporativista, per differenziarsi dal sistema liberale, che assicurava ampi margini all'iniziativa privata, e nello stesso tempo per respingere il modello collettivista, di tipo sovietico.

Mussolini dovette subire, pur di mantenere il comando, forti pressioni, non solo dai vecchi centri di potere ma anche dai maggiori centri economici. La pianificazione economica varata dal conte Volpi, industriale e finanziere, chiamato al Ministero delle Finanze fu causa di gravi difficoltà. I salari italiani, nel 1930, erano al penultimo posto in Europa, seguiti solo da quelli spagnoli. I salari dei contadini venivano sempre più compressi per consentire ai produttori di sopportare la concorrenza straniera favorita dall'alto corso della lira. Il fascismo aveva autorizzato i proprietari agrari, come gli industriali, a rifarsi sui lavoratori e pubblicamente elogiava il sacrificio accettato.

L’organizzazione paramilitare della scuola, l'istituto dell'Opera Nazionale Balilla (O.N.B.) valse a monopolizzare, fin dalle prime classi elementari, il processo di formazione educativa dei giovani secondo il principio del "credere, obbedire, combattere", che tendeva a fare di ogni cittadino essenzialmente un "soldato", pronto a rispondere agli ordini e fedele esecutore delle direttive imposte dall'alto. Imbevuto di retorica, il fascismo creò una divisa per ogni italiano, dalla più tenera età fino alla maturità. Marciarono, sfilarono in ogni paese d'Italia, al grido di Viva il Duce!, figli della lupa, piccole italiane, balilla, avanguardisti, giovani fascisti e fasciste, fascisti, donne fasciste e massaie rurali, salutando romanamente, battendo il passo romano. Nella scuola fascistizzata, l'insegnamento travisò la storia. Nacque la scuola di mistica fascista. L'obbedienza al fascismo divenne un obbligo per gli stessi professori universitari, ai quali venne imposto il giuramento come condizione per poter mantenere la cattedra.

Dopo aver costretto la maggioranza degli oppositori a patire carcere e violenze o a trovare asilo politico all'estero, per meglio rafforzare la propria posizione interna il regime fascista aveva trovato un accordo con la Chiesa cattolica, chiudendo il lungo capitolo della cosiddetta questione romana e realizzando attraverso i Patti Lateranensi del 1929 la conciliazione fra lo Stato italiano e la Santa Sede, così da garantire a Mussolini l'appoggio delle più alte gerarchie ecclesiastiche. L'accordo non fu giudicato favorevolmente dai fascisti. Molti furono i malumori per il pesante riscatto imposto dalla Chiesa, ma quest'ultima, che pur vedeva il cattolicesimo riconosciuto come religione di Stato, accettava il divieto per i cattolici di organizzarsi in partiti politici. Ciò non impedì all'Azione Cattolica di svolgere la propria azione presso i giovani al di fuori dello spirito fascista, tant'è vero che nel 1931 il regime fascista accusò esplicitamente l'Azione Cattolica di sottrarre uomini e giovani alla disciplina fascista. Sembrò la rottura, ma si giunse al compromesso e il fascismo mantenne l'appoggio della Chiesa.

L'ascesa del fascismo culminò nel 1936 con la conquista dell'Etiopia, la proclamazione dell'impero e la vittoria sulle sanzioni economiche proclamate da cinquantadue Stati della Società delle Nazioni che aveva condannato l'aggressione italiana in Africa. Furono sanzioni "blande", cui non aderì la Germania, quasi le vecchie democrazie credessero al fascismo e al nazismo come ai necessari baluardi contro il comunismo e volessero compiacerli solo per controllarli. Il fascismo, tuttavia, non mirava solo al colonialismo, ma a fascistizzare l'Europa. L'asse Roma-Berlino e il contemporaneo intervento in Spagna rivelarono al mondo che gli Stati democratici nulla più potevano e dovevano concedere a un fascismo ormai pronto ad assimilare e a partecipare alla politica di espansione nazista. Il nazi-fascismo mirava ora ad annettere ogni terra dove vivessero in preponderanza tedeschi e italiani. Tutte le concessioni che l'Europa democratica aveva fatto a Hitler e a Mussolini furono dettate dalla speranza di salvare la pace, ma il nazi-fascismo rivelava intanto un altro aspetto della sua aberrante dottrina: il razzismo. Seguendo l'esempio di Hitler, Mussolini promulgò le leggi razziali (1938-39), creando la prima vera grande scissione tra il Paese e il regime. L'Italia, fatalmente trascinata dalla politica nazista, si trovò coinvolta (1940), assolutamente impreparata, nella Seconda Guerra Mondiale.

Le disastrose campagne di guerra in Grecia, in Russia e in Africa e lo sbarco delle truppe americane in Sicilia affrettarono la crisi del fascismo; il 25 luglio 1943, dopo il voto di sfiducia del Gran Consiglio, Mussolini fu costretto da Vittorio Emanuele III a lasciare il governo. Lo smarrimento e il caos nati dall'armistizio dell'8 settembre 1943 consentirono, con l'appoggio dei Tedeschi, un rigurgito di potere fascista. Mussolini, liberato dalla prigionia sul Gran Sasso, ma ormai strumento di Hitler, fondò il 23 settembre 1943 la Repubblica Sociale Italiana, che estendeva la propria giurisdizione sulla parte dell'Italia centro-settentrionale occupata dai Tedeschi e aveva come programma il "manifesto di Verona", elaborato dal congresso del Partito Fascista Repubblicano nel novembre 1943. Ma gli sforzi di "rilanciare" il fascismo, applicando alcune misure di socializzazione in campo economico, per richiamarsi alle antiche origini "popolari" del movimento, fallirono di fronte al dilagare della guerra, che dimostrava imminente la disfatta nazi-fascista, mentre i movimenti di resistenza partigiana si diffondevano soprattutto nel Nord.

Nell'autunno-inverno 1944-45, con lo stabilizzarsi del fronte sulla "linea gotica", alcuni provvedimenti, come la requisizione delle aziende e la distribuzione di viveri alla popolazione, furono l'ultimo, inutile sforzo per riguadagnare la solidarietà dell'opinione pubblica al fascismo. Il 25 aprile 1945, mentre anche la Germania hitleriana era ormai incapace di sostenere la massiccia offensiva degli eserciti alleati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e U.R.S.S.), con la liberazione di Genova e di Milano il fascismo vedeva irrimediabilmente segnata la sua condanna a morte. Finiva così, con una disastrosa sconfitta, dopo un ventennio di errori e di orrori, quel movimento politico che fin dal suo primo manifestarsi venne avversato dai partiti democratici, ma che si affermò anche grazie alla spinta della borghesia, all'astensione della maggioranza ed all'incomprensione di troppi intellettuali.

L'irresistibile ascesa di Adolf Hitler

Quando Adolf Hitler prese il potere in Germania, il 30 gennaio 1933, non lo fece come dittatore, ma seguendo un percorso, nella forma costituzionale, perfettamente democratico. L'ex imbianchino e caporale decorato al valore della Prima guerra mondiale, l'ipnotico retore austriaco che tra i tavoli delle birrerie di Monaco aveva infiammato i reduci umiliati, i disoccupati, i perdenti di una Storia rivoltatasi contro il destino tedesco, aveva ottenuto la carica di capo del governo come ogni abile politico prima di lui: conquistando il favore della gente, raccogliendo voti.
Il primo governo Hitler fu infatti un governo di coalizione, nel quale il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori possedeva soltanto tre ministeri su undici.

La storiografia non ha smesso di interrogarsi sulle responsabilità oggettive del popolo tedesco nella scalata al potere di una delle più grandi figure criminali di questo secolo, quel che è certo però è che - benché per avvicinarsi alla massima carica del governo tedesco Hitler avesse blandito con astuzia ogni ceto sociale, minimizzando gli aspetti estremistici del suo progetto politico - la Germania degli anni Trenta conosceva perfettamente il percorso di questo carismatico personaggio venuto dal nulla. Un libro, il Mein Kampf, stava ad attestare dove si dirigesse l'utopia del programma hitleriano, e ciascun tedesco poteva cancellare ogni dubbio sulle intenzioni del nazismo semplicemente andando ad acquistarne una copia in libreria.

La Germania, quindi, non voleva vedere. Troppo profonde le ferite dalle quali stava cercando di guarire, troppa la paura che un fantasma, "innaturale" per la tradizione culturale e mentale tedesca, si impossessasse del paese: il disordine. La Germania di Weimar era infatti un territorio attraversato da continue incertezze politiche, economiche e sociali, un humus pericoloso dal quale, dopo la crisi del 1929 germogliata in America e dilagata in Europa, gli estremismi politici trovavano una straordinaria capacità di fioritura. Gli scontri tra simpatizzanti comunisti e nazisti, e tra questi e le forze dell'ordine, erano infatti cronaca quotidiana.

Il vento del leninismo soffiava sul continente, e la stessa socialdemocrazia ne sembrava travolta. Quello che i nazisti offrivano al popolo tedesco era ciò che esso anelava di sentirsi dire: il recupero dell'orgoglio nazionale, il ritorno all'ordine e alla stabilità, la difesa di determinati privilegi di corporazione. È erroneo, però, definire il nazismo un movimento conservatore. Esso fu, piuttosto, un incoerente miscuglio di reazione e rivoluzione, e questo secondo aspetto era espresso dalla forte carica anticapitalista, e socialista del movimento delle SA  (formazione paramilitare). Un deliberato proposito di vaghezza ideologica caratterizzò quindi i primi passi del partito nazista, che intendeva così blandire il maggior numero di tedeschi. Mentre le forze politiche concorrenti rappresentavano un preciso blocco sociale e determinati interessi, i propagandisti nazisti arrivavano a modificare il proprio messaggio a seconda dell'uditorio che si trovavano di fronte.

Alcuni attivisti non si fecero scrupolo a cantare vecchie canzoni socialiste, modificandone il testo, e in qualche occasione, tra affiliati, si chiamavano "compagni", come era d'uso tra gli attivisti di sinistra. Agli agricoltori, i nazisti promettevano un ritorno alle felici tradizioni rurali della vecchia Germania; agli Junker (i grossi possidenti terrieri prussiani) assicuravano il mantenimento dei vecchi privilegi e dei rigidi rapporti tra grandi e piccoli proprietari di terra; ai commercianti e piccoli borghesi promettevano una politica dura verso i grandi monopoli economici e capitalisti, così come sarebbero stati inflessibili contro il marxismo che minacciava la libera impresa e la proprietà privata; agli operai, infine, i nazisti promettevano una politica sociale attenta al popolo lavoratore (non dimentichiamo che la dicitura completa del partito era Partito Nazionalsocialista dei lavoratori).

Un aspetto "programmatico", però, non subiva adattamenti di sorta: era il razzismo. Nei cosiddetti Venticinque Punti del programma hitleriano, infatti, questo elemento, insieme al disprezzo per la Repubblica di Weimar e un nazionalismo intransigente, assurgeva a vero e proprio segno distintivo dalle altre forze politiche. Alle elezioni nazionali del settembre 1930, i nazisti ottennero sei milioni e mezzo di voti e risultarono il partito più votato dopo i socialdemocratici. Fu proprio nella caotica situazione politica dei primi anni Trenta che il partito nazista riuscì a sfruttare la situazione e a raccogliere un consenso sempre maggiore nelle frequenti consultazioni elettorali. Ancora nel 1932, il governo tedesco indisse nuove elezioni nazionali nel tentativo di creare una maggioranza in grado di garantire una normale legislatura.

In questa occasione i nazisti eseguirono un autentico capolavoro propagandistico e "di convincimento", bilanciando astutamente un'abile campagna di attivismo (parate, dimostrazioni, convegni) a veri e propri atti di squadrismo per zittire la voce degli avversari. Entrambi questi comportamenti diedero ai tedeschi una duplice sensazione: che i nazisti fossero dotati di uno slancio idealistico superiore agli altri attivisti (ogni strada era coperta da manifestini, volantini, i marciapiedi erano dipinti con svastiche) e che - come conseguenza - il futuro fosse ineluttabilmente loro. Nei piccoli centri, in occasione di queste lezioni, il partito nazista raccolse i maggiori consensi. Pur non diventando la maggioranza assoluta, i nazisti divennero però il classico ago della bilancia, una forza dalla quale non si poteva più prescindere. Conservatori e nazionalisti si rassegnarono quindi ad assistere alla scalata alla carica di Cancelliere di Hitler, nominato nel gennaio 1933 dal presidente Hindenburg.

L'inverno che fece da cornice a questo simbolico "passaggio di consegne" tra una Germania e l'altra, quella tradizionalista e austera del vecchio eroe di guerra Hindenburg e quella esaltata ed aggressiva di Hitler, fu premonitore di un inverno della ragione che sarebbe calato sul paese. Hitler non perse tempo nel costruire a veloci tappe le fondamenta di un sistema totalitario senza precedenti nella storia europea (al di là degli Urali, peraltro, il totalitarismo era già realtà, e quello stesso anno avrebbe ricevuto la definitiva consacrazione con il consolidamento del potere di Stalin): ogni elemento fu sfruttato, nulla fu lasciato al caso, e diversi pretesti permisero a Hitler di impossessarsi del potere assoluto. Il primo passo avvenne nel febbraio di quell'anno: il giorno 27 un giovane anarchico olandese appiccò il fuoco al Reichstag di Berlino. Questo atto servì di pretesto a Hitler per sostenere che la Germania era sul punto di cadere sotto il maglio della rivoluzione comunista.

Il giorno seguente ottenne dal presidente Hindenburg l'approvazione di un decreto che va ricordato come il primo mattone del regime nazista: le "Leggi per la Difesa del Popolo tedesco". Ossia, fuor da ogni eufemismo politico, la sospensione "temporanea" dei diritti civili. Sfruttando un'emergenza, quindi, Hitler otteneva il nulla osta per scatenarsi contro i propri nemici, sicuro di non pagarne le conseguenze. Le formazioni paramilitari delle SA e delle SS ne approfittarono immediatamente per scatenarsi contro ebrei, comunisti, oppositori in genere. 40.000 uomini agli ordini del Führer ottennero la completa immunità e non ebbero problemi a distruggere le sedi dei partiti avversari, bruciare il loro materiale propagandistico, arrestare i nemici, chiudere le tipografie "sgradite", interrompere i raduni socialdemocratici.

In questo clima allucinante, a marzo, si tennero nuove elezioni, che diedero ai nazisti la maggioranza tanto agognata: insieme agli alleati nazionalisti, essi ottennero il 52 % dei voti. Nasceva così un "legittimo" governo di coalizione. Due settimane dopo Hitler strappava da un Reichstag obbediente una "Legge sui pieni poteri" (Ermächtigungsgesetz), che dava al gabinetto governativo (al Führer, cioè) il potere di promulgare leggi, stabilire il bilancio, firmare trattati con paesi stranieri e attuare emendamenti alla Costituzione. La libertà era morta definitivamente. Il progetto di nazificazione della Germania partì senza indugi e prese l'asettico nome di Gleichschaltung (coordinamento, allineamento).

Come prima cosa i partiti diversi da quello nazista (anche gli alleati nazionalisti) vennero sciolti, in secondo luogo i sindacati vennero aboliti. Il "coordinamento" significava, d'ora in poi, una sola cosa: ogni istituzione, organizzazione, associazione, ogni entità che si proponessero di riunire individui doveva passare sotto il controllo del partito nazista. "Questa fu la rivoluzione nazista - scrive Alan Bullock, tra i migliori storici dell'hitlerismo - prodotto di tre elementi. Il primo fu l'utilizzazione dell'autorità legalmente ottenuta per impadronirsi delle risorse dello stato e del suo apparato amministrativo. I nazisti si garantirono così il controllo della polizia, la neutralità delle forze armate e il potere (che esercitarono senza scrupoli) di liquidare ogni funzionario sospetto non diciamo di opposizione ma di semplice indifferenza nei confronti del nuovo regime. Il secondo elemento fu il terrorismo, che consisteva non nella violazione della legge e dell'ordine ma in qualcosa di ancor più sconvolgente, cioè nella deliberata ignoranza della loro esistenza. […] Al potere coattivo del terrorismo si aggiunse il potere di attrazione di una martellante propaganda condotta per mezzo della radio, della stampa e del cinema per annunciare la rinascita nazionale della Germania. E questo fu il terzo elemento". Hilter, la cui autorità era ovviamente assoluta, puntò alla costruzione di un sistema di potere dove qualsiasi carica sotto di lui avesse uno o più corrispettivi e concorrenti in altre sezioni. Questa particolare sovrapposizione burocratica, benché potesse sembrare autolesionista e assurda ai fini dell'efficienza amministrativa, permetteva ad Hitler di mantenere saldo il potere, senza far apparire all'orizzonte scomodi rivali. Gauleiter, ufficiali, presidenti di varie associazioni si videro assegnare poteri i cui confini non erano perfettamente definiti. Le sovrapposizioni tra gli organismi del partito e quelli tradizionali dell'amministrazione, poi, era totale, causando continui conflitti di competenza. Il risultato era che nessuno sapeva di chi fosse superiore: l'unica cosa certa era che, sopra tutto e tutti, ci fosse il Führer.

La tanto decantata efficienza teutonica, quindi, risultò nel regime nazista un falso mito: l'organizzazione del Partito e dello Stato, in continua concorrenza, subirono gravissimi rallentamenti ed inefficienze. Sempre secondo questa logica del "divide et impera", gli stessi uomini vicini al Führer ottennero onorificenze e potere, ma per tutta la durata del regime vissero in continua competizione e odio reciproco. Rudolf Hess, il fido compagno di cella che scrisse sotto dettatura il Mein Kampf, divenne "vice-Führer", ed ottenne un grosso potere nel partito, ma quasi subito Hitler conferì a Robert Ley, capo del Fronte Tedesco dei Lavoratori (il sindacato di regime) la carica parallela di capo dell'organizzazione del partito. Hess e Ley per tutti gli anni trenta si ostacolarono e avversarono vicendevolmente.

Ovviamente i peggiori scontri tra funzionari pubblici e membri del partito si ebbe nell'ambito del ministero degli Interni. Il titolare del ministero fu Wilhelm Frick, ex ufficiale di polizia a Monaco, collaboratore di Hitler sin dai giorni del Putsch fallito del 1923. Nell'aprile 1933 Frick introdusse la "Legge per la ricostruzione dell'Amministrazione Pubblica": essa causò l'espulsione dagli uffici pubblici di ebrei, comunisti, socialdemocratici, ma riuscì a mantenere nei ranghi coloro che semplicemente non erano iscritti al partito. Abilmente, Frick riuscì così a mantenere una decorosa struttura di base all'amministrazione, più di un milione e mezzo di funzionari che, altrimenti, avrebbero perso il posto.

La nazificazione della Germania continuò inarrestabile nei due anni a seguire. Il 1935 si rivelò una anno fondamentale sulla strada dell'edificazione totalitaria. A quel tempo risalgono infatti le "Leggi di Norimberga", con le quali il regime cominciava a dare una struttura ed un rigore al progetto razzista di discriminazione prima e annientamento poi degli ebrei e delle altre "razze inferiori" (slavi, ad esempio). Con queste leggi, Hitler assecondava le spinte di quella frangia di partito che vedeva nell'adottamento di misure razziste un elemento fondante della rivoluzione nazista. La persecuzione, quindi, veniva regolamentata, e avrebbe raggiunto il culmine (ovviamente, prima della scientifica adozione delle misure riguardanti la "Soluzione Finale", quindi la barbarie di Auschwitz) con la famigerata Krsitallnacht, la Notte dei Cristalli tra il 9 e il 10 novembre del 1938 quando SA, SS e simpatizzanti nazisti si scatenarono (la stampa parlò di "attacco spontaneo del popolo tedesco") contro i negozi e i luoghi di culto degli ebrei. "Gli aggressori - scrive Bullock - restarono impuniti, mentre gli ebrei furono multati di un miliardo e duecentocinquanta milioni di marchi e si videro confiscate dallo stato tutte le somme che le società di assicurazione avrebbero dovuto pagare per risarcirli dei danni.

A questa cosiddetta notte dei cristalli seguì la vendita coatta di imprese e di beni mentre gli ebrei venivano sfrattati, arrestati in massa e mandati ai lavori forzati". Riguardo la nascita delle Leggi di Norimberga, la leggenda narra che il 14 settembre 1935, il giorno prima di pronunciare il discorso annuale al raduno del partito a Norimberga, Hitler decise di rendere più duro il proprio testo. Per questo motivo convocò Frick e, insieme a lui, stabilì nella notte i punti cardinali che avrebbero stroncato per sempre lo stesso concetto di cittadinanza per gli ebrei. Il giorno seguente, i cittadini tedeschi di origine ebraica si sentirono dire che non erano più tali. Non solo: la "Legge per la difesa del sangue tedesco e dell'onore tedesco" proibiva i matrimoni tra cittadini tedeschi ed ebrei, vietava agli ebrei di impiegare personale femminile non ebreo di età inferiore ai 45 anni, e di esporre la bandiera del Reich. Questi provvedimenti, che potremmo ben definire epocali e che sono passati alla storia come il paradigma della persecuzione razziale, nacquero quindi in modo casuale. Ovviamente, per reagire all'adozione di queste abominevoli armi legislative, gli ebrei (e qualsiasi cittadino tedesco non nazista) non potevano trovare aiuto nel potere giudiziario.

La nazificazione, infatti, agì con straordinaria efficacia anche nei confronti della Magistratura. Come nel caso dell'amministrazione pubblica, Hitler puntò a inserire elementi fedeli al partito tra i magistrati. Bisogna anche dire che, a quel tempo, la Magistratura tedesca era caratterizzata da convinzioni sicuramente conservatrici ed autoritarie, e quindi accettò la "colonizzazione" nazista come il minore dei mali. Oltre ai magistrati, anche avvocati e giudici finirono nelle maglie del regime. Gli avvocati furono obbligati ad iscriversi all'unico Ordine possibile, l'Associazione Nazista degli Avvocati, che intimava ai propri membri di fare il saluto nazista in tribunale e "svolgere il proprio dovere di elettori" in occasione delle consultazioni.

La stessa procedura giudiziaria subiva una sorta di rivoluzione ideologica: ad esempio, un avvocato diventava responsabile dello spergiuro del proprio assistito, ed un giudice che non "avesse agito nell'interesse dello Stato nazionalsocialista" era passibile di dimissioni coatte. Ovviamente, come in ogni sistema totalitario (basti confrontare l'esperienza sovietica nel periodo delle purghe staliniane) il potere del pubblico ministero accrebbe a dismisura, usurpando molti poteri del giudice (visione di lettere scritte all'imputato e al suo avvocato, vaglio delle richieste di grazia, etc…). "Poiché il nazionalsocialismo e la giustizia sono una cosa sola, non vi dovrebbero essere distinzioni tra il giudice ed il pubblico ministero": questa era una delle considerazioni assolutamente normali durante gli anni del regime hitleriano.

La nazificazione dell'ordine giudiziario portò ad un aumento incredibile dei reati: se nel 1933 i reati punibili con la pena di morte erano solo tre, dieci anni dopo erano quarantasei. La pena capitale non era sempre vincolata al tipo di reato, ma ai presupposti di "redenzione" dell'imputato. Accadeva che si fosse condannati a morte anche per semplice truffa, se non si riusciva a dimostrare alla corte la propria capacità di diventare un elemento utile al popolo tedesco. Nuovi reati minori si affacciarono sul codice civile e penale: scarso entusiasmo verso Hitler, aspetto semitico, lamentele nei confronti del governo. La sospensione del principio dell'habeas corpus, poi, decretò che ogni cittadino tedesco poteva essere arrestato senza processo: ciò permise ad SS e Gestapo - che dal 17 giugno 1936 finirono entrambe sotto il ferreo controllo di Heinrich Himmler - di agire indisturbate nei confronti di chi giudicavano "sospetto". "Nacque così - scrive Alan Bullock - quello che gli storici tedeschi chiamano l'esecutivo illegale, un apparato con cui il Führer, verso nessuno responsabile tranne che verso se stesso, poteva spazzare via ogni ostacolo al suo potere di agire al di fuori della legge o addirittura contro di essa. Il terrorismo e la polizia segreta, come la propaganda e la censura, erano componenti essenziali della società totalitaria che i nazisti stavano creando e produssero il consueto accompagnamento di delazioni, persecuzioni e corruzioni".

Qualcuno cercò di opporsi a questo stato di cose, ma fu una netta minoranza. Che fosse annichilito dal controllo soffocante del regime su ogni individuo, o sinceramente entusiasta per la "nuova Germania" che andava profilandosi all'orizzonte, il popolo tedesco cessò di essere protagonista dei destini del proprio paese. Un esempio di come il regime potesse soffocare il dissenso intellettuale fu quello del coraggioso giornalista Carl von Ossietzky, insignito del premio Nobel per la pace, direttore del giornale di sinistra berlinese Die Weltbühne, e feroce accusatore dei nazisti e delle Forze armate. Von Ossietzky fu boicottato dal regime, impedito a recarsi a Stoccolma per ricevere l'onorificenza, arrestato e deportato nel campo di concentramento di Esterwegen, dove fu torturato e minato per sempre nella salute. La propaganda nazista, per compromettere la sua immagine, diffuse a più riprese la notizia che si era convertito al nazismo.

Il 14 maggio 1938 Von Ossietzky, nonostante le pressioni internazionali per la soluzione dell'esilio e l'intervento di personaggi carismatici come Albert Einstein, morì in un ospedale tedesco, all'età di 48 anni. Da quell'occasione la Germania non riconobbe più il Premio Nobel. "Quando un avversario mi dice: io non mi schiererò con te, io gli rispondo calmo: tuo figlio è già con noi… Tu passerai, ma i tuoi discendenti sono già adesso nel campo nuovo. Tra non molto conosceranno solo questa nuova comunità". Queste inquietanti parole pronunciate da Hitler fanno ben comprendere come il Terzo Reich puntasse ad un dominio millenario, e desse molta importanza a "seminare" le proprie idee in quelli che sarebbero stati i cittadini tedeschi del futuro: i giovani. Questo millenarismo, la convinzione di stare creando non solo una nuova Germania, ma una nuova comunità prima all'interno dei confini tedeschi, poi in tutto il mondo, rese il regime nazista estremamente sensibile in due campi, in effetti tra loro complementari: l'educazione scolastica e la religione.

Agendo sulla cultura, e quindi sulla memoria del paese, e minando alla base le chiese cristiane (un contro-potere che il regime faceva bene a temere), i nazisti puntarono a creare una nuova società dove i giovani non avrebbero avuto altro dio all'infuori del Führer, e il normale anelito alla trascendenza sarebbe stato sostituito da una vaga mistione di cristianesimo e paganesimo. Il controllo delle Chiese ebbe il via con un alleanza con la Chiesa luterana per indebolire e delegittimare la Chiesa cattolica, anche se in seguito gli stessi luterani si resero conto che i nazisti puntavano al controllo assoluto del pensiero religioso.

Nacque così il Movimento Cristiano tedesco, un gruppo di ispirazione nazista, che velocemente si allargò fino a inglobare qualsiasi associazione di attivismo religioso. Una sorta di culto pagano intorno alla figura del Führer e alle ricorrenze della storia nazista venne sostituito alle tradizionali festività religiose. Il vero Natale nazista divenne quindi il 20 aprile, compleanno di Hitler, una delle festività più importanti. Il 30 gennaio, anniversario della presa del potere, era un'altra festività importante; il Primo Maggio, il 21 giugno, Solstizio d'Estate; in settembre, il raduno di Norimberga; il 9 novembre anniversario del Putsch fallito a Monaco nel 1923; la Festa del Raccolto in ottobre; il 21 dicembre, Solstizio d'Inverno (la Julfest), si assumeva il compito di sostituire e sminuire il Natale cristiano. Il rito matrimoniale assunse modalità paganeggianti: accanto ai voti religiosi le coppie dovevano sottostare a giuramenti alla Germania e a Hitler. Le SS addirittura compivano riti nazisti per il battesimo dei propri figli e ogni altro sacramento.

Durante la sua scalata al potere Hitler evitò qualsiasi scontro con l'autorità religiosa (la Germania era per due terzi protestante e per un terzo cattolica, ma quest'ultima Chiesa deteneva maggiore potere organizzativo), anzi cercò di ottenerne i favori stimolando i suoi rappresentanti a partecipare agli affari di stato, e attaccando in continuazione il materialismo marxista. Hitler aveva ricevuto un'educazione cattolica, ma da sempre avversava il Vaticano, rappresentato politicamente in Germania dal Partito Cattolico del Centro. Nei luterani, la cui organizzazione era maggiormente decentralizzata e, non dimentichiamolo, priva di una netta gerarchia ecclesiastica, Hitler riconosceva un avversario molto più malleabile.

Gli stessi luterani, poi, erano di idee molto conservatrici e diffidenti verso le nuove forme democratiche della Repubblica di Weimar: questo li portò, dapprincipio, a parteggiare per Hitler. Il Führer sfruttò questa simpatia iniziale per aumentare la presenza nazista tra i protestanti. Nacquero così associazioni come il Movimento per la Fede dei Cristiani tedeschi che, dall'interno, avrebbero dovuto lentamente erodere e infine annientare i valori che, apparentemente, sostenevano: una sorta di quinta colonna, quindi, all'interno del mondo religioso. Il Movimento venne affidato alla guida del reverendo Joachim Hossenfelder, consigliere per le questioni religiose. Hossenfelder definì i Cristiani Tedeschi "le SA di Gesù Cristo", e questo può bastare a definire l'uomo e le sue finalità. Nelle comunità protestanti, i Cristiani tedeschi avevano il "sacro" compito di instillare nei credenti un acceso nazionalismo e un feroce antisemitismo, oltre a sentimenti fortemente anti-cattolici.

Per limitare la capacità di interferenza dei cattolici Hitler chiese al vice-cancelliere Franz Von Papen (ex membro del Partito cattolico del Centro) di avvicinare il Vaticano per una sorta di "compromesso": tolleranza in cambio di desistenza dall'opposizione. L'uomo di Roma deputato a rispondere all'approccio fu il cardinale Eugenio Pacelli che di lì a poco sarebbe diventato Papa Pio XII. Il Vaticano, timoroso per possibili persecuzioni nei confronti dei cattolici e, allo stesso tempo, che il nuovo regime considerasse il protestantesimo religione di stato, non tardò ad accettare. Nelle chiese cattoliche entrarono così vessilli nazisti, nelle prediche non erano inusuali riferimenti e lodi a Hitler e venivano cantate canzoni naziste durante il rito.

Il Sindacato Cattolico e la Lega Cattolica si auto-sciolsero. Il "concordato", poi, valse la parola di Hitler, cioè nulla: nel 1934 i Giovani Hitleriani cominciarono ad assaltare le sedi delle associazioni cattoliche, le SS e la Gestapo perseguitarono le figure dell'associazionismo cattolico più rappresentative e le proprietà della Chiesa cattolica vennero in parte confiscate. La Chiesa luterana, intanto, veniva fagocitata inesorabilmente dai nazisti: la riorganizzazione in 28 chiese provinciali all'interno della cosiddetta Chiesa del Reich, sotto un unico vescovo, permetteva ai nazisti un controllo pressoché assoluto. A questa alta carica fu nominato un oscuro cappellano di nome Ludwig Müller, ovviamente filo-nazista.

Müller puntò con decisione a cancellare l'autorità del Vecchio testamento ("con la sua morale ebraica della ricompensa e le sue storie di mercanti e concubine") e a "ripulire" il Nuovo testamento dall'apporto del "rabbino Paolo". Poco tempo dopo, si tennero curiose "elezioni ecclesiastiche", che diedero ai Cristiani tedeschi il potere assoluto. Il Sinodo dei pastori Cristiani Tedeschi che si tenne di lì a poco impressionò l'opinione pubblica di tutto il mondo: tutti e duecento i pastori vestivano uniforme bruna, stivali militareschi e distintivi nazisti, e nei loro sermoni non si esitava ad affermare che "Cristo è venuto a noi attraverso Adolf Hitler". Al termine del sinodo i pastori cantarono la "Canzone di Horst Wessel", inno del partito dedicato ad un giovane (e propagandisticamente costruito) martire della causa nazista.

Una figura importante per i luterani che avevano inizialmente sostenuto il regime hitleriano, ma che non volevano esserne fagocitati, fu quella di Martin Niemöller, pastore berlinese che, quando avvertì le intenzioni reali di Hitler, diede vita alla Lega di Emergenza dei Pastori. Essa nel 1934 arrivò a raccogliere 7000 sostenitori, spaventati dalle operazioni dei nazisti. La repressione attuata dalla Gestapo non tardò a farsi sentire: delazioni, intimidazioni e boicottaggi portarono allo smembramento della Lega e all'accusa di tradimento dello stato nei confronti di Niemöller. Il pastore, e tutti i suoi più stretti collaboratori, finirono in campo di concentramento: i fedeli e gli attivisti si divisero terrorizzati. L'ultimo sermone di Niemöller intimò ai tedeschi queste parole: "Non siamo più disposti a tacere per ordine di un uomo, quando è Dio che ci ordina di parlare". Una volta ottenuto il potere assoluto, Hitler non avrebbe esitato a sostenere lo "sradicamento del cristianesimo dalla Germania. Perché non si può essere tedeschi e al tempo stesso cristiani!".

L'indottrinamento dei giovani nel regime nazista

Così come avvenne per il regime sovietico, anche quello nazista si pose come uno dei principali obbiettivi quello dell'indottrinamento dei giovani. Così facendo il III Reich si assicurava non solo il futuro, ma l'interpretazione del passato. Ovviamente, tutta la storia del popolo tedesco e dell'Europa vennero visti attraverso il messaggio "salvifico" del nazismo, unica forza in grado di sconfiggere il marxismo e l'influenza potente e nefasta dell'ebraismo nel mondo.

"La gioventù tedesca del futuro - scriveva Hitler - deve essere snella e agile, veloce come un levriero, forte come il cuoio e dura come l'acciaio Krupp. Non occorre che abbia alcuna preparazione culturale. La conoscenza guasta i miei giovani. Una gioventù attiva, determinata e dominatrice, ecco ciò che voglio".

Parole inquietanti, ma spudoratamente sincere. Hitler, così disponendo, non faceva che riversare le proprie frustrazioni di studente fallito e mediocre artista, appassionato unicamente di disegno e ginnastica. La gioventù tedesca del regime avrebbe dovuto soprattutto eccellere nel fisico, piuttosto che nell'anima. Quest'ultima andava semplicemente consacrata al Führer. Il sistema scolastico tedesco, primo dell'avvento del nazismo, era uno dei migliori e più duri d'Europa, anche se la classe insegnante statale aveva di che lamentarsi, soprattutto dal punto di vista retributivo. Maestri e professori erano, inoltre, in maggioranza di convinzioni nazionaliste e conservatrici, e non pochi tra loro erano convinti antisemiti. La scuola, di conseguenza, si rivelò un terreno fertile per la propaganda nazista, e ben poche resistenze si registrarono all'interno della dirigenza scolastica.

Sin dai primi mesi dell'avvento al potere di Hitler gli effetti della politica nazista si fecero sentire nelle scuole. I primi a subirne le conseguenze furono, non c'è bisogno di dirlo, gli insegnanti di origine ebrea, poi i "dissidenti" e infine le donne sposate, per le quali il regime prevedeva un futuro da fedeli madri e mogli, "custodi del focolare". Come era avvenuto per ogni categoria professionale, il partito nazista non perse tempo a fagocitare ogni membro in un'unica associazione. Nel giro di un paio di anni, infatti, il 97% degli insegnanti risultò iscritto all'Associazione Nazista degli insegnati. Gli studenti, dalle elementari fino alle superiori, furono oggetto di una scientifica opera di demolizione meritocratica.

"Spontaneamente", bambini e ragazzi dovevano portare e bruciare i libri considerati "sgraditi", o a portarli al riciclaggio, dove si sarebbero trasformati in testi "adatti". I vecchi sussidiari vennero sostituiti da libri sulla vita del Führer, racconti a fumetti di stampo antisemita e libri di matematica dai contenuti "edificanti" (un esempio di problema: "Un moderno cacciabombardiere può portare 1800 bombe incendiarie, Quanto sarà lungo il cammino in cui scaricherà queste bombe, se ne getta una ogni secondo volando alla velocità di 250 km orari. Quanto disteranno fra loro i crateri prodotti dalle bombe?").

Seguendo le direttive del Führer, la ginnastica assurse ad attività scolastica principale. Le ore dedicate ad essa vennero più che raddoppiate, a scapito di quelle dedicate a materie come la religione, la storia dei paesi in cui non veniva parlata la lingua tedesca e, ovviamente, la letteratura, considerata un'espressione artistica pericolosa perché legata alla libertà di pensiero e dominata dalla presenza di autori ebrei. Il razzismo divenne una delle colonne educative fondamentali della scuola nazista: per passare agevolmente un esame di qualsiasi tipo bastava imparare con dovizia le teorie sulla superiorità della razza ariana, sull'inferiorità di quella ebrea e slava, sulle teorie biologiche naziste e sui miti del nord. Già nell'aprile 1933, solo quattro mesi dopo la salita al potere dei nazisti, il "Decreto contro il Sovraffollamento delle Scuole Tedesche" - formula eufemistica che nascondeva l'esplicita volontà d'epurazione - intimava che, in ogni scuola, la percentuale di studenti "non ariani" non dovesse superare l'1,5%. Il fine ultimo del nazismo, però, consisteva nel completo controllo delle giovani menti, non solo tra le quattro mura scolastiche, ma anche al di fuori, per tutto il resto della giornata. Un'attenta politica di omologazione venne condotta attraverso le numerose associazioni giovanili, le quali si assumevano compiti in fondo divertenti per i ragazzi, come campi estivi, attività sportive, feste e manifestazioni.

Soprattutto attraverso di esse, il regime cercava di convincerli a ritenersi la speranza e la linfa vitale della nazione, nonché a ritenere il Führer l'unico depositario della loro fiducia, al di sopra dei genitori, che andavano quindi apertamente criticati e "controllati". La principale associazione di partito fu la celebre Gioventù Hitleriana (corrispondente della sovietica Komsomol, la Gioventù comunista), nelle cui file il giovane tedesco sarebbe cresciuto nel culto di Hitler e del partito.

A gennaio del 1933 la Gioventù Hitleriana contava 55.000 membri, nel giro di pochi anni divenne la più grossa associazione giovanile del mondo occidentale. Questo eccezionale sviluppo lo si dovette, oltre che alla scientifica macchina della propaganda, alle capacità organizzative del suo direttore, il giovane, grasso ed effeminato Baldus von Schirach, che in poco tempo seppe conquistare la fiducia del Führer. Ad onor del vero, non fu solo l'efficienza organizzativa di von Schirach a dare il monopolio alla Gioventù Hitleriana: le associazioni concorrenti, come la conservatrice Grande Lega Tedesca, vennero sistematicamente boicottate dalle SA, e i giovani hitleriani ebbero il permesso di assaltare le sedi dei rivali, distruggendone documenti e proprietà. Non ci fu da stupirsi, quindi, quando il regime annunciò orgoglioso che la gioventù Hitleriana contava, alla fine del 1933, ben due milioni e mezzo di affiliati, ossia il 30% dei tedeschi tra i 10 e i 18 anni di età.

Per quanto riguardava le femmine, sorsero le associazioni della Lega delle Fanciulle (10-14 anni) e delle Giovani tedesche (14-18 anni), in pratica sezioni "rosa" della Gioventù Hitleriana. In queste associazioni il primato dell'efficienza fisica veniva subordinato alla retorica del ruolo materno e di moglie della donna nella famiglia tedesca: le pratiche "domestiche" divennero quindi la materia di studio e di allenamento principali. La donna tedesca veniva educata ad assumere così atteggiamenti consoni alla "dignità tedesca", ma non solo: lo stesso aspetto fisico doveva seguire precise direttive. La donna tedesca doveva essere in carne, vestire lunghe e pudiche gonne, sfoggiare trecce tradizionali. Severe punizioni (ad esempio, la rapatura a zero) attendevano quelle ragazze che avessero rifiutato questa omologazione estetica.

A dispetto di tutte le numerose attività organizzate dalla Gioventù Hitleriana maschile e femminile, non si poté fare a meno di registrare un aumento dei disturbi fisici e psichici nei giovani, nonché del deterioramento dei loro rapporti con i genitori. Sempre nel primo anno di potere, le SA e le SS, con l'aiuto del Ministero dell'Istruzione, crearono collegi per ragazzi chiamati Istituti per l'Educazione Politica Nazionale, i Napola. Essi sostituivano le tradizionali accademie prussiane per l'addestramento dei cadetti, le prestigiose scuole da cui venivano i migliori elementi della dirigenza militare. Da questi istituti nazificati fioriva così la dirigenza delle Waffen-SS, il ramo militarizzato delle SS. Nel 1938 i Napola erano ventuno in tutto il paese, e accettavano ragazzi dai 10 anni in su.

Nel 1937 sorsero poi le Scuole di Adolf Hitler, dove venivano educati i futuri dirigenti di partito.
Dai dodici anni in su, i membri di queste scuole provenivano dalla Gioventù Hitleriana e dovevano essere di pura razza ariana. Seppur destinati a ruoli d'ufficio, gli studenti delle Scuole di Adolf Hitler seguivano più di 5 ore al giorno di lezioni pratiche e di educazione fisica, e solo una e mezza di materie scientifiche e umanistiche. Alla fine degli anni Trenta, il regime organizzò anche dei severi centri di specializzazione, destinati ai migliori diplomati nelle Scuole di Adolf Hitler. Erano i Castelli dell'Ordine, dove si praticava una sorta di rito cavalleresco medioevale. Queste scuole avevano sede proprio in antichi castelli lontani dalle città: le lezioni comprendevano ideologia nazista e estenuanti prove fisiche (marce da un castello all'altro, voli in aliante, percorsi di montagna durissimi su sci, etc…). Ovviamente, le donne erano escluse da tutti questi istituti sorti per la creazione di una dirigenza politica: chiaramente, lo statuto nazista escludeva che il gentil sesso potesse raggiungere le vette del partito. Prima dell'avvento del nazismo, la Germania della Repubblica di Weimar era un esempio per l'emancipazione femminile.

Fino al 1933, le donne che lavoravano erano quattro volte di più di quelle americane, avevano diritto di voto e nel Reichstag sedevano più membri femminili rispetto a tutti gli altri Parlamenti del mondo occidentale. La politica nazista verso le donne fu, come si può dedurre, altamente coercitiva. Le donne vennero escluse dal mondo economico (almeno fino a quando si realizzò penuria di uomini, tutti al fronte) e dovevano sottostare a rigide regole sociali: vestiti alla moda, trucco eccessivo, pantaloni, la dieta e il fumo vennero considerati elementi contrari alla morale tedesca. Per non parlare dell'aborto, che venne definito "atto di sabotaggio verso lo stato".

La macchina della propaganda: Joseph Goebbels

L'avvento del nazismo, lo stesso mantenimento del potere da parte di Hitler e dei suoi accoliti, lo si deve ad una delle più potenti armi del Novecento, abilmente sfruttata da tutti i totalitarismi: la propaganda. Il cinema, ma soprattutto la radio (che per la prima volta entrava in quasi tutte le case tedesche, e veniva scientificamente collocata in tutti i luoghi pubblici, le cosiddette "radio del popolo") offrirono al nazismo uno straordinario strumento per l'esaltazione del Führer e delle realizzazioni del regime.

Dietro a questa efficiente e colossale macchina c'era un geniale manovratore, paradossalmente minuto, un uomo che amava farsi chiamare "Herr Doktor", non arrivava al metro e cinquantatré di altezza e pesava 45 chili: era Joseph Goebbels, il più fedele ed esaltato uomo del Führer, l'artista dell'uso dell'equivoco ("Qualsiasi bugia, se ripetuta frequentemente, si trasformerà gradualmente in verità"), l'uomo che con lui sarebbe morto nell'ultimo giorno, l'uomo che prima di compiere questo estremo atto di fedeltà a Hitler, avvelenò tutta la sua famiglia. "Sarebbe sbagliato e troppo semplicistico - scrive H.W. Koch - identificare la propaganda nazionalsocialista esclusivamente con il dottor Joseph Goebbels o viceversa. Goebbels era la voce del padrone, niente di più e niente di meno, anche se la sua parve spesso infinitamente più raffinata e chiara. Dote principale di Hitler, infatti, fu la capacità di dare una proiezione quasi messianica alla sua missione, sfogando frustrazioni segrete della sua generazione. A quel livello Goebbels lo zoppo non arrivò mai. Seppe esaltare le masse fino all'isterismo, ma non farle passare, come invece, Hitler, dall'isterismo all'azione". Quel che è certo è che, fra i due, si creò una complessa e perfetta alchimia. Il sodalizio tra i due si era creato sin dai tempi della lotta per il potere, negli anni venti. Il primo Goebbels, piuttosto, non condivideva per nulla le teorie antisemite del Führer, ma quando realizzò che queste potevano creare un utile capro espiatorio sociale e fungere da potente arma anti-borghese e anti-capitalista, allora le adottò senza problemi. Il cinismo e la scaltrezza di "Herr Doktor" venivano dalle proprie frustrazioni e dal disprezzo verso la propria persona.

Nato a Rheydt, in Renania, da una famiglia cattolica, sin da piccolo Joseph imparò a detestare la piccola borghesia cui apparteneva, assillata dal risparmio e dalla morigeratezza. Oltre a ciò, una forma di poliomelite che gli aveva reso un gamba più corta dell'altra di otto centimetri e che lo aveva reso zoppo sin dalla tenera età, condizionò profondamente il suo carattere. A causa di questo handicap il giovane Goebbels non poté partecipare alla Grande Guerra, ma una volta raggiunto il potere la sua macchina propagandistica decise che la sua deficienza fisica era la conseguenza di una ferita riportata proprio in guerra.

Amante della letteratura, Goebbels cercò la strada della scrittura, ma fallì miseramente. L'illuminazione avvenne nel 1924, quando il futuro Ministro della Propaganda del Reich ottenne un posto nella redazione di un bollettino di informazione vicino al partito nazista. Qui entrò nelle grazie di Gregor Strasser, che poi abbandonò senza rimorsi per passare dalla parte del suo avversario, Adolf Hitler (qualche tempo prima, in una riunione di gerarchi nazisti, Goebbels aveva addirittura chiesto l'espulsione dal partito di Hitler). Nel campo dell'informazione, Goebbels scoprì, come scrisse lui stesso, di "essere un predicatore, un apostolo, un trascinatore delle folle e di avere fra le mani l'anima dei lavoratori". Già negli anni degli scontri urbani con i "rossi", Goebbels si dimostrò uno scaltro artista della propaganda: il partito aveva bisogno di canti, eroi e martiri. Uno dei suoi capolavori fu, senza dubbio, la creazione del mito di Horst Wessel, uno sconosciuto attivista nazista morto in situazioni poco chiare, il quale divenne soggetto della "canzone di Horst Wessel", inno del partito e secondo inno nazionale della Germania.

"Wessel - scrive Koch - divenne così il simbolo sacrificale del nazismo: con la sua esaltazione dell'integrazione del paese e della creazione di una comunità nazionale senza classi, la Volksgemeinschaft, un concetto che affondava le radici nel pensiero romantico tedesco". Goebbels riuscì ad aumentare il numero di iscritti al partito nazista, e allo stesso tempo a far mettere fuori legge lo stesso per quasi un anno, a causa dei suoi sistemi troppo aggressivi. Questa "pausa" gli servì per rendere efficiente il suo giornale, Der Angriff (L'Attacco), dal quale lanciò il celeberrimo slogan "Ein Volk, Ein Reich, Ein Führer" (un popolo, un impero, un capo). Sfruttando l'arma della stampa Goebbels guadagnò fama e consensi, e questi lo portarono al Reichstag nel 1928, insieme ad altri undici nazisti. A quel punto la storia cominciò a dare una mano ai destini del partito nazista. Sopraggiunse la crisi del 1929, e la Germania sprofondò negli anni trenta in quell'incubo economico che lanciò come una catapulta i nazisti verso la vetta del potere. Una volta lassù, però, per Goebbels si delinearono una serie di problemi, primo fra i quali la concorrenza di altri gerarchi che insidiavano la sua posizione rispetto a Hitler:

Benché nominato capo della propaganda nazista in tutta la Germania, Goebbels si ritrovò di fronte avversari come Otto Dietrich, capo della stampa nazista, e Max Amann, direttore della Eher Verlag, l'unica casa editrice nazista. L'arma principale di cui si servì Goebbels per la sua azione propagandistica fu, come detto, la radio. Basandosi sui "suggerimenti" del regime sovietico, il gerarca nazista capì che la radio poteva diventare la voce del regime in ogni casa tedesca. La radio, oltretutto, permetteva a Goebbels di guadagnare un carisma personale, difficilmente ottenibile dal vivo (situazione in cui, al contrario, Hitler eccelleva).

La voce profonda e affascinante di Goebbels, l'uso dell'ironia (che invece al Führer mancava totalmente), diffuse dalla radio, mascheravano al popolo la condizione fisica dell'uomo: Goebbels, minuto, eccessivamente magro, zoppo da un piede, era l'esatto opposto del mito fisico ariano. Solo dopo il raggiungimento del potere, infatti, egli seppe sfruttare presso il pubblico femminile il proprio carisma, divenendo un indefesso corteggiatore. Il passo definitivo nel potere assoluto Goebbels lo fece quando Hitler lo nominò, a soli 35 anni, capo del Ministero della propaganda e dell'Illuminazione del Popolo (Volksaufklärung), con il quale stese la propria longa manus su tutti i media meno la stampa: radio, cinema, teatro e musica.

Goebbels divenne così il più giovane ministro d'Europa. Fu da questo pulpito che il "gerarca zoppo" riuscì a rendere, alle porte dell'intervento armato in Polonia, Hitler il condottiero indiscusso della Germania. E grazie alla propaganda - come avvenne in Russia con Stalin - qualsiasi inefficienza o errore del regime veniva imputato a coloro che si trovavano sotto di lui, e al fatto che "il Führer probabilmente non poteva sapere". "I programmi della radio nel 1933 e nel 1934 - scrive Koch - furono dominati da un misto di propaganda nazista e di Kultur germanica, a spese soprattutto dei programmi leggeri. Ma quando si rese conto che perfino il pubblico tedesco poteva stancarsi facilmente di Beethoven, Wagner e della mistica del sangue e del suolo, Goebbels mutò radicalmente politica e mescolò la propaganda indiretta al divertimento, ignorando le pretese dei più accesi puristi del nazionalsocialismo. La propaganda non si limitò alla Germania; già nel 1933 una stazione ad onde corte trasmetteva programmi all'estero. Dieci anni dopo, le stazioni erano diventate 130, e diffondevano quotidianamente 279 bollettini di informazioni in 53 lingue".

Anche il cinema fu un eccellente strumento di propaganda nelle mani di Joseph Goebbels. Di questa "nuova arte" "Herr Doktor" era sinceramente appassionato, tanto da aver una sala cinematografica privata, dove si faceva proiettare tutti i migliori (e proibiti da lui stesso!) film americani. Fra i suoi film preferiti, "Via col vento" e l'antimilitarista (!) "Niente di nuovo sul fronte occidentale". Con suo grande dispiacere, l'avvento del nazismo portò ad un esodo in massa dei migliori registi, come Fritz Lang e Joseph Von Sternberg, e attori di cinema, come Peter Lorre e Marlene Dietrich. Addirittura, Goebbels cercò di convincere Lang a lavorare per il regime, benché il regista fosse ebreo. La storia narra che Lang chiese 24 ore per pensarci su, ma la stessa notte salì su un treno diretto a Parigi e abbandonò la Germania. Un'altra curiosa vicenda di quei tempi è quella dell'attore ebreo Leo Reuss che, ossigenatosi e trasferitosi a Vienna, recitò nel ruolo di ariano in film nazisti, in seguito fuggì in America, lavorò a Hollywood alla MGM, e non smise mai di raccontare come aveva beffato i nazisti.

Tornando al cinema di Goebbels, questo doveva essere improntato ad un severo moralismo (il ministro bocciò i film di Tarzan perché l'eroe era troppo discinto) e ad un intento educativo (film antisemiti come il celebre "Suss l'Ebreo"). L'unico mezzo di comunicazione che restava fuori dal potere di Goebbels era la stampa. In tre mosse anche questo obbiettivo fu raggiunto. Per prima cosa, per suo ordine tutte le diverse agenzie di stampa vennero conglobate in una sola, la DNB (Deutsches Nachrichten-Bureau, Ufficio Tedesco dell'Informazione); in secondo luogo, con una legge ad hoc (ottobre 1933), i giornalisti vennero "sollevati dalle loro responsabilità verso i rispettivi editori", dovendo di conseguenza rispondere "allo Stato"; infine, la terza mossa consistette nel metodo della "conferenza stampa quotidiana", attraverso la quale il Ministero diceva ai direttori dei giornali di cosa e come si doveva parlare.

Nel campo dell'arte e della letteratura, infine, si devono a Goebbels due iniziative assurte ad icone negative del regime hitleriano: il rogo dei libri proibiti e la celebre Mostra dell'Arte Degenerata, con cui il regime voleva illustrare al popolo gli "obbrobri" di artisti ebrei e decadenti come… Max Ernst, Paul Klee, Kandisnky, Van Gogh, Picasso! Prima di vendere o distruggere alcune di queste opere, la Mostra venne organizzata a Monaco nel luglio del 1937. Questo fu uno dei pochi ma clamorosi errori di Goebbels: la Mostra, ricca di 730 opere collocate a caso, senza cornici e corredate di commenti denigratori, attirò più di due milioni di tedeschi.

Un altro settore nel quale il regime nazista doveva assolutamente consolidare il proprio potere era quello dell'Esercito. Non solo perché, per tradizione, le forze armate erano la spina dorsale di una società guerriera come quella tedesca, ma anche per il semplice fatto che, solo attraverso la collaborazione dell'aristocrazia militare, il nuovo Reich avrebbe potuto estendere il proprio lebensraum (spazio vitale) e riunire a sé tutti i popoli tedeschi fuori dai confini nazionali. Il braccio dell'Esercito, quindi, si rivelava vitale per il progetto dominatore del nazismo. L'Esercito, umiliato dalle condizioni della sconfitta, non chiedeva di meglio che identificarsi nel revanscismo nazionalista dei nazisti, anche se, tradizionalmente su posizioni conservatrici e fedelissimi allo Stato, sulle prime il movimento di Hitler non piacque affatto ai generali. Le cose, ovviamente, cambiarono quando Hitler divenne "lo Stato".

Le forze armate del regime nazista

Un elemento fondamentale nell'avvicinamento tra nazisti e forze armate lo si deve al Ministro della Difesa (eletto da Hindenburg e mantenuto da Hitler) Werner Von Blomberg, che era simpatizzante di Hitler. Accanto a Blomberg in questa politica di avvicinamento ai nazisti, il generale Walther von Reichenau, suo collaboratore al ministero. Non fu solo a causa dell'operato di individui strategicamente importanti che l'Esercito venne blandito da Hitler. Il Führer rese più forte tutto l'apparato della Difesa, istituì un Consiglio per la Difesa del Reich, nel quale il Ministro della Difesa si riuniva insieme a quello degli Esteri, degli Interni, delle Finanze e della propaganda. In questo modo, si dava più potere alla Difesa, ma contemporaneamente la si controllava con maggiore rigidità.

Per passare dalla parte del Führer, però, le potenti forze armate chiedsero un ultima, consistente "prova": l'emarginazione delle SA, le formazioni paramilitari che, sin dalle origini del movimento nazista, avevano lottato per le strade contro i "rossi" e avevano perseguitato gli ebrei. Composte da reduci della Grande Guerra e disoccupati figli della Grande Crisi, le SA erano fedeli al Führer, benché fossero rimaste legate ai principi originari del movimento nazista, quindi fortemente socialisti e "di sinistra". L'Esercito non intendeva dividere il potere militare con le indisciplinate e goffe "camice brune", che tra l'altro avevano raggiunto un numero di affiliati superiore di tre volte rispetto ai soldati regolari della Wehrmacht.

La situazione, esplosiva, venne risolta da Hitler alla sua maniera. Con quello che, eufemisticamente parlando, si può definire un eccesso di zelo, il Führer non si limitò ad "emarginare" le SA, ma scatenò un'autentica operazione sanguinaria di polizia. Nella notte del 30 giugno 1934 - che passò alla storia come quella "dei lunghi coltelli" - le fedelissime SS di Hitler giustiziarono tutti capi delle SA. Da quel giorno le SA, rese acefale dalla purga, si estinsero col tempo. Com'era nello stile di Hitler, però, l'Esercito necessitava di un contrappeso precauzionale, e questo furono le SS, forze di polizia e successivamente forza militare d'assalto (le Waffen-SS), che divennero un elemento di interferenza con l'esercito allo stesso modo delle SA. Pochi giorni dopo il grande massacro, il Presidente Hindenburg moriva all'età di 87 anni. L'Esercito perdeva così la sua figura più carismatica, e il potere di Hitler poteva prendere definitivamente il volo.

Il capo supremo delle forze armate sarebbe infatti divenuto lo stesso Hitler. "Il 2 agosto 1934 - scrive M.R.D. Foot - proprio la sera in cui morì Hindenburg, ogni unità tenne un servizio d'onore alla memoria e alla fine, per ordine di Reichenau, ciascun uomo presente pronunciò sulla bandiera del proprio reggimento le parole seguenti: "presto davanti a Dio questo sacro giuramento, di obbedire incondizionatamente al Führer del Reich e del popolo tedesco, Adolf Hitler, comandante supremo della Wehrmacht, e di essere pronto, come valoroso soldato, a rischiare la mia vita per questo giuramento". Questa formula fu decisiva e disastrosa per l'esercito. Uomini scrupolosi, competenti e devoti come i generali e i colonnelli tedeschi ben difficilmente potevano concepire di infrangere una cosa così importante come un giuramento solenne pronunciato sulla bandiera […] Il generale Ludwig Beck, che nel 1935 sarebbe diventato capo di stato maggiore dell'esercito, descrisse subito quella sera come "la più nera della mia vita". Alla fine, capeggiò quel poco di resistenza che era possibile in Germania contro Hitler e si uccise dopo il fallito attentato del 20 luglio 1944 alla vita del Führer".

Progressivamente e inesorabilmente, Hitler cominciò a mettere propri uomini nelle più alte leve dell'esercito, e solo quando ne ebbe in pugno tutta i meccanismi, decise di sfruttare questa potente arma a fini bellici. "Hitler - scrive Foot - aveva ora il controllo di un efficientissimo strumento di guerra e […] cominciò a servirsene. Keitel, un generale da scrivania, firmava tutto ciò che Hitler gli diceva di firmare, e proprio per questo doveva finire impiccato a Norimberga nel 1946". Per quanto il potere di Hitler fosse divenuto assoluto e le possibilità di ribellione o attentato alla sua persona fossero improbabili, come tutti i dittatori anch'egli necessitava di una guardia personale.

I "pretoriani" del Führer diventarono così le Schutzstaffeln (Squadre di protezione), il cui nome venne abbreviato in SS. A questa formazione paramilitare vennero affidati diversi compiti: oltre alla difesa della persona del Führer, infatti, le SS svolgevano insieme alla Gestapo funzioni di polizia politica. In seguito, con la nascita delle già citate Waffen-SS, le SS divennero un distaccamento militare operante sul fronte, e al quale venivano consegnate le imprese più difficili e più sanguinose. Il battesimo delle SS, come detto, fu la "notte dei lunghi coltelli": "Non esitammo a compiere il dovere assegnatoci - scrisse in modo agghiacciante, a proposito di quella sanguinaria impresa, lo stesso Himmler - a mettere al muro amici riconosciuti colpevoli e a fucilarli. Non una parola tra noi su questa faccenda. Tutti noi la consideravamo qualcosa di spaventoso, eppure tutti eravamo sicuri che se simili ordini fossero stati di nuovo necessari, li avremmo eseguiti, come infatti dovevamo fare in seguito…". In verità, le SS erano nate molto prima di quel tragico 1934, nel 1923, quando contavano meno di 300 uomini e svolgevano ruoli marginali all'interno del partito nazista. Il salto di qualità lo si ebbe nel 1929, quando divenne Reichsführer delle SS Heinrich Himmler. Questo efficiente e spietato gerarca fu da subito decise a rendere le SS uno strumento di potere personale, anche se ciecamente fedele a Hitler. Fino al 1934, in ogni caso, le SS rimasero una formazione minoritaria formalmente subordinata alle SA (Sturmabteilungen, Reparti d'assalto).

"Le SS - scrive Philippe Masson - con le loro eleganti uniformi nere, erano gli angeli custodi perversi del regime nazista. Reclutate in una classe sociale più elevata di quella cui appartenevano le SA, le SS erano più riservate e non si abbandonavano a rozze manifestazioni". Nate quindi come "angeli custodi" di Hitler, al finire della Seconda guerra mondiale si erano trasformate in una sorta di "Legione straniera dell'Europa nazista", comprendendo diverse nazionalità. Alla vigilia del conflitto mondiale le SS erano nel numero di 250.000 uomini, simbolo dell'élite, fisica e "morale" del partito.

Himmler aveva organizzato l'intera struttura nelle sue mani in quattro sezioni: l'SD (Sicherheitsdienst, servizio di sicurezza), cioè il servizio segreto del partito; la SIPO (Sicherheitspolizei), polizia di sicurezza che conteneva la famigerata Gestapo (Geheimstaatspolizei, polizia segreta di Stato) e la Kripo, la polizia criminale; la ORPO (Ordnungspolizei), polizia d'ordine; la sezione militare delle SS. Quest'ultima era formata da diversi reggimenti, ognuno con un nome suggestivo (Leibstabdarte Adolf Hitler, Deutschland, Germania, Der Führer, Totenkopf, Polizei). Alcune di esse formarono dal 1940 la sezione Waffen-SS (SS armate) che finirono per diventare vere e proprie truppe d'assalto, un'élite razziale che, in prima linea, doveva svolgere i lavori più sporchi. La diffidenza e il sospetto di Hitler per qualsiasi forza anche moderatamente autonoma dalla sua influenza, però, fecero sì che le Waffen-SS rimanessero una forza controllata, una polizia militarizzata e nulla più. Le Waffen-SS si dovevano così limitare a costituire non più del 5% delle forze armate al fronte, svolgendo un ruolo di modello per gli altri soldati.

Addirittura, scrive Himmler, "fino al 1936 non accettammo assolutamente nessuno che avesse anche il più piccolo difetto fisico, fosse pure un dente stuccato. Così fummo in grado di mettere insieme nelle SS gli elementi più splendidi della nostra razza". Le SS venivano addestrate in scuole speciali per ufficiali, le Junkerschulen, a Brunswick e Bad Tölz. "Gli uomini delle SS - scrive Philippe Masson - dovevano mostrarsi duri, spietati, sprezzanti della propria e dell'altrui vita. Non dava prova di buon gusto l'allievo che si dichiarava ateo, protestante o cattolico, perciò ai futuri ufficiali si consigliava di essere teisti. Tutta l'eredità liberale e cristiana della civiltà occidentale veniva brutalmente respinta. […] Esisteva anche un test particolarmente impegnativo: per dimostrare il controllo dei nervi, il futuro ufficiale doveva togliere la sicura a una bomba a mano, tenerla in equilibrio sull'elmetto e stare sull'attenti finché non esplodeva".

Nel 1943 le SS erano nel numero di 600.000 unità. Le necessità della guerra - una guerra che si rivelava, per Hitler, più lunga del previsto - costrinsero le SS ad allentare le maglie del reclutamento: nel 1943-44 solo la metà delle 38 grandi unità SS erano costituite da "puri tedeschi", mentre l'altra metà era formata da stranieri provenienti dall'Europa occidentale e orientale. Nelle SS, quindi, c'erano olandesi, valloni, fiamminghi, francesi, bosniaci, ucraini, croati, serbi, bulgari, russi, albanesi, addirittura…britannici, indiani e turchi! "Himmler - scrive Masson - puntava sull'antagonismo etnico e religioso che di quando in quando fomentava discordie nell'Europa orientale e nei Balcani. Così, per rafforzare la divisione SS Prinz Eugen impegnata contro i partigiani di Tito, venne creata la divisione Handschar, costituita da musulmani bosniaci che nutrivano un odio più che secolare contro i serbi.
Coi loro fez in testa e accompagnati dal loro imam, i battaglioni bosniaci (che fruivano di un rancio speciale) ricevettero la benedizione del Gran Muftì di Gerusalemme". Uno dei motivi che spinse membri di tante nazionalità ad entrare nelle SS fu l'anticomunismo. "Il motivo dichiarato - scrive ancora Masson - era la partecipazione alla crociata contro il bolscevismo. Le Waffen-SS - è la paradossale conclusione - avrebbero potuto formare l'esercito multinazionale, precursore dell'Europa unita". L'Europa - non unita, e solo per metà libera - avrebbe ripreso forma dalle macerie del delirante sogno hitleriano.

Il numero due della Germania: Hermann Göring

Martedì 7 maggio 1945. Hermann Wilhelm Göring, il Reichsmarschall della Germania, comandante delle squadre d'assalto e dell'Aeronautica tedesca, presidente del Parlamento tedesco, primo ministro prussiano, presidente del Consiglio di Stato prussiano, maestro di caccia del Reich, presidente del consiglio delle ricerche scientifiche, commissario speciale per il piano economico quadriennale, si consegnò agli americani.

La stampa alleata si buttò voracemente su quello che, dopo il suicidio di Hitler, era diventato il più alto rappresentante del terzo Reich germanico. Göring rispose a tutte le domande dei giornalisti con chiarezza, senza però riuscire a mascherare la preoccupazione. A Wiesbaden, nel centro interrogatori della VII Armata iniziò la prima fase dei colloqui. A proposito degli assassinii politici, Göring giurò di non aver mai firmato una condanna a morte o mandato qualcuno in un campo di concentramento, "a meno che naturalmente fosse una questione di necessità militare". (E. Warburg, interrogatorio di HG, 29 maggio 1945; interrogatorio HG, SAIC/X/5). Ma evidentemente, in dodici anni di potere, per il Reichsmarschall le "necessità militari" erano all'ordine del giorno!

Il Potere lo aveva visto accanto ad Hitler fin dagli esordi del regime. Alle elezioni del 5 marzo 1933 in Germania, i nazisti avevano ottenuto solo 288 seggi contro i 432 con cui Hitler, già capo del governo, avrebbe raggiunto la maggioranza assoluta in Parlamento. Per rimediare al problema, Göring suggerì di ordinare ad un certo numero di socialdemocratici di abbandonare la Camera; Hitler invece riuscì a far approvare dal parlamento una legge che conferiva al governo pieni poteri, compreso quello di legiferare e modificare la costituzione, mentre i più accaniti oppositori del nazismo erano quasi tutti fuggiti o finiti in carcere. Poco prima delle elezioni, al fine di indirizzare correttamente gli elettori al voto, Göring aveva costituito la Hilfspolizei, uno squadrone di ausiliari provenienti dalle SS (Schutzstaffeln, squadre di difesa) o dalle SA (Sturm-Abteilungen, sezioni d'assalto): chiunque avesse minacciato l'andamento prestabilito delle elezioni, sarebbe stato spedito nei due campi di concentramento costituiti da Göring stesso a Oranienburg e a Papenburg. Da quel momento le SA si sentirono autorizzate a costituire numerosi campi abusivi in cui, prima del '33, furono ammazzati almeno settecento oppositori politici del nazismo: d'altra parte "è impossibile fare la frittata senza rompere le uova", commenta a tal proposito Göring nel 1945.

Anche la Gestapo fu una creazione di Göring. L'ammiraglio e amico di Göring, Levetzow, capo del dipartimento di polizia politica di Berlino, la IA, si lamentò per la brutalità delle SA. Questa sua protesta non fu ben accettata dai colleghi nazisti, Röhm ed Ernst, rispettivamente, capo di stato maggiore e comandante della SA, i quali chiesero l'espulsione dell'ammiraglio dal partito. Göring, forse per proteggere l'amico, trasferì la IA al suo ministero prussiano degli Interni, di cui egli era il diretto responsabile; Rudolf Diels venne nominato vice di Göring e responsabile della polizia segreta di stato e la IA prese il nome di Gestapo, assumendo il preciso compito di eliminare gli oppositori politici. Al processo del '46 Diels testimonierà di aver ricevuto tutti gli ordini di eliminazione degli avversari direttamente dal ministro Göring. Nel '34 la Gestapo passò sotto il comando di Heinrich Himmler e delle SS.

Ma l'episodio che più di ogni altro mette in luce quali fossero i metodi con cui Göring era solito trattare gli avversari politici, avvenne nel 1934. Ernst Röhm, capo di stato maggiore delle SA, omosessuale dichiarato, chiese apertamente al governo l'affidamento del ministero della difesa. "Era ovvio che non avremmo mai potuto proporre a Hindenburg (il presidente della Repubblica tedesca) il suo nome, dato che la vita privata e le tendenze sordide di Röhm erano a tutti note" spiegò Göring durante un interrogatorio. Ma Röhm diventava sempre più impaziente e pericoloso. Cominciò a minacciare lo stato nazista dicendo che avrebbe dato il via ad una seconda rivoluzione con lo scopo di sostituire le alte cariche del governo, Hitler compreso. Minacce da non sottovalutare dato che Röhm era a capo di un esercito armato più numeroso delle forze a difesa della legge e dell'ordine costituito. I primi tentativi di Hitler e Göring per risolvere la questione mirarono a migliorare i rapporti con Röhm. Hitler lo nominò ministro del Reich e Göring permise alle SA di introdurre agenti speciali nelle loro unità. "Ma Röhm non si accontentava" e faceva di tutto per provocare il governo: rilasciava in continuazione dichiarazioni arroganti, mise a difesa del ministero di Göring un suo agente armato e acquistava armi all'estero quando Hitler aveva disposto che solo l'esercito regolare poteva portare armi. Göring, ancora prima di Hitler, decise che era necessario adottare una soluzione drastica in proposito; cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di un uomo fidato su cui poter contare per eliminare Röhm. Il prescelto fu Himmler, capo delle SS, un uomo che ispirava fiducia a Göring per quell'aria di maestro elementare buono e mansueto. Quindi cominciò a raccogliere le prove contro Röhm per persuadere completamente il Führer, che ancora aveva delle riserve, ad agire contro di lui e preparò l'elenco dei personaggi che, secondo lui, era meglio liquidare.

Il 29 giugno Himmler e Göring pianificarono la vendetta. Furono ritoccati gli elenchi e allarmati i vari comandanti delle SS di tenersi pronti. La mattina dopo Hitler radunò 1300 uomini delle SS nei pressi di una taverna dove si presumeva si fossero raccolti Röhm e i suoi fedeli. Da ogni parte gli uomini di Göring avanzavano minacciosamente, mentre il loro capo dirigeva l'operazione da una poltrona del suo ufficio: "Himmler leggeva lentamente i nomi degli elenchi gualciti e strappati, Göring e Reichenau annuivano o scuotevano la testa, Koerner portava fuori le loro decisioni con l'aggiunta di un perentorio Vollzugsmeldung (dare conferma). Qualcuno disse scherzosamente che dacché c'erano, avrebbero dovuto eliminare la baronessa Viktoria von Dirksen, una delle donne più insopportabili dell'entourage del Fuhrer; e tutti risero nervosamente" (David Irving, Göring, p. 172 - Mondadori editore). Contemporaneamente Himmler disponeva perché venissero distrutte le prove della strage. "La notte dei lunghi coltelli", così vennero ribattezzate quelle tragiche ore, costò la vita a 84 persone, alcune delle quali vittime innocenti di un'omonimia. Per festeggiare l'avvenimento il 7 luglio Göring invitò i membri della Gestapo ad una festa privata nella sua villa principesca.

Nel centro interrogatori di Wiesbaden, una delle prime domande che gli avvocati americani hanno rivolto a Göring riguardava naturalmente i campi di sterminio: "Non sono mai stato tanto vicino a Hitler da indurlo a esprimersi con me sull'argomento... Hitler aveva qualcosa al cervello, l'ultima volta che l'ho visto". "Ho sempre pensato che fossero posti dove la gente veniva messa a svolgere un lavoro utile". Gli sono state mostrate foto agghiaccianti scattate a Dachau: "Le foto che mi avete mostrato ... devono raffigurare scene avvenute negli ultimi giorni ... Himmler deve aver tratto una soddisfazione diabolica da questo genere di cose".

... "In tutto il mondo gli ebrei predicano la guerra. Il perché è chiaro: l'antisemitismo affiora oggi in ogni paese, ed è una conseguenza logica del soffocante strapotere degli ebrei. Gli ebrei vedono una sola via di scampo: incendiare il mondo. E ricordate le mie parole quando vi dico che vogliono la guerra; perché sono loro che controllano la maggior parte della stampa mondiale e possono sfruttarne gli effetti psicologici". Göring pronunciò questo discorso agli industriali aeronautici nel luglio 1939. Egli detestava degli ebrei l'enorme potere economico legato a grandi multinazionali, banche e finanziarie, cosicché a partire dal marzo del '38 emise delle ordinanze con cui gli ebrei venivano espropriati, a qualunque costo, delle loro aziende che poi erano cedute ai tedeschi ariani. Comunque, al di là delle responsabilità morali che accomunano, allo stesso modo, tutti i nazisti, non si può paragonare l'efferatezza delle decisioni contro i semiti prese da Himmler o da Goebbels, ministro per la propaganda nazista, a quelle di Göring, che dimostrava più che altro un antisemitismo di circostanza, come quello che si respirava in tutta Europa in quel momento. Rimase sinceramente sorpreso di fronte alle leggi razziali ed è documentato che cercò di mitigarle, per quanto era in suo potere, come quando impedì la loro applicazione a Danzica. Nel momento in cui Goebbels introdusse l'obbligo per gli ebrei di servirsi di vagoni-letto e vagoni-ristoranti appositi, Göring vietò categoricamente che si introducessero scompartimenti ferroviari per soli ebrei e revocò il divieto per gli stessi di servirsi dei mezzi pubblici. Inoltre impose che i dipendenti statali ebrei continuassero a percepire la pensione e che cessasse l'espropriazione dei loro alloggi. Protesse anche alcuni ebrei, naturalmente quando la cosa potè tornargli utile, ad esempio quando si trattava di commercianti d'arte. Emblematico fu comunque il suo atteggiamento in seguito alla "notte dei cristalli". Nel novembre del 1938 il vice ambasciatore tedesco a Parigi fu ucciso da un ebreo polacco, furioso a causa dell'emanazione da parte di Varsavia di una legge che teneva lontani gli ebrei che stavano ritornando in patria per sfuggire alle leggi razziali. Goebbels, in seguito all'attentato, pronunciò un violento ed indignato discorso contro gli ebrei provocando un pogrom durante il quale, nella notte tra l'8 e il 9 novembre, orde di nazisti appiccarono incendi, uccisero circa trentacinque persone ed infransero migliaia di vetrine di negozi appartenenti ad ebrei in tutta l'Austria e la Germania (La notte dei cristalli). Göring era furibondo: "Questo ci costerà un patrimonio all'estero e sono io quello che deve guadagnarlo" urlò a Goebbels. Non solo infatti furono saccheggiati negozi per un totale di decine di milioni di marchi, il cui risarcimento sarebbe ricaduto sulle compagnie di assicurazione che non erano ebree, ma il governo perse gli introiti fiscali su circa 7500 negozi. La preoccupazione maggiore di Göring era dunque chiara: "Vorrei che aveste fatto fuori duecento ebrei e non distrutto tutta quella roba".

Nel maggio del '45 Göring venne trasferito in Lussemburgo dove rimase per tre mesi prima dell'ultimo viaggio verso Norimberga. Venne privato del suo valletto Robert e dell'inseparabile necessaire da toeletta, costituito da spazzole, dopobarba, profumi e creme per le mani. Göring si lamentò spesso di questo trattamento, ma per motivi di sicurezza non fu possibile fare diversamente; la sua stanza non aveva prese di corrente, né lampade e i 1600 vetri delle finestre dell'edificio erano stati sostituiti con lastre di perspex. Le poche cose rimaste ancora in suo possesso vennero perquisite spesso e accuratamente, compresa la branda per dormire e il gabinetto; e infatti durante una perquisizione, all'interno di una lattina di caffè, venne trovato un bossolo di cianuro. Durante il pasto gli era concesso usare solo cucchiai smussati e stoviglie di coccio: "Facevo mangiare i miei cani meglio di così", si lamentò un giorno.

La sua passione per le opere d'arte, per i gioielli e le pietre preziose, era nota a tutti. "Una volta Darrè (il ministro dell'Agricoltura) ebbe occasione di essere presente mentre Göring si preparava a ricevere un ministro balcanico. Il valletto gli portò un cuscino su cui stavano dodici anelli: quattro con pietre rosse, quattro con pietre azzurre, quattro con pietre verdi. "Oggi - mormorò pensoso il grand'uomo - sono irritato. Quindi porteremo una tinta molto carica. Tuttavia desideriamo mostrare che c'è qualche speranza. Perciò sceglieremo il verde". "Una signora invitata a prendere il tè lo trovò abbigliato con una toga e sandali tempestati di gemme, con le dita cariche di anelli preziosi e le labbra che sembravano colorate con il rossetto".

Per quanto riguarda le opere d'arte, se le procurava con la stessa voracità con cui un affamato si avventa sul pane, usando qualunque mezzo avesse a disposizione. Alcune le comprava regolarmente, come Venere e Adone di Rubens, che pagò carissimo. Studiava i mercati dell'arte di ogni città in cui si trovava e poi mandava i suoi agenti a concludere l'affare, quando non presenziava lui stesso. Spesso si trattava di contrattazioni illegali. Così si procurò 1300 quadri antichi e moderni, tra cui qualche Gauguin, Cranach e Tintoretto, da un ricco ebreo olandese a cui stavano per confiscare tutti gli averi. "Il pomeriggio del 5 novembre1940 si recò alla bella galleria del Jeu de Paume, all'ingresso del Louvre. Là era esposto, a beneficio di pochi privilegiati, il frutto della prima retata di tesori artistici organizzata da Rosenberg [il massimo intellettuale del partito nazista]: 302 pezzi prelevati dalla collezione del rifugiato Lazare Wildenstein. Göring ne scelse quattro, e comunicò maestosamente che li avrebbe portati in Germania". A nulla valsero le proteste dei funzionari presenti. Tramite questa stessa galleria furono "rubati" i tesori confiscati a decine e decine di collezionisti, spesso ebrei, e che Göring acquistava dopo averle fatte stimare da un suo amico 'intenditore': due quadri di Matisse, alcuni ritratti di Modigliani e di Renoir, valevano in totale, a suo avviso, 100 franchi. Al 1942 circa 600 oggetti d'arte erano passati dal Jeu de Paume a Göring.

La sua villa a Berlino assomigliava ad un palazzo rinascimentale. Lo studio in particolar modo era stato ricavato dall'unione di quattro ampie stanze, dopo che Göring era rimasto colpito dalla grandiosità dello studio di Mussolini in Italia. Sui pavimenti sfilavano preziosissimi tappeti, uno più bello dell'altro e lungo tutte le pareti troneggiavano i suoi trofei di caccia. Un'altra delle sue grandi passioni era infatti la caccia. Da presidente del Reichstag, promulgò un codice di leggi sulla caccia che ancora oggi viene considerato tra i più avanzati; si battè per proteggere le specie in estinzione e ripopolare le riserve, come la brughiera di Schorf in cui introdusse il gufo, la pernice, l'oca grigia, il corvo, il castoro e la lontra; mise fuori legge la vivisezione, le trappole e la caccia con i veleni, pena il campo di concentramento e, come se non bastasse, diede ospitalità nella sua stessa casa a quattro leoni che scorrazzavano liberamente, per la gioia degli ospiti.

Essere invitato da Göring ad una battuta di caccia era considerato un onore, anche se bisognava fare molta attenzione a non esprimere giudizi negativi su questo suo mondo prediletto, in quanto il Reichsmarschall tendeva a "prendersela un po' a male". Durante la stagione della caccia, Göring godeva dei risultati del suo accurato lavoro: "27 settembre 1936: tempo splendido, sole, aria fredda e frizzante. Arrivano gli ospiti von Neurath [ministro degli Esteri], von Papen [ministro del Reich presso l'Austria], Milch, Korner, Himmler e Udet. Dalle 11 e 30 del mattino fino alle 2 del pomeriggio inseguito un cervo reale... Il cervo era al margine di un acquitrino, poi ci ha girato intorno. L'ho abbattuto con un proiettile nel fegato... E' stramazzato dopo ottanta passi, il mio secondo colpo lo ha mancato...ho dato il colpo di grazia. Il cervo più forte mai visto in questa brughiera, il più forte cervo tedesco o internazionale... (Library of Congress, Ac. 9342).

Oltre a Göring, segregati in Lussemburgo si trovavano Frank, governatore generale in Polonia, Bohle, Brandt, il chirurgo di Hitler, Daluege, Darrè, Frick, ministro degli interni del Reich, Funk, ministro dell'economia, Jodl, capo di Stato Maggiore della Wermacht, Keitel, colonnello generale delle forze armate, il dirigente nazista Ley, Ribbentrop, ministro degli Esteri, Rosenberg, Streicher, e Donitz. Dopo un'accurata visita medica venne riscontrato che il Maresciallo pesava 119 chili, presentava un'abbondante sudorazione e il fiato corto; "la pelle è umida, pallida e olivastra, eccettuata la faccia che è arrossata. C'è un marcato tremito irregolare delle mani e appare estremamente nervoso ed eccitato" (Göring, p. 597), anche se nel complesso era sano. Ma una cosa risultò certa: Göring era dipendente da droghe. "Per chi conosce i suoi effetti sull'organismo umano, il caso di Hermann Göring offre tutte le necessarie prove circostanziali: la droga è capace di rendere completamente indegno di fiducia un uomo onesto, di produrre deliri che si tramutano in azioni criminali, d'incrementare l'attività ghiandolare e di generare effetti secondari come manifestazioni di immensa energia vitale e quella che i testi medici definiscono una 'vanità grottesca'; il morfinomane può trovare stimolo per la sua immaginazione, maggiore fluidità per la sua oratoria, ma poi sopravviene uno stato di debolezza, seguita a volte da un sonno profondo. Come il generale Helmut Foerster avrebbe detto a un collega quattro giorni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, 'Ho visto il Maresciallo assopirsi durante le riunioni...soprattutto se duravano troppo e la morfina finiva il suo effetto E questo era il comandante in capo della nostra Aeronautica'".

Ancora più di Hitler, era Göring che voleva l'annessione all'Austria e a tal fine, nei mesi precedenti, si era creato una serie di legami con importanti dirigenti austriaci nazisti. A Norimberga Göring avrebbe commentato: "Persino l'Anschluss è un 'crimine gravissimo'... Che è accaduto alla nostra povera patria?". Già dai primi mesi del 1938 l'Austria era tenuta sotto controllo. Quando si apprese la notizia che il ministro degli Affari interni austriaco e filotedesco, insieme con uno dei più importanti contatti nazisti in Austria, Seyss-Inquart, voleva dare le dimissioni, Göring si oppose con tutti i mezzi, mentre cominciava ad elaborare manovre intimidatorie per il cancelliere e ministro degli esteri austriaco Schuschnigg. Durante un pranzo con Hitler, Schuschnigg fu avvisato di "togliere di mezzo le piccole, ridicole barricate ... erette alla ... frontiera" altrimenti ci avrebbe pensato qualcun altro a farle sparire; quindi, tra una portata e l'altra, Hitler conversava a viva voce con il generale Keitel e con altri militari, sulle bombe ultimo modello in possesso della Germania. Schuschnigg si piegò al volere di Hitler e ritirò ogni difesa. L'Inghilterra gridò allo scandalo internazionale. Ma la svolta nei rapporti con l'Austria doveva ancora avvenire: il 9 marzo il cancelliere austriaco dichiarò l'intenzione di indire un plebiscito. La mossa sbagliata che i nazisti aspettavano da tempo fu compiuta. Il feldmaresciallo Göring prese in mano la situazione e istruì i corpi d'armata di tenersi pronti mentre inviava una lettera a Schuschnigg invitandolo a dimettersi in favore di Seyss-Inquart. L'invasione era programmata per sabato 12. Il giorno della vigilia Göring cominciò ad organizzare i preparativi; per prima cosa comunicò i nomi dei membri che avrebbero fatto parte del primo gabinetto di governo austriaco; quindi ordinò di eliminare i giornalisti scomodi e di sostituirli con uomini a lui graditi; intanto squadroni delle SS e SA avevano già cominciato a pattugliare le strade di Vienna. Schuschnigg era agitatissimo, avrebbe fatto qualunque cosa per uscire da quella situazione. E infatti comunicò a Göring che avrebbe immediatamente rinviato il plebiscito. Ma ormai il Maresciallo era intenzionato a prendersi l'Austria e voleva le sue dimissioni. Prima di sera Schuschnigg si ritirò senza prendere nessuna decisione. Alle 8.30 Hitler firmò l'ordine d'invasione e all'alba gli aerei tedeschi sorvolavano il cielo di Vienna.

La sera prima dell'attacco, il ministro cecoslovacco, intimorito da quei preparativi aveva avuto un colloquio con Göring il quale aveva assicurato che "Praga non aveva nulla da temere". Ma in una lettera di qualche giorno prima inviata a Mussolini per giustificare l'intervento in Austria, Hitler e Göring non affermavano esattamente la stessa cosa: a chiare lettere scrissero che dopo l'Austria sarebbe stato il turno della Cecoslovacchia.

Diversamente andarono le cose per la Russia nel '41. Göring non voleva attaccarla per motivi economici: i cereali ed il petrolio infatti provenivano interamente da lì; inoltre la Germania non avrebbe potuto fare a meno della ferrovia transiberiana. Ma Hitler colse al volo l'occasione che gli diede Molotov, il ministro degli esteri sovietico, per perseguire quello che costituiva da tempo uno dei principali obiettivi delle sue mire espansionistiche; Molotov infatti aveva inoltrato assurde richieste per garantire l'appoggio al Reich durante la guerra: voleva la Finlandia, la Romania, la Bulgaria, ilcontrollo sui Dardanelli, oltre a basi navali sul Baltico, nel mare del nord. Nel giugno del '41 scattò l'operazione Barbarossa, con cui i tedeschi aprirono un fronte orientale di 1600 chilometri per la conquista dell'Unione Sovietica.

Nel carcere di Norimberga, minare il morale e la resistenza psicologica di Göring per obbligarlo a sciogliersi in una lunga confessione auto-incriminatoria era una cosa ardua e gli americani si inventarono qualche tattica decisamente poco ortodossa, per cercare di ottenere maggiori informazioni che potessero confermare i capi d'accusa. In autunno vennero arrestati il fratello di Göring, Albert, la moglie Emmy, la nipote, la sorella, l'infermiera e la figlia Edda viene rinchiusa in un orfanotrofio. Lo stesso trattamento è stato riservato anche ad altri prigionieri nazisti, alcuni dei quali sono caduti nella trappola.

Il 20 novembre 1945 ebbe inizio il processo. L'accusa, con l'aiuto dello psicologo, tentava di minare la schiera dei nazisti per farli testimoniare l'uno contro l'altro. L'ex capo della gioventù nazista, Schirach, tentennò e Otto Ohlendorf ammise tutte le atrocità in massa da lui stesso ordinate.

La difesa di Göring si basava sul concetto che la guerra d'aggressione era stata portata avanti da tutti, America compresa: "Ma se lo fa la Germania diventa un crimine...perché abbiamo perduto!". I difensori chiesero al governo britannico la documentazione che comprovava i ben noti piani di Churchill per invadere la Svezia e la Norvegia neutrali. L'imbarazzo generale calò allora sul tribunale. Da Londra provennnero ordini ben precisi di non distribuire nessun tipo di documentazione durante il processo.

Dopo cinque mesi, il 13 marzo 1946 l'accusa chiamò a testimoniare l'imputato Hermann Göring. La sala era gremita. I giornalisti, muniti di taccuini, non si volevano perdere nemmeno una parola. In tutto il mondo le radio e gli altoparlanti erano sintonizzati sul processo. Göring si dimostrò brillante, al massimo della forma e, sfoggiando tutte le sue virtù oratorie, alternava racconti commoventi e drammatici a storielle ridicole che provocarono scrosci di risate nel pubblico accalcato sul fondo della sala.

Al termine del processo, al numero due della Germania, vennero riconosciuti quattro capi d'accusa: cospirazione contro la pace, preparativi di guerra d'aggressione, delitti di guerra, delitti contro l'umanità.

Il 15 ottobre 1946, alle 10 e 44 minuti, alcuni gesti inconsulti del detenuto all'interno della sua cella, destarono l'attenzione della guardia incaricata di tenerlo ininterrottamente sotto stretta sorveglianza. Venne aperta immediatamente la porta, accorse il cappellano: Hermann Göring era morto. In bocca conserva i frammenti di vetro della fiala di cianuro. D'altronde la sua richiesta di esecuzione tramite fucilazione gli era stata negata e la morte per impiccagione davanti ai giornalisti di tutto il mondo, proprio non poteva accettarla!

Galeazzo Ciano ed i rapporti tra Italia e Germania prima della guerra

Venerdì 1° settembre 1939 - XVII. Il Consiglio dei Ministri, riunitosi al Viminale alle ore 15 sotto la presidenza di S.E. Benito Mussolini, ha emesso il seguente comunicato: "Il Consiglio dei Ministri, esaminata la situazione determinatasi in Europa in conseguenza del conflitto tra Germania e Polonia la cui origine risale al trattato di Versaglia, presa conoscenza di tutti i documenti presentati dal ministro degli esteri, dai quali risulta l'opera svolta dal Duce per assicurare all'Europa una pace basata sulla giustizia, ha dato la sua piena approvazione alle misure militari fin qui adottate che hanno e conserveranno un carattere semplicemente precauzionale e sono adeguate a tale scopo; ha approvato altresì le disposizioni di carattere economico-sociale necessarie data la fase di grave perturbamento in cui è entrata la vita europea; dichiara e annuncia al popolo che l'Italia non prenderà alcuna iniziativa di operazioni militari; rivolge un alto elogio al popolo italiano per l'esempio di disciplina e di calma di cui ha dato, come sempre, prova".

Questo comunicato della Stefani fece tirare un sospiro di sollievo a milioni di persone. Il popolo italiano, che secondo un orrendo neologismo del bellicoso Achille Starace, era "acciaiato", non aspirava davvero a combattere ancora, dopo aver già pagato, nell'arco di tre anni, un tributo di sangue per la conquista dell'Impero e soprattutto nella guerra civile di Spagna. In entrambi i casi le Armi italiane erano uscite vittoriose: motivo in più per meritare ora un periodo di pace. Il 1° settembre 1939 iniziava così la Grande Illusione.

La ritrovata serenità era soprattutto la vittoria personale di un uomo, Galeazzo Ciano, ministro degli esteri, che a soli 36 anni appariva come una delle figure più importanti del Regime. Genero del Duce (aveva sposato Edda, la figlia prediletta di Mussolini), benvoluto dal Re, che il 19 agosto di quello stesso anno gli aveva concesso l'alta onorificenza del Collare della Santissima Annunziata, Ciano, con l'aiuto dell'ambasciatore italiano a Berlino, Bernardo Attolico, si era battuto per un progressivo sganciamento dell'Italia dalla Germania nazista. Ora che lo sganciamento appariva fatto, tutto sembrava possibile, nel segno di quell'ottimismo eccessivo che coglie sempre gli uomini quando si è, almeno momentaneamente, scampato un pericolo gravissimo e incombente.

L'alleanza con Hitler era sempre stata impopolare, ed ora c'era addirittura chi vagheggiava che la non belligeranza potesse trasformarsi in un intervento dell'Italia fascista a fianco delle nazioni democratiche per eliminare dall'Europa il cancro del nazismo. E l'ovvio seguito di questo vagheggiamento era un futuro in cui l'Italia fascista si sarebbe trovata, alleandosi con le democrazie occidentali, a dover per forza rivedere la sua impostazione politica. E allora, non era anche logico pensare che la non belligeranza fosse il preludio ad un cambio al vertice, che avrebbe favorito un ammorbidimento del fascismo? E chi poteva essere l'uomo più adatto a ricoprire il ruolo di guida del paese e del partito, sostituendo un Mussolini ormai logorato da diciassette anni di attività frenetica, se non Galeazzo Ciano?
Tutto questo maturare di illusioni non deve stupire, non solo perché l'esperienza ci insegna che è molto più bello cullarsi nell'ottimismo che guardare in faccia alla realtà, ma anche perché la politica estera dell'Italia fu, nel cruciale periodo che possiamo fissare tra il 13 marzo 1938 (annessione dell'Austria alla Germania) e il 1° settembre 1939 (invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche - di fatto, l'inizio della Seconda Guerra Mondiale), tutt'altro che chiara e lineare.

Mentre Hitler, con stile di vero brigante privo di ogni scrupolo, era fin troppo chiaro nei suoi intenti, che erano non solo di espansione, ma anche di vera e propria furia bellicista, Mussolini mostrò una serie di incertezze e oscillazioni, un atteggiamento di continui ripensamenti, con decisioni spesso causate più da impulsi del momento (basti pensare, come vedremo oltre, alle ragioni che spinsero il Duce a stipulare il patto d'acciaio) che da lucidità politica. Il dittatore non era più l'uomo trionfante che il 9 maggio del 36 aveva proclamato l'Impero, raggiungendo il culmine della popolarità e del consenso. Era un uomo che si trovava immerso in una situazione drammatica che probabilmente avvertiva di non poter più controllare, causata oltretutto da quell'Hitler che pochi anni prima aveva definito "un uomo un po' risibile e un po' invasato che ha scritto un'opera, il Mein Kampf, illeggibile". Era quell'Hitler che al loro primo incontro (il 14 giugno del 34) aveva da subito mentito, assicurando che la Germania rinunciava all'Anschluss, e che ora invece lo attirava in una specie di vortice da cui il Duce stentava a liberarsi. Infine, a completare il quadro della confusione, dava un grandissimo aiuto l'assenza politica del Re, Vittorio Emanuele III.

Questi non mancava certo di capacità nell'analizzare la situazione, né nascondeva il suo antigermanismo e il suo profondo disprezzo per Hitler ("una specie di degenerato psico - fisiologico"). Ma lo faceva solo in privato. In pubblico appoggiò sempre la politica mussoliniana, giungendo al gesto sconcertante (8 giugno del 38) di visitare la casa natale di Mussolini a Predappio, in un parareligioso pellegrinaggio da fedelissimo. E chi sperava che il Re volesse riprendersi un ruolo da protagonista all'interno della strana diarchia che dirigeva l'Italia, ne fu deluso quando, il 23 marzo del 39, inaugurando la Camera dei Fasci e delle Corporazioni (che sostituiva la vecchia Camera dei Deputati), Vittorio Emanuele pronunciò un discorso scialbo, pura ripetizione delle direttive politiche fasciste.

Insomma, il Sovrano non fu che un piccolo opportunista, molto più preoccupato di sé stesso e della dinastia che della Nazione, che scelse però di saltare sul cavallo sbagliato. Se quindi vogliamo riassumere la situazione del momento (1° settembre 39) in cui l'Italia dichiarava la non belligeranza, abbiamo: un'Europa che sta per prendere fuoco sotto l'incalzare del mostro nazista; un popolo italiano tutt'altro che anelante al combattimento; un'Italia con un Re pressoché inesistente e un Duce confuso, ma che comunque ha stipulato un'impopolare alleanza con la Germania, anche se in termini non chiarissimi.

Galeazzo Ciano era nato a Livorno il 18 marzo 1903. Figlio d'arte: suo padre, Costanzo, conte di Cortellazzo, era un eroe della Grande Guerra e fascista della primissima ora, intimo di Mussolini. Il giovane Galeazzo si laurea in giurisprudenza a 22 anni ed entra in carriera diplomatica; addetto all'ambasciata di Rio de Janeiro, poi a Pechino, quindi a Buenos Aires e infine nell'ambasciata presso la Santa Sede, scala velocemente i gradini della gerarchia, divenendo primo segretario d'ambasciata a soli ventisei anni. Naturalmente a una carriera così veloce non poteva essere estranea l'illustre ascendenza, anche se il giovanotto era comunque brillante e preparatissimo, nonché fascistissimo. Ma la frequentazione tra la famiglia Ciano e la famiglia Mussolini costituì il trampolino di lancio per traguardi ben maggiori: Galeazzo iniziò a corteggiare Edda, la figlia primogenita del Duce.

I due giovani si sposarono il 24 aprile 1930; Edda non aveva che vent'anni, ma aveva già non poca influenza sul padre, che ne ammirava il carattere forte e l'intelligenza. Il genero del Duce fece ancora tre anni di servizio diplomatico in Cina, divenendo ministro plenipotenziario in quella nazione.

Nel 1933, rientrato in Italia, Galeazzo Ciano iniziò un'ascesa eccezionale. Mussolini lo volle accanto a sé e il brillante giovanotto venne nominato capo ufficio stampa del Duce, e successivamente ministro per la stampa e la propaganda.

Nel 1935 entrò nel Gran Consiglio del Fascismo e ottenne anche la promozione al grado di ambasciatore; partì volontario per la guerra d'Etiopia, comandando, insieme al suo grande amico Pavolini, la squadriglia La Disperata del 4° stormo da bombardamento. Rientrò in Italia col petto ornato da due medaglie d'argento, e il 9 giugno
del 1936 toccò il traguardo più alto della sua carriera: ministro degli esteri. Mussolini non accettava certamente che un ministro elaborasse una propria linea, e del resto, proprio in materia di politica estera, aveva già avuto come ministro un altro dei giovanotti brillanti del fascismo, Dino Grandi, che gli aveva dato non pochi grattacapi. Bolognese, avvocato, combattente eroico nella Grande Guerra, capo di Stato Maggiore del Quadrunvirato della Marcia su Roma, anch'egli divenuto ministro giovanissimo (a 34 anni, nel 1929), era stato destituito tre anni dopo e spedito a fare l'ambasciatore a Londra proprio perché si era mostrato troppo indipendente, cercando di instaurare rapporti di collaborazione con le democrazie e con la Società delle Nazioni, mostrando un volto morbido del fascismo, e rischiando quindi di far compiere all'Italia delle scelte di campo ben precise, in contrasto con le intenzioni del Duce, che, in un'Europa tutt'altro che stabilizzata, voleva mantenersi libero per sfruttare le sue indubbie doti di grande opportunista. La nomina di Galeazzo Ciano a ministro degli esteri poteva quindi apparire come la quadratura del cerchio.

Il dittatore, assegnando la titolarità del dicastero al genero dava a quest'ultimo (e quindi alla figlia Edda) la soddisfazione di una posizione di enorme prestigio, con la sicurezza, nel contempo, di non avere un elemento centrifugo alla direzione della politica estera. E in effetti Ciano fu un fedele esecutore delle direttive mussoliniane, fintanto che queste ebbero una certa coerenza. Ma ebbe anche l'intelligenza e la lucidità per capire che l'alleanza col nazismo spingeva l'Italia in un'avventura senza ritorno, proprio quando Mussolini si mostrava sempre più smarrito e confuso di fronte all'incalzare della piovra tedesca. E la dichiarazione di quella strana cosa all'italiana, la non belligeranza, che non era neutralità, non era appoggio militare, ma che comunque aveva l'effetto di mantenere l'Italia fuori dalla guerra, fu, come dicevamo sopra, in gran parte frutto dell'azione di Ciano.

Si trattò, come sappiamo, di un'illusione che sarebbe durata pochi mesi. Ma per poter meglio capire come si arrivò a quella non belligeranza, cerchiamo di rivedere rapidamente la situazione in Europa e in Italia negli anni immediatamente precedenti. L'ascesa al potere di Hitler in Germania non aveva suscitato particolare interesse nel nostro paese; era diventato cancelliere il 30 gennaio del 33, era riuscito a ottenere dal Reichstag i pieni poteri il 24 maggio, e aveva definitivamente consolidato la sua posizione di Führer il 12 dicembre con un plebiscito trionfale (92% di consensi).

Aldilà del fatto che entrambi i regimi erano dittatoriali, tra nazismo e fascismo la distanza era grande, anche se, a livello non ufficiale, esistevano contatti tra i due partiti. L'esistenza anche in Austria di un forte gruppo nazista, che si muoveva esplicitamente per l'annessione della giovane repubblica alla Germania, faceva piuttosto temere a Mussolini di avere, in caso di realizzazione dell'Anschluss, l'esercito tedesco alle porte di casa, al Brennero. E infatti quando finalmente

Hitler, ormai cancelliere, riuscì a ottenere un incontro col Duce, da lui ammirato come un maestro, questi pose subito sul tappeto la questione dell'Austria. Era il 14 giugno del '34 e nei colloqui, che si svolsero a Venezia, Hitler assicurò che rinunciava ai piani di espansione verso Vienna, ma che pretendeva la sostituzione del Cancelliere Dollfuss, che aveva dichiarato illegale il partito nazionalsocialista austriaco. Quanto il dittatore tedesco fosse affidabile, lo si vide dopo poche settimane, il 25 luglio, quando i nazisti tentarono un colpo di stato a Vienna, sventato dalle forze dell'ordine austriache, che non riuscirono però ad impedire l'assassinio del Cancelliere Dollfuss.

La reazione di Mussolini fu immediata, attestando quattro divisioni sulla linea di confine. Non accadde nulla di irreparabile; i nazisti si fermarono; Mussolini aumentò la sua popolarità in Europa, dove Hitler non suscitava simpatia in alcun paese, e in Italia, dove tornavano a galla i mai sopiti sentimenti antitedeschi. D'altra parte il Duce aveva bisogno di tener buone Francia ed Inghilterra per avere mano libera nel progetto che più gli stava a cuore al momento, ossia la conquista dell'Etiopia. Ed infatti la conquista di questo Paese e la successiva proclamazione dell'Impero non conobbero ostacoli seri, neanche con le inique sanzioni, aggirate in mille modi e che, tra l'altro, non comprendevano il divieto di commerciare con l'Italia i prodotti petroliferi.

Hitler, ancora isolato in Europa, ma con dei piani espansivi già ben chiari, non rinunciava a cercare di attirare l'Italia nella sua orbita; e l'occasione fu offerta dalla guerra civile spagnola, dove italiani e tedeschi si trovarono a dare un aiuto decisivo alle truppe franchiste. Quello che poteva apparire come un problema interno della Spagna divenne di fatto lo scontro tra le due Europe, quella delle dittature e quella delle democrazie. Ma il massiccio contributo comunista alla causa dei repubblicani spagnoli (a cui partecipò, come inviato di Mosca, un uomo di eccezionali qualità, Palmiro Togliatti) permise di configurare definitivamente il conflitto spagnolo come la guerra contro il bolscevismo che minacciava l'Europa: questo nemico comune consentiva finalmente a Hitler di trovare dei punti di contatto diretti con Mussolini.

Il 23 settembre del '36 giunse a Roma il ministro tedesco senza portafoglio Hans Frank, latore di un invito in Germania sia per il Duce che per il ministro degli esteri, nonché di rassicurazioni da parte di Hitler: il Führer non aveva mire territoriali sulla Spagna, alla quale prestava aiuto per motivi di solidarietà politica, e inoltre considerava sistemata la questione austriaca, dopo che gli accordi con il cancelliere Schuschnigg avevano cancellato le misure antinaziste di Dollfuss. Mussolini rispose che accettava con piacere gli inviti, e infatti Ciano si recò in Germania dal 20 al 24 ottobre di quell'anno.

Questa data, 20 ottobre 1936, si può considerare come l'inizio di una politica avventurista condotta dall'Italia, con l'illusione di poter mantenere rapporti corretti con Gran Bretagna e Francia, di poter contemporaneamente flirtare con il nazismo, diffidandone però, e viaggiando insomma come un marinaio che, anziché seguire una rotta prestabilita, sposti via via il timone a seconda delle variazioni del mare. Mussolini aveva in quel momento un interesse precipuo, che era il riconoscimento dell'Impero, e per questo non poteva prescindere dai buoni rapporti con gli inglesi, ai quali però giocò un colpo basso, portando a conoscenza di Hitler, tramite Ciano, un documento riservato stilato da Eden, ministro degli esteri inglese, in cui si trattava del "pericolo tedesco", e in cui il Führer stesso e il suo governo venivano bollati come "una banda di avventurieri".

Contro tutti, contro nessuno, in attesa di scegliere quale fosse il nemico e quale l'amico: questo comportamento aveva permesso all'uomo di Predappio di scalare il potere in Italia senza aver mai avuto, a ben guardare, altra linea politica che non fosse la conquista e il consolidamento del potere stesso. Lo stesso stile si applicava ora, con grave illusione, in politica estera. Hitler iniziò le conversazioni con Ciano tessendo una lode eccezionale per il Duce ("autore di un'opera immane per il suo paese"), ricordando come la Germania non fosse stata tra le Nazioni sanzioniste ed esprimendo il convincimento che un'unione italo-tedesca in funzione antibolscevica avrebbe portato, per forza di cose, molti paesi, timorosi del pangermanismo o dell'imperialismo italiano, a schierarsi con le due dittature, proprio perché ancora più intimoriti dal pericolo del bolscevismo.

L'incontro di Berlino fu poi consacrato da Mussolini che, in lungo discorso tenuto a Milano in piazza Duomo, domenica 1° novembre 36, coniò la parola "Asse". Peraltro il 2 gennaio del 37 Italia e Gran Bretagna firmarono l'accordo (gentlemen's agreement) con cui garantivano reciprocamente la libertà di circolazione nel Mediterraneo e la sovranità nazionale di tutti gli stati affacciati sul quel bacino. Pochi giorni dopo, il 13 gennaio, giunse in visita in Italia Hermann Göring, allora presidente del Reichstag e primo ministro della Prussia, che si andava affermando come uno dei più importanti collaboratori di Hitler, e fu rassicurato sulla solidità dell'amicizia italo-tedesca e sul fatto che, al momento, l'interesse precipuo dell'Italia era la conclusione vittoriosa del conflitto in Spagna e la prosecuzione della politica antibolscevica in Europa.

L'Italia insomma era in piena frenesia diplomatica e il giovane ministro degli esteri si mostrava, come era nei voti di Mussolini, un ottimo e brillante esecutore di ordini. Il Duce si sentiva sempre più portato a un ruolo di grande mediatore in Europa, ma nel contempo si sentiva attratto dalla potenza della Germania: durante la sua visita in quel paese, tra il 25 e il 29 settembre del 37, una sapiente regia aveva saputo dare al Duce sia la sensazione della cordialità popolare, con manifestazioni spontanee di accoglienza, sia la dimostrazione di potenza, con un'eccezionale parata militare.

Hitler non era più l'uomo "risibile", era viceversa l'uomo che stava attuando un riarmo massiccio; le posizioni si andavano pericolosamente invertendo tra maestro e discepolo e Mussolini iniziava a maturare il timore di restare indietro rispetto alla frenesia nazista. E questa pericolosa frenesia aveva da tempo un primo obiettivo, l'annessione dell'Austria, più volte espressamente esclusa da Hitler e intanto scrupolosamente preparata con l'organizzazione del partito nazista austriaco che, agendo all'interno della piccola repubblica preparava quei disordini che avrebbe costretto il cancelliere Schuschnigg a chiedere il fraterno aiuto della Germania. Ciano annotava tutto nei suoi Diari e proprio le vicende dell'Austria iniziarono a suscitare i primi dubbi sull'affidabilità di Hitler, che il 20 febbraio del 38 aveva tenuto al Reichstag un discorso che fu un capolavoro di ipocrisia, parlando di "più profonda intesa raggiunta con una nazione che ci è molto vicina... ".

Ciano annotò: "L'Austria è considerata entità nazionale e non provincia germanica. Almeno per ora". Il 12 marzo l'Austria cessava di esistere come stato indipendente, invasa dalle truppe tedesche, e diveniva "parte integrante del Reich" con un referendum - farsa, conclusosi col 99,3% di "sì" all'annessione. Tutta l'operazione era stata condotta senza consultazioni preventive con l'Italia e ora il Duce si trovava in una situazione ben più critica di quella di quattro anni prima, quando i nazisti avevano fallito il loro disegno. Allora il Duce aveva inviato quattro divisioni al Brennero. Ora si limitò a prendere atto del fatto compiuto. Poteva essere l'occasione per sciogliersi dall'abbraccio mortale col nazismo e fu invece l'inizio di una gara di emulazione che portò alla rovina il paese.

Nel frattempo in Germania il ministro degli esteri Von Neurath era stato sostituito e al suo posto, il 4 febbraio di quel 1938, si era insediato un uomo che agì in perfetta sintonia col suo Führer: Jaochim von Ribbentrop, già rappresentante di vini e spumanti e genero dell'industriale dei vini Henkell. La fiducia che Hitler gli accordava era ben riposta; Ribbentrop  orchestrò i successivi colpi della politica nazista. Liquidato il problema dell'Austria, ora bisognava dedicarsi alla Cecoslovacchia, dove tre milioni e mezzo di sudeti (così erano chiamati i tedeschi residenti in quel paese) servivano a Hitler come pretesto per una nuova conquista. Un ultimatum di Hitler alla Cecoslovacchia, che equivaleva ad una rinuncia da parte di questa alla propria indipendenza, svegliò finalmente le sopite democrazie, che avevano guardato l'Anschluss quasi con indifferenza. La Gran Bretagna dichiarò lo stato di emergenza e il primo ministro Chamberlain preparò il suo popolo al peggio in un discorso alla radio. L'aggressività tedesca non poteva essere più tollerata, Hitler andava fermato finché si era in tempo... ma fu proprio Hitler, con un colpo magistrale, ad invitare Chamberlain a mediare "per indurre i Cecoslovacchi alla ragione".

Il dittatore tedesco proponeva una Conferenza dei Quattro Grandi, Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania, per discutere il problema dei sudeti. Chamberlain non chiedeva di meglio che una trattativa, Mussolini non poteva certo rifiutare un invito del sempre più pressante alleato, la Francia andava a rimorchio del Regno Unito. Il 29 settembre del 38, a Monaco, la Cecoslovacchia del 1918 cessava di esistere, con la cessione alla Germania dei territori occupati per oltre il 50% da tedeschi. La conferenza aveva dato l'occasione a Mussolini per presentarsi come grande mediatore: le clausole del patto erano quelle da lui stesso presentate. Hitler si mostrò soddisfatto; la preparazione militare per eliminare del tutto quanto restava della Cecoslovacchia continuava imperterrita. Il presidente ceco Benes il 30 settembre annunciò l'accettazione di un accordo "preso senza di noi e contro di noi". Ma illudersi è bello; Chamberlain e Daladier, primo ministro francese, lasciarono Monaco con la convinzione di aver tranquillizzato Hitler e di aver quindi aperto le porte ad un lungo periodo di pace. Mussolini fu celebrato dalla stampa fascista come l'uomo che "aveva salvato la pace nella giustizia". Il 1938 si chiudeva così su un'illusione di pace, e il 39 si apriva con la ormai quasi completa vittoria delle forze nazionaliste in Spagna e con nuove pretese di Hitler nei confronti di ciò che restava della Cecoslovacchia, col consueto pretesto di "maltrattamenti ai tedeschi colà ancora residenti".

Il 15 marzo di quell'anno Hitler pose al nuovo presidente cecoslovacco Hàcha un'alternativa implacabile: o accettava il protettorato tedesco su Boemia e Moravia, o il paese sarebbe stato invaso da quattordici divisioni germaniche. Hàcha non poteva scegliere per il massacro del suo popolo, e capitolò.

Mussolini andò su tutte le furie per la nuova mossa dell'alleato che si mostrava sempre più aggressivo e che ora minacciava di attentare anche all'integrità territoriale della Jugoslavia, sulla quale invece l'Italia aveva già ben precise mire, sostenendo in segreto il movimento separatista di Vladimir Macek: Ciano tornò alla carica col suocero e per la prima volta fu esplicito nell'invito a rompere l'alleanza con la Germania. Ma bastò la rassicurazione da parte di Ribbentrop sul fatto che la Germania non aveva alcuna aspirazione ad affacciarsi sul Mediterraneo, perché la momentanea furia anti-tedesca di Mussolini si affievolisse. Ciano riporta nei suoi diari che il Duce liquidò la faccenda dicendo: "Noi non possiamo cambiare politica perché non siamo delle puttane!".

L'Italia restava legata alla Germania e quest'ultima premeva sempre più perché l'alleanza divenisse più esplicitamente un patto militare. Mussolini e Ciano tiravano in lungo, il primo perché comunque dubbioso sulla possibilità dell'Italia di assumersi un impegno militare serio, con le forze armate efficienti al 40%, secondo le dichiarazioni degli Stati Maggiori, il secondo perché sempre più anti-tedesco. Ma il Duce comunque, ormai avviluppato in quello strano rapporto di amore - odio - emulazione con il Führer, volle prendersi anche lui la soddisfazione di una conquista autonoma: e il paese dovette assistere alla poco onorevole invasione dell'Albania, consumata minacciando la scialba figura di Re Zog, e che diede l'occasione a Ciano di inebriarsi per alcuni giorni di potere, comportandosi da viceré, alla conquista di uno stato che non interessava a nessuno e che non offriva alcuna risorsa.

Il mondo occidentale però iniziò a muoversi; la vittoria nazionalista in Spagna e l'occupazione italiana dell'Albania spinsero Francia e Gran Bretagna a prestare garanzia ai governi della Grecia e della Romania "contro chiunque realizzasse una politica di dominio dell'Europa", creando altresì una organizzazione di mutua assistenza con la Polonia e l'Unione Sovietica. Hitler sentiva pesare su di sé questi atteggiamenti, che erano difensivi ma venivano da lui vissuti come tentativi di accerchiamento della Germania, e accelerò i preparativi per la successiva impresa a cui si predisponeva, l'invasione della Polonia, "per riportare Danzica nel suo naturale ambito tedesco" e per costituire quel corridoio che doveva congiungere la Prussia Orientale col resto della Germania.

L'imminenza di un'azione tedesca contro la Polonia spinse Ciano a sollecitare un incontro con Ribbentrop, che si tenne a Milano il 6 e 7 maggio (siamo nel 1939). Sia il Duce che il ministro degli esteri escludevano ancora la firma di un trattato militare con la Germania e Mussolini, seppur considerasse ormai inevitabile una guerra europea, escludeva la possibilità per l'Italia di essere pronta prima del 1943. Era quanto bastava a Ciano che, contrario in assoluto all'alleanza, partì abbastanza tranquillo per Milano. I colloqui col ministro degli esteri tedesco toccarono inizialmente temi generali, e Ribbentrop negò che la soluzione militare fosse l'unico mezzo per risolvere la crisi con la Polonia, pur tornando sull'argomento caro ai tedeschi: le democrazie si apprestavano ad assediare gli stati totalitari, era quindi necessario che Italia e Germania stipulassero un'alleanza militare. Ciano nicchiava e prendeva tempo, ma nel secondo giorno di colloqui arrivò il colpo di scena: Mussolini ordinò telefonicamente al suo ministro degli esteri di aderire alle richieste tedesche di alleanza.

Nei suoi Diari, Ciano svelerà che il Duce, adirato per aver letto su un giornale francese che Milano aveva accolto con ostilità Ribbentrop, e che questo fatto provava il diminuito prestigio personale di Mussolini, aveva voluto mostrare che invece l'Italia marciava compatta con l'alleato. E il 22 maggio a Berlino fu firmato il Patto d'Acciaio. Ciano riaffermò, nelle conversazioni con Hitler e Ribbentrop, "l'interesse di entrambi gli alleati a un ulteriore mantenimento della pace per almeno tre anni". Il giorno successivo alla firma dell'alleanza Hitler convocò i capi militari, ai quali impartì le direttive: "Danzica non è il nostro scopo; l'invasione del Belgio e dell'Olanda ci servirà per un affondo non già verso Parigi, ma verso le coste della Manica... ".

I tedeschi assentivano e proseguivano per la loro strada. Il patto d'acciaio voleva dire soprattutto una garanzia a Sud; la garanzia a Est se la stavano creando con trattative segrete che avrebbero condotto, il 23 agosto, al patto di non aggressione con l'Unione Sovietica. Tra l'11 e il 13 agosto, sollecitati dall'Italia, si tennero ancora a Salisburgo dei colloqui tra i due alleati; ma si era ormai al dialogo tra sordi. Da una parte Ribbentrop ammetteva con naturalezza che "Danzica e il corridoio non interessano più al Führer. Adesso vogliamo la guerra". Hitler, alle domande incalzanti di Ciano, che ricordava l'impegno a non prendere iniziative militari per almeno un triennio, rispondeva con un'analisi della situazione internazionale, escludendo che Francia e Gran Bretagna, data la loro scarsa preparazione militare, fossero realmente in grado di intervenire in caso di invasione della Polonia, peraltro ritenuta ormai inevitabile.

Al ritorno da questo incontro, Ciano annotò sui Diari: "Torno a Roma disgustato della Germania, dei suoi capi, del loro modo di agire. Ci hanno ingannato e mentito. E oggi stanno per tirarci in un'avventura che non abbiamo voluta e che può compromettere il regime e il paese. Il popolo italiano fremerà di orrore quando conoscerà l'aggressione contro la Polonia e, caso mai, vorrà prendere le armi contro i tedeschi. Non so se augurare all'Italia una vittoria o una sconfitta germanica".

 Il 23 agosto venne reso noto il patto tra Ribbentrop e Molotov, ministro degli esteri sovietico. Il 25 agosto Polonia e Gran Bretagna firmarono un trattato in base al quale un attacco tedesco avrebbe provocato automaticamente l'intervento inglese. Hitler fremeva, con le divisioni già pronte a dilagare in Polonia. Ciano, coadiuvato dall'ambasciatore Attolico, stava in quei giorni pressando Mussolini perché si addivenisse addirittura ad una denuncia del patto d'acciaio. Frasi del tipo: "Si può essere più porci di Ribbentrop?", "Ci hanno sempre ingannato, trattandoci da servi e non da alleati", "Stracciate il patto, Duce, gettatelo in faccia a Hitler e l'Europa riconoscerà in voi il capo naturale della crociata antigermanica!" punteggiarono colloqui, come ci narra Attolico, in cui Ciano diede definitivamente sfogo al livore accumulato a Salisburgo. In effetti il ministro degli esteri aveva ragione. L'azione militare contro la Polonia avrebbe dovuto essere concordata tra i firmatari del patto d'acciaio, così come l'accordo con l'Unione Sovietica.

Mussolini ebbe un momento di incertezza e autorizzò il ministro degli esteri a sollecitare un nuovo incontro con Ribbentrop, in cui "chiarire definitivamente e senza dubbi la posizione italiana". Ma Ribbentrop, molto semplicemente, non si rese disponibile, perché troppo impegnato. Hitler aveva fissato l'invasione della Polonia per il 26 agosto, ma purtroppo il risultato dei colloqui di Ciano e Mussolini fu la classica soluzione all'italiana, che non servì che a ritardare di qualche giorno le operazioni militari tedesche e a portare alla dichiarazione di non belligeranza con cui abbiamo aperto questo studio. Infatti il 25 agosto Mussolini fece pervenire al Führer una lettera in cui gli spiegava che l'Italia non poteva in ogni caso intervenire a fianco della Germania, perché troppo sprovvista di mezzi bellici e di materie prime. Era mancato il coraggio per lo sganciamento, e di fatto si rimandava il problema. Hitler chiese immediatamente al governo italiano di specificare le sue necessità di approvvigionamenti e il 26 agosto Mussolini riunì a Palazzo Venezia i capi militari, ai quali Ciano rivolse un caldo invito a non fare "del criminoso ottimismo". Da quella riunione ne venne fuori una lista di richieste alla Germania che avrebbe avuto del comico, se la situazione avesse permesso di ridere. In sostanza, l'Italia denunciava carenze di materie prime ed armamenti per un quantitativo equivalente a 17.000 (diciassettemila!) treni merci. Mussolini aveva optato per la furbata. Hitler non era certamente in grado di garantire all'Italia un tale flusso di rifornimenti, e continuò per la sua strada.

La Polonia fu stritolata in pochi giorni, mentre nell'opinione pubblica italiana, e anche tra le stesse migliori intelligenze del fascismo - Grandi, Balbo, Bottai - la neutralità diveniva sempre più popolare e iniziavano a serpeggiare le voci che volevano Ciano come successore naturale di un Duce stanco e scosso da mille dubbi. Ma Mussolini, che aveva potuto accettare le umiliazioni inflitte dall'alleato, non poteva sopportare che venisse messo in discussione il suo potere, e in occasione dell'incontro con le gerarchie del fascismo bolognese (la cosiddetta Decime Legio) fu esplicito: "In questo momento burrascoso per l'Europa e per il mondo intero, è bene che il pilota non sia disturbato, chiedendogli ogni momento notizie sulla rotta che sta seguendo... Se e quando apparirò al balcone e convocherò il popolo italiano ad ascoltarmi, non sarà per prospettargli esami della situazione, ma per annunciargli decisioni, dico decisioni, di portata storica..."

Purtroppo, il pilota portò l'Italia al 10 giugno 1940, alla catastrofe. Ciano vide da quel momento il suo potere estremamente ridotto, tornando al ruolo di ministro - esecutore. Aveva visto chiaro, ma non aveva potere sufficiente; del resto, gli mancò anche il coraggio di fare l'unico gesto che avrebbe potuto dargli una statura maggiore di quella del Duce: presentare le dimissioni, dissociarsi da una politica da suicidio.

La terribile catarsi dell'avventura di Ciano, fucilato il 10 gennaio del 1944 con gli altri traditori del 25 luglio, stese un velo pietoso su tutta la vita di un uomo che fu senza dubbio un arrivista, che nell'avventura dell'Albania fu cinico, ma che nel contrasto col mostro nazista seppe avere più lucidità e più dignità del Duce.

Fascismo e nazismo: analogie e differenze

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