La nave cargo solcava lo spazio con la sua andatura pesante e priva di premura. Non c'era fretta, né ragioni per temere. In quella remota zona di spazio, non c'era nessuno in grado di tenere testa ad un convoglio dell'Alleanza, la cui sinistra fama era ben conosciuta da ogni singolo pirata o predone che incrociasse per quelle regioni sperdute.
L'Alleanza stava raccogliendo nuova materia prima per le sue industrie e la sua flotta, e quel settore, con le sue cinture di asteroidi, era letteralmente una miniera fluttuante nel nulla.
Il cargo era possente e i sei caccia che aveva di scorta gli giravano intorno come elettroni impazziti attorno ad un nucleo di carbonio.
Man mano che il tempo passava, le stive del cargo si facevano sempre più piene, e questo avveniva grazie alla fonte di manodopera più semplice da reperire e più sottopagata dell'universo: la schiavitù.
L'Alleanza non era tenera con i suoi schiavi, soprattutto se si trattava delle popolazioni che un tempo facevano parte del grande Impero che aveva tenuto soggiogato gran parte del quadrante, dispensando morte e distruzione. Fra gli anziani, c'era ancora che ricordava i fasti e la potenza del decaduto Impero, ma per le nuove generazioni, cresciute fra i tormenti della schiavitù, questo era ormai diventato soltanto un mito, nient'altro che racconti e storie di un posto lontano e fantastico, che venivano riesumati dalla memoria dei più vecchi per tenere vivo anche l'ultimo e illusorio brandello d'orgoglio.
Erano cose lontane ormai, estranee e pericolosamente troppo vicine alla leggenda, soprattutto per chi era assegnato ad un compito come quello che un giovane schiavo vulcaniano stava eseguendo in quel momento.
Sovak alzò lo sguardo verso le stelle che lo irridevano da lontano, al sicuro nelle loro orbite così distanti da quel posto infernale. Alcuni miti terrestri parlavano di un luogo gelido e rovente al tempo stesso, dove le anime erano costrette ad un'eterna agonia. Sovak pensava di averlo trovato.
Lo schiavo inspirò il poco ossigeno rimastogli. La stiva tre era quasi piena e non era economico mantenere attivo il supporto vitale a beneficio dei sassi frantumati. Man mano che l'energia veniva tolta, il freddo si faceva sempre più opprimente ed il giovane vulcaniano era per ovvi motivi particolarmente sensibile. Già da qualche ora doveva porre la più alta concentrazione in tutto ciò che faceva, perché il tremito costante dei muscoli attanagliati dalla morsa del gelo rischiava di fargli sbagliare una presa o di fargli manovrare gli argani con poca precisione, facendo finire così la sua miserabile vita all'istante, schiacciato dal peso di un lavoro che detestava con tutta la sua residua logica.
Gli enormi blocchi spezzati dagli asteroidi dovevano essere esaminati, catalogati e frantumati. Dopodiché si poteva procedere al loro immagazzinamento, nel settore di stiva più adatto alla natura del materiale.
Il compito di Sovak era quello di trasportare le rocce che gli venivano indicate dagli esperti in mineralogia fino alla loro destinazione ultima.
Per rendere più svelti e solerti gli schiavi, le guardie cardassiane isolavano il settore e toglievano il supporto vitale. Le porte che separavano i lavoratori dalla salvezza si sarebbero aperte soltanto quando la stiva fosse stata riempita e questo significava dover procedere senza soste ed al massimo delle forze per un numero interminabile di ore.
Sovak era giunto quasi al limite delle sue energie ma la stiva era quasi piena, non poteva arrendersi proprio ora, per quanto una vocina irrazionale avesse iniziato a disturbarlo da qualche tempo, suggerendo alle sue ginocchia di piegarsi ed alle sue palpebre di chiudersi. Sarebbe stato facile... sarebbe stato così facile sedersi ed aspettare la morte, lasciare che i cardassiani si prendessero da sé il metallo con cui soggiogare Vulcano in eterno. Così facile lasciare che i klingon venissero a trascinarlo via, solo per fare di lui un esempio per quelli del suo popolo. Non è forse una delle massime aspirazioni a cui una persona possa aspirare, esser d'esempio per la propria gente ed i propri cari?
Dopo che anche l'ultimo carico fu portato a bordo, il portellone esterno iniziò a chiudersi, nascondendo alla vista di Sovak quelle stelle che forse erano troppo distanti per riuscire a scorgerlo fin dentro a quell'antro buio e gelido. Le mani del vulcaniano afferrarono tremanti le leve di manovra del carrello. Ora Sovak doveva battere sulla consolle di controllo il codice che avrebbe ripressurizzato l'hangar e che avrebbe tolto il campo d'energia di sicurezza, ma le sue dita gli facevano male anche solo a muoverle leggermente. Riuscire a premere tutti i tasti giusti fu quasi un'impresa al limite delle sue capacità.
Appena la barriera svanì, il vulcaniano si fece avanti, sperando di trovare un po' di sollievo nell'aria appena immessa, ma la sua ingenuità fu presto delusa. I carcerieri non avevano rinnovato l'aria per ripressurizzare l'ambiente, avevano utilizzato quella della stiva ormai troppo ricca di anidride carbonica e troppo povera d'ossigeno. Gli aguzzini lesinavano sulle risorse e a pagarne le spese erano i prigionieri.
Gli schiavi si affrettarono attorno ai frammenti di asteroide ed iniziarono a scaricarli dalla navetta. Sovak ignorò la vocina che gli sussurrava "Questa è la fine, la fine, la fine" e mise le ultime forze di cui disponeva per caricare il suo carrello e portare il più velocemente possibile il minerale oltre le paratie stagne della stiva. Malgrado il freddo costante ed in progressivo aumento, i polmoni gli bruciavano per l'aria gelida che era costretto ad inspirare, dandogli quasi un illusorio senso di tepore. Conosceva una parola esotica per descrivere queste situazioni: buffo. Il tremito delle sue gambe non faceva che affaticare ulteriormente i muscoli già stanchi e doloranti ma era questione di pochi metri ormai, solo pochi metri e le porte si sarebbero aperte anche per lui.
Superò uno schiavo che giaceva a terra, stroncato dalla troppa fatica e provò un impeto di assurda invidia per il fatto che l'altro fosse sdraiato sul pavimento, mentre lui doveva spostare ancora tutto quel peso che diventava sempre più gravoso, metro dopo metro.
La nausea gli prese lo stomaco e per un attimo pensò che forse stavolta non ce l'avrebbe fatta. Se fossero sopraggiunti i conati di vomito Sovak sapeva che avrebbe esaurito le sue ultime vestigia di volontà. Se si fosse inginocchiato a terra per rimettere, sapeva che non si sarebbe più alzato in piedi, sarebbe giaciuto lì per il resto del viaggio, coprendo con il proprio corpo il punto di pavimento dove aveva sporcato, come un vulcaniano ben educato.
La nausea arrivava sempre quando trasportava un carico, e la causa era da ricercare nelle emissioni radioattive del minerale. Era proprio per queste interferenze che era impossibile immagazzinare i frammenti mediante il teletrasporto ed occorrevano invece degli schiavi per fare il lavoro più pericoloso, che paradossalmente non consisteva nella frantumazione degli asteroidi ma nel dover stare a contatto con le rocce.
Soltanto pochi passi e sarebbe arrivato alla stiva, soltanto pochi passi, pochi ancora. Sovak riversò il suo carico all'interno del magazzino senza rendersi conto di quel che stava facendo, mentre la sua coscienza iniziava a galleggiare in un'atmosfera di irrealtà. Per un attimo non sentì più il dolore, la stanchezza, il gelo, il bruciore e si chiese se non fosse già crollato ed ora stesse solo sognando di essere finalmente arrivato alla porta, oppure se questo non gli fosse successo perché c'era, in un qualche posto dentro di lui, una specifica parte del corpo legata ai sensi che si era logorata definitivamente.
Poi le porte che isolavano il ponte si aprirono e un contingente di guardie armate irruppe nel locale per fare uscire gli schiavi, sollecitandoli ad affrettarsi con pungoli e spinte, prima che venisse sprecata altra aria buona per i loro comodi. Sovak si prese il calcio di un disgregatore nello stomaco e fu letteralmente strattonato nel corridoio oltre la porta, dove una fronte di calore improvviso lo abbracciò e l'ossigeno gli entrò nei polmoni, dandogli un senso di euforia che fece risuonare una rauca risata nella sua gola riarsa, malgrado tutta la sua educazione vulcaniana.
- È questo che si prova, ad essere ubriachi? - pensò.
Riprendendo il controllo e crogiolandosi nel tepore, trascinò i piedi verso le sale di decontaminazione insieme alla mandria degli altri schiavi.
Sovak posò i suoi vestiti sul rullo ed entrò completamente nudo nella cabina di decontaminazione. Chiuse gli occhi traendo un respiro profondo mentre un raggio energetico percorreva il suo corpo eliminando i residui superficiali di radiazioni insieme al primo sottilissimo strato di epidermide. Due secondi ed il procedimento era finito. Non era doloroso. Non dopo averci fatto l'abitudine, almeno.
Sovak uscì dalla cabina appena le porte si aprirono. Indugiare o non essere abbastanza svelti erano entrambe cose che facevano irritare le guardie e non era mai un bene per la propria salute che questo avvenisse.
Il vulcaniano pescò degli indumenti da una cesta comune. Ad occhio tentò di prenderne della propria misura ma, come detto prima, attardarsi non era una buona linea di condotta e così dovette pescare dal mucchio senza potersi permettere di esaminarlo o fare tanto lo schizzinoso. Non ebbe il tempo di vestirsi subito perché gli schiavi furono spintonati, ancora con i loro fagotti in mano, fino ai dormitori. Sovak oltrepassò la porta tenendosi lontano dai "bastoni del dolore" impugnati anche con troppa solerzia dalle guardie.
Senza dare il minimo segno dell'imbarazzo che provava per il proprio stato di nudità, il vulcaninano camminò fino ad un giaciglio vuoto e lo occupò gettandovi sopra gli stivali. Aspettò qualche secondo, per assicurarsi che nessuno avesse qualcosa da dire sulla sua scelta. A volte capitava che qualche umano, qualche andoriano, o addirittura qualche vulcaniano rivendicasse con argomentazioni del tutto illogiche la supremazia su questo o quel territorio, ma stavolta, fortunatamente, ciò non avvenne. Sarebbe stato un inutile dispendio di energie ricondurre sulle vie del raziocinio qualche altro schiavo in cerca di briga.
Lentamente e con i muscoli che gli dolevano per la fatica Sovak iniziò a rivestirsi. Gli abiti erano più larghi di quello che avrebbero dovuto, ma sarebbero andati più che bene, come si diceva, "meglio larghi che stretti". D'alta parte, quello era un altro modo con cui l'Alleanza ricordava ai propri schiavi che non gli era concesso nulla, nemmeno la proprietà di vestiti vecchi e logori.
Il vulcaniano si stese sul giaciglio, sfinito, ma si prese qualche minuto per poter meditare prima di cadere addormentato. Poteva permetterselo, dal momento che gli spettavano ben nove ore di riposo prima dell'inizio del prossimo turno. Un privilegio che le guardie non concedevano per magnanimità ma per mero pragmatismo: se avessero ucciso di fatica tutti gli schiavi addetti al settore minerario, poi chi gli avrebbe fatto il lavoro sporco?
- Una struttura non può reggere senza fondamenta. -
Sovak iniziò la meditazione silenziosamente, con gli occhi chiusi per non vedere il soffitto opprimente della cella di detenzione, le mani giunte sul petto e gli indici uno contro l'altro.
- La logica è il fondamento della funzione. -
Doveva mantenere la mente allenata e disciplinata. Continuò la meditazione malgrado il suo organismo reclamasse il sonno.
- La funzione è l'essenza del controllo. -
Non avrebbe permesso ai carcerieri di trasformarlo in una bestia da soma senza volontà.
- Io possiedo il controllo. -
Il ricordo e gli antichi insegnamenti di Surak il Magnifico sarebbero rimasti vivi, e forse, un giorno...
"Io possiedo il controllo," mormorò a denti stretti, malgrado l'evidenza dei fatti dimostrasse tutto il contrario. Era da folli tentare di convincersi di avere anche solo un minimo di controllo sulle proprie azioni, sul cibo che mangiavi, sugli abiti che indossavi? Era... illogico?
"Io possiedo il controllo," ripeté Sovak a fil di labbra, spazzando via impietosamente tutti i pensieri negativi e riportando la disciplina dentro la propria mente.
Potevano controllare il suo lavoro, potevano controllare il suo cibo, potevano controllare tutto della sua esistenza, ma non potevano controllare i suoi pensieri. Questo non glielo avrebbe mai permesso. E l'unico modo per mantenere intatta la loro identità di vulcaniani era mantenere in vita la tradizione.
Il dormitorio, affollato, puzzolente ed avvolto nella semioscurità era percorso in ogni lato da russare e da lamenti. A volte un pianto sommesso giungeva fino alle sue orecchie, proveniente da chissà quale giaciglio. A volte qualcuno aveva un incubo, a volte qualcuno urlava, non per gli incubi ma per il semplice dolore fisico.
Sovak iniziò a rilassare le membra, adesso era tempo di dormire. Aveva fatto ciò che andava fatto e forse, un giorno...
"Asch-na kalot'h whoi talh rebid,
asch-na karye-h el'us khel-bid..."
La voce giunse alle sue orecchie attraverso la nebbia del dormiveglia. Era una voce vecchia, roca, ruvida come la superficie di una lima, che grattava via dalle pareti del lurido dormitorio con tranquilla determinazione la speranza che si era seccata su di esse, rimettendola in circolo come fosse aria fresca e facendola volteggiare ancora una volta fra gli eredi decaduti di un grande impero.
Il vulcaniano si chiese se qualcuno stesse veramente cantando o se si trattasse di un'allucinazione del subconscio. Un sogno, come lo chiamavano gli umani. Lo schiavo aprì gli occhi, ma la voce non sparì e così il canto che intonava, un canto che parlava di libertà, di dignità e di vittoria.
Erano le note di un antico canto vulcaniano, uno di quei poemi così remoti che il nome dell'autore, se mai vi era stato, si era perso nelle nebbie della tempo. Il poema narrava la leggenda del va'hral, il "corvo" degli sterminati altopiani rocciosi di Vulcano. Portatore di vittoria, araldo dei sogni e divoratore di cadaveri, l'uccello dal manto nero come la notte era venerato dai guerrieri dei tempi passati perché, cibandosi dei cadaveri dei caduti sul campo di battaglia, accompagnava i loro katra nel viaggio verso le terre dell'ombra.
Ma la leggenda raccontava ancora che nell'ora più buia, quando tutte le speranze sembravano infrante e i sogni svaniti per sempre, il corvo, 'l'ombra del sole', avrebbe infine riportato sulla terra i katra degli antichi guerrieri, affinché questi si unissero ai vivi per combattere fianco a fianco con loro nella battaglia finale per la riconquista della libertà.
Una seconda voce, carica d'ira, sovrastò la prima: "Sta zitto! Chiudi quella ciabatta, vecchia mummia rinsecchita!" Evidentemente a qualcuno non piaceva cullarsi nelle illusioni e nelle false speranze, che rendevano solo più dolorosa situazione in cui si trovava ora.
"Smettila tu, piuttosto!" esclamò una voce femminile, rimbeccando l'uomo. "Lascialo cantare, poveraccio! Che ti costa?..."
La canzone ignorò entrambi i commenti, mentre la voce roca e melodiosa continuava a descrivere un mondo più vasto e migliore di quello di quello racchiuso da quelle quattro pareti. A tratti la voce vacillava, ed allora l'intonazione si faceva subito più decisa ed aspra, quasi rabbiosa, come se tentasse di arrampicarsi sulle note come su di un'ancora di salvezza, per impedire che la disperazione lo trascinasse via con sé.
- Mantenere viva l'identità, mantenere vive le tradizioni - ripensò Sovak, come imperativo di un comportamento da tenere. - E forse, un giorno... -
La nave fu squassata da un forte impatto, e Sovak si artigliò ai lati del giaciglio tentando di non essere sbalzato via.
Nel dormitorio risuonarono urla ed esclamazioni di paura e stupore. L'impatto ed il brusco cambiamento di rotta avevano fatto sì che molti degli schiavi rotolassero sul pavimento.
Esclamazioni e domande si accavallarono le une sulle altre, aumentando il panico e lo stupore che riempivano il comparto. La nave eseguì una serie di brusche manovre, sbalzando gli schiavi contro i giacigli e le paratie, mentre una successione di colpi ne squassava lo scafo. L'allarme di battaglia si attivò e le paratie di detenzione scesero ad isolare l'enorme cella dormitorio, chiudendo gli schiavi dietro a quattro dita di tritanio. La velocità di crociera aumentò notevolmente, Sovak poteva avvertirlo dalle vibrazioni sul pavimento, così come tutti potevano avvertire le potenti batterie phaser venire caricate e fare fuoco. La nave mineraria era priva di siluri.
"Stanno usando i phaser!" urlò un giovane andoriano, comunicando tutto il suo stupore per il fatto che ci fosse qualcuno di così folle da attaccare un convoglio dell'Alleanza. "Stiamo combattendo, stiamo combattendo!"
- No! No! - pensava Sovak, realizzando con il medesimo stupore ciò che stava succedendo in realtà. - Non stiamo combattendo... stiamo scappando! per le Armate di Surak! Stiamo scappando! -
Per un attimo il suo autocontrollo vulcaniano si increspò, lasciando trasparire un accenno di emozione sul volto pallido ed angoloso. "Stiamo scappando... cos'è successo ai sei caccia di scorta? Non..."
Gli schiavi abbastanza vicini da averlo sentito si voltarono con espressione del tutto incredula verso di lui. Sovak ricambiò lo sguardo e si ricompose, mentre il suo volto tornava inespressivo e completamente vulcaniano. L'ultima cosa che voleva era gettare altro scompiglio tra quello già presente.
"Non è possibile," mormorò una donna. "Non possiamo perdere... moriremo."
Sovak decise di ignorare ciò che succedeva intorno a lui per concentrarsi su quello che succedeva al resto della nave, tentando di decifrare ogni più piccola vibrazione del pavimento, ogni più piccolo rumore che giungeva da oltre le spesse paratie.
- A dritta, - decise dopo pochi attimi di ascolto, - e a sinistra. Stanno ingaggiando da entrambi i lati. Ci hanno circondato. È la fine.- Che fare con quella consapevolezza gravosa? Cosa suggeriva la logica, in quei frangenti?
"Nooo, fateci uscire! Non come topi, noooo!" Un gruppo di schiavi, in preda la panico ed all'isteria, si era scagliato contro la paratia di detenzione, battendo i pugni o tentando di aprire una fessura fra il bordo della barriera in titanio ed il pavimento, utilizzando dita ed unghie. Sovak restò dov'era. Un vulcaniano non si fa prendere dal panico. Sarebbe rimasto in ascolto di ciò che succedeva, sarebbe morto tentando di acquisire la conoscenza di cosa avrebbe portato a questo processo. Aveva calcolato tre possibili scenari:
Sovak vacillò all'ennesimo colpo e si protese verso il giaciglio, aggrappandosi per tenere una posizione stabile.
- Gli scudi ventrali hanno ceduto,- pensò infine. - Siamo esposti. Che aspettano a colpirci? Che colpiscano da sotto e spazzino via questa cella una volta per tutte. Sarebbe la più svelta ed indolore delle morti.-
Solo in quel momento Sovak si rese conto che il vecchio non si era ammutolito, ma aveva continuato a cantare con rinnovato vigore, ignorato da tutti, senza che nessuno si prendesse la briga di zittirlo, troppo impegnati com'erano a pregare, meditare o farsi prendere dal panico.
La voce roca fendeva trionfalmente il marasma del dormitorio, come la luce di un faro tra le nebbie e i vortici del mare in tempesta. Libertà! Vittoria! Libertà! intonavano i versi.
Il giovane vulcaniano restò a fissare quella strana figura, quasi irreale, come se si trattasse di un'inusuale sirena che lo avesse catturato con il suo canto. Sovak non distolse da lui la sua attenzione nemmeno quando sentì le vibrazioni sul pavimento che cessavano e la nave andare alla deriva.
In quella trappola per topi che era diventato il dormitorio, calò infine il silenzio. Tutti avevano avvertito l'improvviso cessare dell'attività dei motori, la disfatta della nave dell'Alleanza, ed ora che era giunto il momento tanto temuto, non c'era più isteria, solo attesa.
Uno stridio secco, rumore di metallo contro metallo, fu l'unico suono che accompagnava lo scorrere dei secondi mentre la paratia di detenzione veniva sollevata con lentezza esasperante, rivelando solo poco a poco coloro che la stavano azionando.
Senza rendersene conto Sovak si ritrovò con una spranga in mano, ricavata dal telaio non proprio robusto del suo giaciglio. Incredibilmente, il resto degli schiavi aveva fatto la stessa cosa, armandosi con ciò che avevano, fossero anche soltanto le unghie. Per un qualche strano miracolo atavico, il gruppo stava agendo all'unisono, scegliendo, se non altro, di morire combattendo.
Erano questi, gli ultimi eredi di un popolo un tempo fiero e indomito, un popolo che un tempo aveva dominato gran parte dello spazio conosciuto. Sovak non poté fare a meno di provare una punta di orgoglio, per quanto inutile ed illogico.
La paratia procedeva lentamente, rivelando dietro di sé la sagoma di stivali ed i pantaloni di una divisa sconosciuta.
"State indietro!" intimò una voce nella lingua degli schiavi, quella che era stata la lingua ufficiale del caduto Impero. "Non vi sarà fatto alcun male!"
"Chi siete?" tuonò Sovak, sovrastando la voce del vecchio che nel frattempo aveva ripreso a cantare, più sommessamente.
"Siamo la spada di cui parla la canzone," disse la voce, mentre la figura di una giovane vulcaniana appariva oltre la paratia di detenzione ora completamente spalancata. "Siamo la fiamma che è tornata a bruciare."