Capitano Maxwell: È preoccupato, cadetto Watling?
Watling: Niente di grave capitano. [...] È solo che... È solo che a volte mi chiedo se questo è tutto quello che sono.
Maxwell: Io credo che lei abbia solo bisogno di un po' di riposo.
Stark: Perché non passa quarantacinque minuti in una sala ologrammi?
Watling: D'accordo, seguirò il suo consiglio.
Watling: (trattenendo per un momento Maxwell) Capitano. Ho apprezzato questi anni all'Accademia.
Maxwell: (con aria un po' confusa) Certo, cadetto Watling.
Watling: No, sul serio. Mi è piaciuto. Siete stati grandi, tutti quanti voi. [...] Volevo che lo sapesse. Tutto qui.
Watling: (dando ordini al computer) Computer, avvia programma Mompracem. [...] Annulla. Avvia programma Terra di Mezzo. Annulla. Programma NCC 1701. Annulla. Valle Solitaria. Annulla. Formula 1 fine anni '80, ventesimo secolo. Annulla. Miami anni '80, squadra antidroga. Annulla. Medioevo italiano. Annulla. NCC 1701-D. Annulla. Africa 1856. Annulla. Waterloo 1815...
> ZOT <
Vinsar: (quasi gridando) Watling, non si muova!
Leneorat: È proprio come sembra. Le letture del computer erano corrette. [...] Secondo queste letture, la sua struttura fisica è stata convertita in un genere particolare di materia, la materia prodotta dal ponte ologrammi.
Watling: (iniziando ad arrabbiarsi) Oh insomma, stupidaggini! È impossibile! Sono io, non vedete? Adesso uscirò di qui e non mi succederà niente!
Vinsar: NO! Cadetto, non lo faccia! Scomparirebbe.
Cobledick: Sarà una buona cosa lasciarlo in quel programma? Il dispositivo di incolumità vale per gli umani, non per i personaggi del ponte ologrammi...
Vinsar: Già, ma se spegniamo il programma, come facciamo a sapere se Watling può sopravvivere?
Anziano Sioux: Ragazzo.
Watling: (sbalordito) Nonno.
Anziano Sioux: Che ci fai qui a perdere tempo? [...] C'è tanto da fare. Dopo quattrocento anni ci sono ancora da riparare molti dei danni subiti dal nostro popolo. Quanti sono i giovani guerrieri che conoscono la ghost dance?
Watling: Ma non posso uscire di qui.
Anziano Sioux: Non è necessario, ragazzo.
Stark: Non possiamo essere sicuri che, anche salvando il programma Watling, ciò che verrebbe riaperto avrebbe ancora l'individualità del nostro cadetto.
Watling: Beh, c'è una sola cosa da fare per scoprirlo. Computer, salva programma Watling...
Rettore D'Elena: Un momento, Watling, che vuol fare?
Watling: Fare la prova, è ovvio. Odio vivere nell'incertezza.
Rettore D'Elena: Watling, io se fossi in lei...
Watling: (sorridendo con tranquillità) Computer, fine programma.
Voce fuori campo: "Signore e signori, madames et messieurs, damen und herren, benvenuti alla nuova puntata di... 'Amici di De Leone'! Presenta come sempre il vostro... Aaaahl Coblediiick!"
Uno scrosciante applauso accolse l'ingresso in scena di Ahl Cobledick, come sempre completamente a suo agio nelle vesti di uomo di spettacolo. Il gioviale el-auriano misurò a grandi passi il luccicante palcoscenico allestito nell'auditorium dell'Accademia, immergendosi nel calore del suo pubblico con tutta il savoir-faire di un presentatore navigato.
"Grazie, signore e signori. Mille grazie. Siete un pubblico meraviglioso. Sono davvero onorato questa sera di essere il vostro ospite. Se vorrete seguirci, vi accompagnerò in questa nuova puntata di 'Amici di De Leone', il programma di intrattenimento realizzato dai cadetti dell'Accademia di San Francisco e sponsorizzato dalla Direzione Programmi Ricreativi del Comando della Flotta Stellare."
Cobledick cambiò posizione al centro del palco, rivolgendo il suo sorriso verso una seconda camera. "Questa sera abbiamo in programma delle prove molto impegnative, e sono certo che metteranno a dura prova i nostri cadetti. Ma passiamo subito alla prima manche: i nostri computer stanno già elaborando, e tra poco avremo i nomi dei nostri primi concorrenti. Ecco la nostra graziosa Ailoura che porta i fogli con i nomi dei fortunati partecipanti. Un bell'applauso alla nostra Ailoura!" incitò l'el-auriano, e il pubblico seguì calorosamente il suo invito.
La caitiana porse a Cobledick alcuni fogli, fece un paio di fusa per ringraziare degli applausi e si allontanò verso le quinte. Intanto l'el-auriano stava sbirciando le candidature, tanto per accendere l'interesse. "Oh, magnifico! Vedo che questa sera abbiamo dei nomi piuttosto conosciuti tra i partecipanti. Sicuramente ne vedremo delle belle! Ma vediamo subito chi sono i nostri primi concorrenti." La musica di accompagnamento si fece più sostenuta per sottolineare l'attesa, mentre le luci si accendevano e si spegnevano ad intermittenza sul pubblico. Ad un tratto tutte le luci si spensero, tranne un sottile fascio luminoso che come un segno divino andò a segno in mezzo alla folla illuminando tre posti, due occupati e uno, stranamente, vuoto.
"Un bell'applauso, signore e signori! Diamo il benvenuto ai cadetti Vaarik, Luke Dalton e Renko!"
Questa volta l'applauso rischiò davvero di far venire giù il soffitto dell'auditorium, ma sfortunatamente per i tre malcapitati, non c'era nulla di benevolo in esso. Solo la gioia primitiva e crudele di chi vede il proprio vicino centrato da una pallottola vagante, e non riesce a fare a meno di pensare con un sollievo colpevole: Meglio lui che me.
"Impossibile. Tutto questo è assolutamente impossibile."
Fu Vaarik il primo a dare voce ai suoi pensieri, ma quando due secondi dopo fu il turno di Dalton di esprimere la sua opinione l'umano si esibì in una serie di moccoli talmente sboccati che il suo traduttore universale sarebbe arrossito come un peperone se solo avesse capito la metà di quello che avrebbe dovuto tradurre.
Intanto l'applauso intorno a loro iniziava a scemare di intensità, mentre gli altri cadetti attendevano con impazienza e una certa dose di sadica curiosità di vedere i tre malcapitati alzarsi e andare incontro al loro destino. Dal palco anche Cobledick li spronava ad avvicinarsi, incitandoli con ampi gesti delle mani.
"Cosa facciamo?" domandò Dalton tra i denti, mentre i muscoli delle sue guance iniziavano a dolergli per lo sforzo di trattenere sul suo viso quella specie di ghigno congelato che doveva in qualche modo assomigliare ad un sorriso.
"Non ne ho la minima idea," ammise dopo qualche momento Vaarik, che come vulcaniano non doveva preoccuparsi di sorridere ma che non per questo considerava la sua situazione meno tragica. "Potremmo sempre rifiutarci di salire sul palco."
"E passare per conigli?" rispose Dalton, toccato sull'orgoglio. "Mai." Poi la sua carnagione prese ad incupirsi, mentre le vene della sua fronte si gonfiavano ritmicamente. "Ho combattuto contro le navi da guerra Minbari," mormorò, mentre la sua voce diventava una specie di ringhio, "ho abbattuto interi squadroni della morte Drakh. Ho visto leggende prendere vita e civiltà cadere nell'oblio della distruzione. Ma questo è davvero troppo." Dalton si alzò in piedi, sollevando il mento in un gesto di sfida. "Nessuno mi costringerà a partecipare ad uno stupido gioco per il divertimento di una folla di decerebrati."
Alzandosi in piedi accanto a lui, Vaarik non poté fare a meno di lanciare un'occhiata severa al suo compagno di stanza, già sapendo che si sarebbe pentito di quello che stava per chiedere. "Non starai per fare una cosa incredibilmente stupida, vero Dalton?"
"Non ti preoccupare, Vaarik," rispose l'umano con deliberata lentezza, incamminandosi insieme al vulcaniano verso il palco dove li aspettavano tutti. "Qualunque cosa possa succedere, sono certo che potremo gestirla con calma, dignità, e classe."
"Calma, dignità, e classe. Mi sembra che siano state queste le tue esatte parole, giusto, Dalton?" Le parole uscirono dalla bocca di Vaarik rapide come frustate, e altrettanto brucianti.
"Oh, insomma!" replicò Dalton seccato, infilzando l'ennesima cartaccia con il puntale del suo bastone per la raccolta dei rifiuti. "Non c'è nessun bisogno di essere così sarcastici. Se avevi un'idea migliore, beccamorto, potevi anche proporla ieri sera sul palco, invece di fare tanto il sapientone a posteriori."
Vaarik non sembrò particolarmente impressionato dalla reazione dell'umano e anzi rincarò la dose, inarcando sarcasticamente un sopracciglio. "Stavo solo cercando di raccontare a Renko il modo in cui i fatti sono svolti, in modo che potesse avere una visione esaustiva dei motivi per cui siamo stati arruolati a forza nell'operazione 'Bonifica Globale' dell'ammiraglio De Leone."
"Io continuo a sostenere che tutto questo è estremamente ingiusto," si lamentò non per la prima volta il delta gammano, sollevando con una pedata un mucchio di cartacce per terra e divertendosi ad infilzarle al volo una per una. "Io non ero nemmeno presente quando Dalton ha fatto il suo numero di fronte a tutti i cadetti riuniti e a tutto il corpo docente, senza considerare i quaranta milioni di spettatori in tutto il quadrante. Ma come al solito nessuno si è preso la briga di stare ad ascoltarmi!"
"A proposito, toglimi una curiosità," interloquì Dalton, lanciando un'occhiata in direzione dell'ibrido. "Si può sapere dove sei finito ieri sera? Ci hai chiesto di tenerti un posto accanto ai nostri perché dovevi andare un minuto al bagno e poi non ti sei più fatto vedere."
Renko non rispose subito, cercando di mantenere un atteggiamento neutro senza però riuscirci completamente. "Lasciamo perdere. Non ho mai avuto molta fortuna con i bagni pubblici. Ti hanno mai raccontano di quella volta che siamo andati a sciare?"
Dalton trattenne una risatina, ripensando a quello che gli avevano raccontato riguardo la famigerata pista nera Tre Cessi. "Ho capito. Meglio non fare domande."
"Ecco, appunto," confermò il delta gammano, scuro in volto. "Ma nonostante non abbia avuto nulla a che fare con quello che è successo ieri sera, ecco che mi ritrovo in punizione, costretto a raccogliere cartacce in questo immenso parco pubblico. Che non è nemmeno pulito!" non poté fare a meno di constatare l'ibrido, che avendo passato la sua infanzia nei Laboratori di Genesi del suo pianeta natale si trovava sempre più a suo agio in un ambiente artificiale piuttosto che a contatto con uno naturale.
"Sono perfettamente d'accordo con te, Renko," concordò Vaarik con voce piatta. "Perché non provi ad inoltrare una lettera di protesta? Sono certo che se la presenti scritta in sei stili diversi l'ammiraglio De Leone sarà lieto di accoglierla," concluse il vulcaniano, accennando distrattamente al grottesco faccione di De Leone che ammiccava dall'alto di uno degli enormi cartelloni che pubblicizzavano l'iniziativa ecologica.
"Forse lo farò," dichiarò Renko, ficcando tutte le cartacce che aveva infilzato fino a quel momento nella borsa di raccolta che teneva a tracolla, rifiutandosi comunque di dare soddisfazione al vulcaniano.
"Cosa?!? Non avete mai visto 'Il terribile e angoscioso mistero celato dietro la scomparsa del dragone di giada'?" domandò Renko, sbalordito. "È un classico! Dobbiamo assolutamente caricare quel programma!" disse il delta gammano, sprizzando entusiasmo da tutti i pori.
Dalton però non sembrava della stessa opinione. "Aspetta, fammi indovinare: onore, dovere, vendetta, e un sacco di gente che vola di qua e di là lanciandosi colpi di arti marziali dai nomi assurdi. No, grazie, ne faccio volentieri a meno. Ti dico io cosa caricheremo: 'Cieli di gloria'. La storia vera di una squadriglia di piloti di caccia inglesi durante la seconda guerra mondiale. Quello è un classico."
"Temo che tu abbia una visione un po' distorta di quello che si definisce un classico, Dalton," ribatté Vaarik, scuotendo la testa. "Ho qui una rivisitazione della tragedia di Macbeth sotto forma di dimostrazione matematica ad opera di una compagnia teatrale vulcaniana. Tutte le critiche sono state univocamente favorevoli."
"Scusa la mia brutalità, Vaarik, ma credo di non aver mai sentito nulla di più palloso in tutta la mia vita," disse Renko sconcertato, mentre Dalton sogghignava.
"Io lo sapevo che dovevi essere uno shakespeariano," rincarò l'umano, meritandosi un'occhiata perplessa da parte del vulcaniano. "Tutto quel pessimismo e quelle tragedie inutili devono essere un vero spasso per uno come te."
"Immagino che per voi questo sia molto divertente," commentò Vaarik, incrociando le braccia con aria risentita.
"Comunque se vi piace Shakespeare potremmo caricare una commedia," raccomandò Renko, iniziando a scorrere sul terminale della sala ologrammi l'elenco dei titoli che aveva in memoria. "Dopo aver passato tutto il giorno a raccogliere rifiuti ci vorrebbe proprio qualcosa di divertente. Ecco qua: 'Sogno di una notte di mezza estate', sembra un programma carino... ehi, ci sono Maxwell e De Leone nel ruolo del re e della regina delle fate!"
"Non ci pensare neanche," disse Vaarik cupamente, e per una volta Dalton non ebbe nulla da dire sulle opinioni del vulcaniano.
"Ehi, ho trovato una sezione che contiene i programmi che sono stati creati qui in Accademia. Sentite questo: 'Un quadrimestre vissuto pericolosamente'... questo è sicuramente di Sherman, forse è meglio evitarlo se non vogliamo rischiare di farci male... 'Il gladiatore' di Fandonius, 'Le cronache dell'Olimino' di Cobledick..."
Le facce dei suoi due compagni di corso diedero ad intendere cosa ne pensavano dei titoli proposti finora dal delta gammano.
"Ecco qua. Che ne dite di questo? 'Watling e il senso della vita'. Il programmatore non è segnalato. Natura incontaminata, tranquillità, silenzio, un briciolo di avventura..."
Vaarik e Dalton si guardarono in faccia, stringendosi nelle spalle. In definitiva, per loro, un programma valeva l'altro: l'importante era passare qualche ora in assoluto relax, lontano da tutto ciò che riguardava l'Accademia e tutte le sue bizzarre iniziative. Tutto il resto era assolutamente secondario.
"E adesso... mostratemi l'uscita."
Il giovane guerriero che Renko aveva detto chiamarsi Runs-in-the-rain Watling teneva l'arco puntato verso di loro, con la freccia incoccata e pronta a scattare. Il suo volto era una maschera di determinazione.
"E ora cosa facciamo?" chiese Luke muovendo solo un angolo della bocca.
"Mi pare piuttosto semplice," rispose Vaarik sempre a bassa voce. "Evochiamo l'uscita e ce ne andiamo di qui."
"Ma Watling scomparirebbe," fece notare il delta gammano, lanciandogli un'occhiata.
Il vulcaniano si limitò a sollevare le spalle. "Il problema non mi riguarda."
"Cosa state confabulando?" domandò il pellerossa, facendo un passo avanti e puntando la sua freccia direttamente in faccia a Vaarik. "Ho detto di mostrarmi l'uscita."
"Attento a dove punti quell'arma, terrestre," lo ammonì il vulcaniano, guardandolo severamente. "O qualcuno potrebbe farsi male."
Dietro di lui, Renko e Dalton si scambiarono un'occhiata. "Pensi che i protocolli di sicurezza della sala ologrammi siano attivi?"
"Non lo so," replicò il delta gammano. "Definire questo programma anomalo è dire poco. Quello con cui abbiamo a che fare era un cadetto in carne e ossa che è stato trasformato in materia olografica. Temo non ci sia alcuna garanzia."
Lo sguardo dell'umano si indurì, mentre il militare che era dentro di lui prendeva il sopravvento. "In ogni caso lui è solo, mentre noi siamo tre. Potremmo riuscire a disarmarlo."
In quel momento, dalle ombre del sottobosco sbucarono almeno una ventina di indiani dipinti con i colori di guerra. Alcuni di loro erano armati di arco e faretra, mentre altri brandivano un tomahawk dalla lama lunga e stretta. Nessuno di loro li aveva sentiti avvicinarsi, nemmeno Vaarik con il suo udito vulcaniano, e i cadetti vennero colti completamente alla sprovvista.
Deglutendo nervosamente e scambiandosi occhiate preoccupate. i tre cadetti sollevarono le braccia in segno di resa, stringendosi poi istintivamente schiena contro schiena, anche se in caso di attacco la cosa non avrebbe fatto molta differenza.
"Runs-in-the-rain," disse uno dei pellerossa, alto e dotato di una profonda cicatrice sul volto. "Chi sono questi wasichu?" domandò, utilizzando la parola che gli indiani usavano per riferirsi all'uomo bianco, e che non aveva nessun legame con il colore della pelle.
"Sono stranieri in queste terre, Redleaves," rispose Watling con circospezione. "Non sono pericolosi."
"Questo non sei tu a doverlo dire, cugino," rispose l'altro severamente. "Sarà il consiglio a decidere di loro."
Ad un cenno dell'uomo, che sembrava una specie di capobanda, gli altri si avvicinarono ai cadetti per immobilizzarli, mentre altri li tenevano sotto tiro con le frecce. Renko, Vaarik e Dalton non opposero resistenza. Anche se fossero riusciti a sopraffare cinque o sei dei loro avversari, ne rimanevano comunque quindici di troppo per tentare la fortuna.
In silenzio vennero condotti all'accampamento poco distante con le mani legate dietro la schiena. Durante il percorso nessuno di loro disse una parola, anche se ogni tanto intercettavano lo sguardo preoccupato di Watling: se il giovane guerriero voleva davvero liberarsi dalla sua prigione olografica, loro tre rappresentavano l'unico contatto con il mondo esterno. Al contrario, da morti non gli sarebbero serviti più a nulla.
A discapito dell'aspetto che certo doveva apparire 'selvaggio' agli invasori europei, quello di Watling era un popolo gentile e civilizzato, depositario di una cultura antica e preziosa.
Sfortunatamente per i tre cadetti legati come salami ad un palo al centro dell'accampamento, era anche un popolo profondamente superstizioso, che non vedeva di buon occhio ogni turbamento di quello che credeva essere il naturale svolgimento degli eventi.
In quel momento, il waniyetu ota omniciye, il 'consiglio dei molti inverni', l'assemblea degli anziani della tribù era riunito nella grande tenda centrale, impegnato a decidere il loro destino. Fortunatamente, non tutti erano convinti come il guerriero chiamato Redleaves che l'unica soluzione fosse ucciderli per impedire loro di portare guai e scompiglio nel loro mondo. Tuttavia, era abbastanza ovvio che non potessero fare affidamento unicamente sulla saggezza e sull'apertura mentale di un gruppo di personaggi olografici per decidere delle loro vite. Per quello, quando una figura si avvicinò furtivamente a loro tra le ombre della notte, i cadetti già sapevano di chi si trattava.
"State fermi," disse Watling in un sussurro. "Devo tagliare le corde."
Vaarik avvertì la stretta attorno ai suoi polsi allentarsi improvvisamente, e si portò le mani davanti alla faccia, massaggiandosi delicatamente la pelle dolorante.
"Sei sicuro che non ci scoprano?" domandò Renko, guardandosi attorno con aria preoccupata.
"Ho fatto allontanare le guardie con una scusa," rispose il giovane guerriero. "Nessuno sospetta che qualcuno possa far fuggire i prigionieri prima che il consiglio decida del loro destino," disse Watling con uno strano tono nella voce, come se dentro di sé rimpiangesse profondamente di essere il primo ad introdurre la parola tradimento all'interno della sua tribù.
Rapidamente il giovane pellerossa scrutò l'accampamento, in attesa del momento propizio per tentare la fuga. "Adesso," disse, facendo cenno agli altri di seguirlo.
Watling scattò come un fulmine, volando letteralmente attraverso le tende quasi senza emettere alcun suono. I tre cadetti fecero non poca fatica a tenere il suo passo, ma in qualche modo riuscirono a raggiungere i confini dell'accampamento e a scomparire nel folto sottobosco della foresta.
"Quanto tempo abbiamo prima che scoprano la nostra fuga?" domandò Dalton, pratico come sempre.
"Direi fino a quando la luna non sarà oltre la cima di quelle montagne laggiù," rispose Watling senza rallentare il passo, e Vaarik calcolò che si trattasse di circa un'ora. "Ma anche se lo scoprissero prima non riuscirebbero ad inseguirci: ci siamo mossi su terreni molto duri e non abbiamo lasciato impronte."
Continuarono ad allontanarsi per un bel po', immergendosi sempre più in profondità nella foresta. Infine sbucarono in una radura, al centro della quale sorgeva un piccolo tepee poco decorato che Watling utilizzava durante le sue battute di caccia. A quanto pareva nessuno della sua tribù sapeva della sua esistenza, e quindi si trovavano relativamente al sicuro, per quanto possano essere al sicuro tre cadetti incredibilmente sfortunati intrappolati in un programma olografico completamente anomalo.
Seduti intorno ad un piccolo fuoco da campo, i tre ascoltarono Watling raccontare cosa era successo quel giorno in cui aveva messo piede nella sala ologrammi senza riuscire poi ad uscirne, mentre i ricordi gli tornavano alla mente man mano che procedeva nel racconto. Vaarik, Renko e Dalton assorbirono le informazioni in silenzio, senza fare commenti.
Purtroppo la situazione non era affatto semplice, e i tre cadetti si trovarono presto a corto di idee su come aiutare il giovane guerriero. Quando la conversazione arrivò ad un punto morto, Watling uscì dalla tenda a prendere una boccata d'aria. Anche Vaarik decise che era meglio andare a meditare all'esterno per qualche minuto, sperando che un po' di solitudine avrebbe acuito la sua concentrazione.
Dopo qualche minuto, quando ormai il vulcaniano stava emergendo dalla sua meditazione, il giovane pellerossa gli si avvicinò lentamente. "Disturbo?" domandò, sedendosi accanto a lui.
"Niente affatto," rispose Vaarik, senza scomporsi. "Siedi pure."
"La tua meditazione ti ha portato consiglio, vulcaniano?" domandò il giovane guerriero, una volta che si fu accomodato di fianco a lui.
"Sfortunatamente no," rispose Vaarik dopo un momento. "Ho esaminato la questione da vari punti di vista, ma non sono riuscito a giungere ad una linea di condotta univoca. Temo di non essere in grado di suggerirti una soluzione logica al tuo problema."
"Questo vuol dire che non puoi aiutarmi, o che non vuoi aiutarmi?" disse Watling, amareggiato.
"Il numero di parametri casuali è tale da rendere la mia logica quasi inefficace," spiegò Vaarik. "Non so cosa altro potrei fare per te."
Il giovane pellerossa rimase per un po' in silenzio. "Capisco." Poi però continuò, rivolgendosi direttamente al vulcaniano. "Però non dimenticarti che qui c'è la mia vita in ballo. Io non sono uno stupido personaggio olografico in balia della volontà di un programmatore. Io ho il diritto di decidere cosa fare della mia vita."
Vaarik si voltò verso Watling, colpito dalle parole del giovane.
Io ho diritto di decidere cosa fare della mia vita, ripeté nella sua mente il vulcaniano. Le stesse identiche parole che anche lui aveva pronunciato di fronte al consigliere Memok durante il suo secondo ritiro su Vulcano, durante le vacanze di fine secondo anno. Durante quel periodo, Vaarik aveva maturato la consapevolezza che nessuno aveva il diritto di dirgli cosa fare. Poteva sembrare una banalità per un abitante della Federazione, ma per un ex-schiavo come lui quella era una conquista fondamentale. Anche quando era fuggito dall'universo dello specchio, in realtà non aveva fatto altro che infrangere gli ordini che i suoi padroni gli avevano imposto, ma fino a quel momento non aveva mai pensato di poter giocare secondo le sue regole, come dicevano i terrestri. Forse lui e Watling non erano così diversi come aveva pensato in un primo momento.
"Volevo chiederti una cosa, se non è troppo personale," disse il giovane seriamente, dopo un momento di attesa.
"Continua," lo esortò il vulcaniano, sollevando un sopracciglio.
"Non ho potuto fare a meno di notare che tu e i tuoi amici siete un po', come dire... maturi per essere dei cadetti. Quindi, o l'età minima per iscriversi all'Accademia è aumentata drasticamente negli ultimi anni, oppure ognuno di voi ha una storia molto interessante da raccontare."
Vaarik inclinò la testa da un lato. "Possiamo dire così. Apparteniamo a mondi molto diversi. Alla fine siamo capitati in Accademia più per caso che per una vera scelta. E in un certo senso siamo sempre rimasti degli estranei per quel mondo."
"Quindi potete capire come mi sento," disse Watling, guardandolo dritto negli occhi. "Intrappolato in un mondo che non sento mio."
"Immagino di sì," confermò il vulcaniano, riascoltando nelle parole del giovane pellerossa quelle che lui stesso aveva pronunciato un numero infinito di volte. "Spesso ho sperimentato anch'io la stessa sensazione."
"E come l'hai superata?" domandò il giovane pellerossa. Una domanda semplice, dal suo punto di vista.
Al contrario, Vaarik impiegò molto tempo per rispondere a quella domanda. "Non credo di averlo fatto."
Watling lo guardò sollevando un sopracciglio, come se in quel momento toccasse a lui fare il vulcaniano.
"Da qualche parte dentro di me, provo ancora la sensazione di essere fuori posto. So che il mondo in cui sto vivendo non mi apparterrà mai del tutto, ma anche se provassi a tornare indietro al mio mondo non sono certo di poterlo fare," continuò Vaarik, guardando intensamente il terreno di fronte a sé, come se stesse facendo uno sforzo cosciente per tirare fuori quella parole. "Alcune volte, guardandomi attorno, ho perfino avuto la sensazione che tutto ciò che mi circondava non avesse alcuna importanza, come se quella in cui stessi vivendo fosse solo una specie..." un sorriso amaro si fece strada nelle sue parole. "Una specie di enorme simulazione olografica."
Il giovane guerriero non rispose nulla per un lungo tempo. "Speriamo allora che gli spiriti sorridano ad entrambi," disse infine, molto piano. Poi si alzò, dirigendosi nuovamente verso la sua tenda, lasciando il vulcaniano da solo con la notte fuori e dentro di lui.
Qualche tempo dopo, si ritrovarono di nuovo tutti insieme all'interno della tenda di Watling. "Adesso fumiamo."
Senza aspettare alcun cenno di assenso da parte dei suoi ospiti, il giovane pellerossa prese ad armeggiare con una lunga pipa di legno intagliato, pigiando con il pollice una piccola quantità di tabacco nel fornello.
"Adesso... cosa?" domandò Renko, che non aveva capito molto bene cosa stava facendo il giovane guerriero.
"Cha-nu-pa," ripeté Watling lentamente nella sua lingua madre, come se questo potesse aiutarli a capire. "Fumiamo." Poi fece una pausa, come se cercasse le parole per chiarire una cosa che per lui era ovvia quanto respirare. "Il tabacco è un'offerta," spiegò, continuando a pestare lentamente il tabacco essiccato come in un consumato rituale. "Il fumo sale verso il cielo portando con sé le nostre parole, in modo che il Grande Spirito possa ascoltarci ed esserci testimone. Quando fumiamo, tutto è wakhan, sacro e imbevuto di potere mistico."
Nel frattempo Watling aveva terminato di riempire la pipa. Quindi la accese, traendone lunghe boccate, mentre intorno a lui si spargeva un odore acre e dolciastro al tempo stesso. Quando fu certo che la pipa fosse ben accesa, la porse verso Renko, con il manico offerto in avanti come prescriveva il cerimoniale.
Il delta gammano accettò l'offerta, apparendo comunque leggermente impacciato con quello strano strumento tra le mani. Con cautela l'ibridò avvicinò la bocca alla pipa, inspirò un paio di rapide boccate, e le esalò lentamente, mentre intorno a lui il fumo creava strane volute caliginose. Dopo qualche boccata Renko passò la pipa alla sua destra, offrendola a Dalton con lo stesso gesto che aveva visto fare a Watling precedentemente.
L'umano gli scoccò un sorriso da canaglia, afferrando la pipa con aria disinvolta, poi la portò alle labbra, inspirando due profonde boccate a pieni polmoni. Con un incredibile sforzo di volontà Dalton riuscì a impedirsi di tossire, ma non poté evitare che un certo numero di gocce di sudore imperlasse la sua fronte. Il pilota cercò di darsi un tono inspirando ancora un paio di veloci boccate, poi passò ancora la pipa alla sua destra, ossia a Vaarik.
Il vulcaniano rimase perfettamente immobile per un tempo che parve lunghissimo, mentre il suo sguardo passava severamente dalla pipa a Dalton, a Renko, a Watling, e poi ancora alla pipa. Per un breve momento i suoi compagni pensarono che avrebbe rifiutato l'offerta: in fondo quell'azione non aveva alcun fondamento logico, e nessuno si sarebbe potuto stupire se Vaarik avesse semplicemente deciso che fumare tabacco non era una cosa per lui.
Però, proprio quando l'umano stava per ritirare l'offerta, il vulcaniano prese la pipa dalle sue mani con deliberata lentezza. Per un lungo momento Vaarik osservò la pipa con aria pensierosa, poi la avvicinò lentamente alle labbra. Consapevoli che stavano assistendo ad uno spettacolo che difficilmente si sarebbe ripetuto nell'arco delle loro vite, Renko e Dalton osservarono in religioso silenzio il vulcaniano aspirare lentamente, fissandolo senza nemmeno tentare di dissimulare la loro curiosità, attendendo con il fiato sospeso di vedere quello che sarebbe successo.
Per qualche momento non successe assolutamente nulla, poi la pelle del vulcaniano iniziò gradatamente a cambiare colore, passando per varie gradazioni di verde e di porpora, fino a diventare quasi paonazza. Alla fine, incapace di trattenere ulteriormente il fiato, Vaarik esplose letteralmente in una nuvola di fumo, tossendo in una sola volta tutte le sostanze estranee che gli bruciavano la gola e i polmoni.
Istintivamente il vulcaniano si irrigidì, aspettandosi di subire lo scherno dei suoi compagni. Per una volta, pensò, per una volta che nella sua vita si era lasciato andare, aveva permesso alle sue barriere di abbassarsi di un poco, ed ecco che immediatamente questa sua debolezza si rivoltava contro di lui, esponendolo a subire la vergogna e il ridicolo.
Tuttavia dopo qualche secondo Vaarik si rese conto che le attese risate non erano ancora arrivate, e che a questo punto con tutta probabilità non sarebbero arrivate affatto. Infatti, sollevando cautamente lo sguardo verso i volti dei suoi compagni, il vulcaniano non trovò alcuna traccia di scherno, ma solo un sorriso sornione. Sapevano quanto fosse stato difficile per lui compiere quel gesto totalmente illogico ma sicuramente significativo, e sapevano perché l'aveva fatto. Anche Watling gli indirizzò un cenno della testa, come ad approvare la sua condotta.
Per un momento Vaarik contemplò la possibilità di sorridere a sua volta, ma fortunatamente la sua Disciplina soppresse immediatamente questa tentazione. Forse si stava lentamente abituando all'ipotesi di avere degli amici, ma aveva comunque un'immagine da mantenere.
Sentendosi i polmoni ancora come se avesse respirato l'atmosfera densa di idrogeno e metano di un gigante gassoso, e ben determinato a non ripetere la sgradevole esperienza, Vaarik riconsegnò con espressione leggermente nauseata la pipa nelle mani di Watling, il quale prese ancora una boccata di fumo, apparentemente senza subirne alcun effetto negativo. Poi la posò di fronte a sé.
"Questa sera noi quattro abbiamo fumato insieme. Fra noi non ci possono essere menzogne," dichiarò, come un dato di fatto. Gli altri cadetti si domandarono se fosse una specie di formula rituale o qualcosa di simile, ma la loro domanda rimase senza risposta, perché in quel momento il giovane indiano prese ad intonare un canto nella sua lingua madre. Un canto lungo e complesso, tramandato di generazione in generazione nella sua tribù fin dalla notte dei tempi, in cui le parole risuonavano e riecheggiavano le une dentro le altre in un'infinita sequenza di richiami, fondendosi le une dentro le altre fino a perdere a poco a poco il loro significato individuale per diventare infine semplice suono, toccando dentro di loro qualcosa di antico e potente, qualcosa che precedeva l'avvento della parola, quando ancora l'uomo e la natura erano una cosa sola.
Il canto durò a lungo, sempre uguale e nello stesso tempo sempre diverso, in una ripetizione ossessiva di strofe che non faceva altro che moltiplicarne la malia. Lentamente, impercettibilmente, Vaarik ebbe l'impressione che tutto ciò che c'era attorno a loro iniziasse a mutare, come se un vento invisibile rendesse i contorni più nitidi e i colori più intensi. Anche le stelle sembravano più luminose, così come le faville del fuoco da campo che bruciava al centro del tepee. Una parte di lui, quella abituata a fare domande, si chiese se quello fosse semplicemente un trucco della sala ologrammi, oppure qualcosa di completamente diverso, ma in quel momento la risposta non sembrava avere particolare importanza.
Lo sguardo del vulcaniano venne catalizzato da quelle fiamme oscillanti, che sembravano danzare di fronte ai suoi occhi agitandosi al ritmo dell'antica melodia. Vaarik ammiccò, mentre le membrane che proteggevano i suoi occhi dalle luminosità troppo intense o cangianti si mettevano automaticamente in funzione.
Per un momento che sembrò infinitamente lungo il vulcaniano fissò come ipnotizzato la luce del fuoco, e più lo osservava più gli sembrava che le fiamme diventassero reali, mentre il resto del mondo attorno a lui diventava effimero e traslucido. Prima che potesse rendersene conto quelle fiamme danzanti riempivano ormai completamente i suoi occhi, attirandolo verso di loro come in un infinito pozzo di gravità, finché d'un tratto un suono improvviso non attirò la sua attenzione. Sembrava un gracchiare sinistro, come quello di un uccello, anche se la cosa non sembrava avere senso.
Riscuotendosi, il vulcaniano volse lo sguardo intorno, e per sua grande sorpresa scoprì di non si trovarsi più nella tenda di pelle conciata insieme ai suoi compagni di corso: ora si trovava solo, al centro di un altopiano roccioso, la cui superficie spoglia si estendeva a perdita d'occhio in tutte le direzioni. Sollevando gli occhi verso il cielo, il vulcaniano si ritrovò immerso in una calda luminosità rossastra, mentre alto sopra l'orizzonte splendeva un sole giallo-arancio dalla luminosità abbacinante, dalle dimensioni apparenti molto più grandi di quelle del sole della Terra, accompagnato da due punti di luce, uno rosso e uno bianco, che splendevano nel cielo diurno come spettrali apparizioni.
Una singola parola salì alle labbra di Vaarik, che la pronunciò quasi con timore reverenziale. "Vulcano..."
Il vulcaniano si guardò intorno con aria spaesata, cercando una spiegazione per quell'improvviso cambio di scenografia, senza però trovarne nessuna. Anche i suoi compagni erano scomparsi senza lasciare traccia, lasciandolo completamente solo.
Verso l'orizzonte il terreno accidentato era distorto in una strana prospettiva, come se fosse ripreso attraverso una specie di grandangolo, un'impressione che contribuiva a rendere la scena ancora più estraniante. Con angoscia crescente, Vaarik si rese conto che quello scenario non rappresentava il Vulcano che aveva imparato a conoscere da qualche anno a quella parte, sicuramente desertico ma curato come un giardino roccioso dalla meticolosità dei suoi abitanti: alte colonne di fumo si levavano da oltre l'orizzonte, come se fornaci spaventose stessero consumando le riserve stesse del pianeta, e il cielo era segnato da basse nuvole dense e violacee, che lo deturpavano come cicatrici su un volto immacolato. Quello era il /suo/ Vulcano, quello dell'universo dello specchio, violentato nell'aspetto e nello spirito da più di mezzo secolo di sfruttamento e dominazione straniera.
Ma come?... iniziò a domandarsi il vulcaniano, ma prima che potesse dare anche solo una forma alle sue domande il suono gracchiante che poco prima aveva attirato la sua attenzione si ripeté ancora, più forte questa volta.
Vaarik si voltò per individuarne la fonte, trovandosi di fronte la sagoma pietrificata di un arbusto che un tempo doveva essere stato forte e sano, ma che ora sembrava solo uno scheletro grigio e contorto, come se un cancro avesse consumato la sua linfa vitale dall'interno. Il tempo e le intemperie avevano spezzato i suoi rami già rosi dal male, lasciandolo monco e orribilmente sfigurato. Ma, ancora più inquietante per il vulcaniano, era l'assoluta certezza che fino a qualche secondo fa quell'albero gobbo e contorto non fosse là.
Come se quello non bastasse, appollaiato su uno dei rami più bassi dell'albero, sedeva un grosso uccello dalle piume color della notte, che lo fissava con i suoi piccoli occhi neri e rotondi, lucidi come piccole pietre polite.
Vaarik sentì l'intensità di quello sguardo come finora non aveva sentito nulla nella sua vita, come se la creatura lo stesse fissando direttamente all'interno della sua anima. Trattenendo il fiato, il vulcaniano osservò il grosso volatile spiegare le ali come le ampie falde di un mantello, schiudendo il becco crudele mentre lanciava ancora una volta quel grido spettrale. In quel momento, il vulcaniano riconobbe in quell'apparizione la figura del ga'hral, il 'corvo' degli sconfinati altipiani di Vulcano, una creatura che abitava profondamente la mitologia vulcaniana che precedeva i tempi della Riforma di Surak.
Fin dalla notte dei tempi, il ga'hral, 'l'ombra del sole', era una figura dalla duplice natura, simbolo allo stesso tempo di grandi imprese e di grandi sventure. Araldo della morte e divoratore di cadaveri, l'uccello dal manto nero come la notte era noto nei tempi antichi per accompagnare i grandi eroi sui campi di battaglia, sicuro che avrebbe avuto facile preda nutrendosi dei cadaveri dei nemici caduti di fronte alla loro mano. Allo stesso modo, il ga'hral accompagnava i katra dei defunti nel loro viaggio verso le terre dell'ombra, ed era stato profetizzato che un giorno le avrebbe riportate nel mondo affinché si unissero ai vivi nella battaglia finale.
Quando era molto piccolo, Vaarik aveva sentito queste leggende dalla voce roca ma sicura di nonno Jenak, l'anziano vulcaniano che si occupava dei figli degli operai nell'altoforno dove era nato, prima che fosse trasferito all'Istituto per imparare come servire al meglio delle sue possibilità i suoi padroni klingon e cardassiani. Nelle lunghe sere vulcaniane, il vecchio li faceva sedere attorno a lui, come un piccolo pubblico dagli occhi sgranati, e aggrappandosi al suo bastone ricurvo raccontava loro le storie e le leggende del loro popolo, ricordandosi sempre di tenere bassa la voce, perché conservare le memorie del loro passato era per gli schiavi un reato punibile con la morte. Vagamente consapevole di tutto quello, il vulcaniano riusciva però solo a domandarsi cosa volesse da lui quell'apparizione, che ora lo scrutava con la testa inclinata da un lato, quasi con curiosità.
[non guardare]
"Cosa...?!?" annaspò Vaarik, mentre quelle parole senza suono echeggiavano ancora nella sua testa come l'ululato del vento tra le creste rocciose.
[non guardare, ragazzo]
[non guardare]
Ma ormai lo sguardo del vulcaniano era perso nelle profondità oscure degli occhi del ga'hral, e d'un tratto sentì la sua testa invasa da un vortice di ricordi e di pensieri, mentre davanti ai suoi occhi scorrevano con furia animalesca le immagini della sua vita, di tutti i suoi ricordi dell'universo dello specchio.
Dai primi ricordi della sua infanzia su Vulcano, con il freddo, la fame e la solitudine come unici compagni; gli anni all'Istituto di Preparazione, dove aveva imparato a sue spese cosa fossero le umiliazioni, il dolore, la fatica; l'incontro con T'Eia, e il flebile raggio di luce che la loro unione aveva portato nella sua vita, una luce che era la sua unica ancora di salvezza nel mare di tenebra che li circondava; i lunghi anni al servizio dell'Alleanza, trattato come uno strumento utile ma rimpiazzabile, privato di ogni dignità, schernito dai suoi padroni e additato dai suoi connazionali come servo dei conquistatori; la speranza e il timore nello scoprire che c'era una possibilità di fuga, lontano da quell'incubo che era stata la loro vita fino a quel momento; il furto della nave trans-dimensionale e la morte di T'Eia, con tutto il dolore, la rabbia e la disperazione che avevano rischiato di inghiottirlo per sempre; infine il senso di perdita nell'apprendere del figlio che la sua sposa portava in grembo, meno distruttivo di quello provato per la morte della sua compagna, ma in qualche modo più triste, più straziante, più definitivo, come se oltre al suo passato gli avessero strappato anche il suo futuro.
Afferrandosi la testa per il dolore, Vaarik cadde in ginocchio di fronte al ga'hral come davanti ad un altare oscuro, serrando gli occhi convulsamente, credendo di essere definitivamente impazzito, ansimando ma senza riuscire a respirare.
[idiota]
[non ascolti mai]
"Che cosa vuoi?" trovò la forza di gridare, anche se difficilmente dai suoi polmoni sarebbe riuscito a trarre più di un rantolo gutturale. "CHE COSA VUOI?"
Con un supremo sforzo di volontà il vulcaniano riuscì a sollevare la testa di fronte a sé, e quando i suoi occhi incandescenti come braci incontrarono quelli piccoli e freddi della creatura che lo osservava posata severamente sul ramo, Vaarik ebbe inaspettatamente risposta alla sua domanda.
Vaarik si alzò in piedi, lentamente, sforzandosi di ignorare l'estrema debolezza delle sue gambe. La testa gli girava ancora debolmente, ma il vulcaniano strinse i denti e alzò lo sguardo di fronte a sé. Il ga'hral era scomparso, così come l'albero pietrificato sul quale era posato. Vaarik si sentiva vuoto, spossato, come se quell'esperienza l'avesse prosciugato di tutte le sue energie. Ma allo stesso tempo si sentiva più forte, più forte e più sicuro di quanto non fosse mai stato. Dentro di sé poteva sentire l'eco spettrale delle ultime parole pronunciate da quella voce senza suono che si allontanavano nel vento come un battito d'ali:
[ognuno ha il suo posto, ragazzo]
[nulla può fermare un uomo che conosce il suo destino]
Il vulcaniano rimase immobile per qualche momento, come in attesa, mentre un'ombra passava fugacemente sopra la sua testa, come se un'immensa figura dal profilo crestato fosse sfrecciata sopra di lui per poi allontanarsi altrettanto rapidamente. Nello stesso momento, giunse alle sue orecchie un ululato distante, come di un animale che avvertisse i maschi rivali di tenersi alla larga dal suo territorio di caccia.
Infine, Vaarik avvertì un ronzio elettrico alle sue spalle, come l'agitarsi frenetico di miliardi di elettroni impazziti. Si voltò con deliberata lentezza, come se già sapesse su cosa si sarebbe posato il suo sguardo.
Di fronte a lui, una figura umana lo guardava con gravità, quasi con tristezza. A discapito dell'apparenza ingannevolmente normale del suo aspetto, Vaarik poteva vedere il suo corpo interamente composto di stringhe di codice, infinite sequenze di lettere e numeri che brillavano, scorrevano, si riunivano e si separavano come serpenti di stelle, impegnati in un'ipnotica danza di elaborazione e ristrutturazione.
Le infinite sequenza di linguaggio macchina si estendevano e si ramificavano, invadendo e penetrando l'intero paesaggio che li circondava, dietro il quale era possibile distinguere con disarmante chiarezza le griglie luminose degli emettitori olografici.
L'uomo, perché di un uomo si trattava, sollevò le mani, aprendole e chiudendole come per assicurarsi che funzionassero, guardandole come se appartenessero ad un altro luogo e ad un altro tempo.
"Mi chiedo se questo è tutto quello che sono," disse la figura, parlando con la voce Watling, mentre alcune stringhe di codice brillavano e si affievolivano in sequenza. "Eppure io sono. Io sono qui, io sono stato, io sono ancora." Poi sollevò lo sguardo verso Vaarik, e il vulcaniano poté vedere la forza e la determinazione dipinte sulla sua faccia come colori di guerra per una battaglia che non poteva vincere.
"Guarda. Questa è la mia forma," disse, mentre alcune sequenze di codice si illuminavano e si allargavano, per poi contrarsi nuovamente nella forma stilizzata che definiva la sua esistenza. "E questa è la mia sostanza," aggiunse allungando verso di lui una mano composta di lucenti stringhe di numeri, fino a poggiare il palmo solido e calloso sul torace del vulcaniano, come per un'antica benedizione.
"E questa..." fece una pausa, guardandolo negli occhi un'ultima volta. "Questa ora è la mia vita."
Il vulcaniano si svegliò di soprassalto, scoprendo di trovarsi nella tenda innalzata al centro della radura. Avvertendo un sapore terribile in bocca e la testa che gli girava vorticosamente, Vaarik cercò refrigerio all'esterno della tenda, immergendosi nella fresca brezza della foresta. Qualche minuto dopo, una volta svuotata la sua mente e il suo stomaco dalla nausea che vi regnava, venne raggiunto dai suoi compagni.
"Dunque?" domandò Dalton, scrutando il cielo notturno alla ricerca di risposte che non potevano trovare.
"Dunque... non so bene cosa sia successo dentro quella tenda," spiegò Renko, anche lui turbato dall'esperienza, "ma di certo questo rende le cose molto più complicate di quanto non fossero già."
"Oppure le rende terribilmente semplici," sospirò Dalton, facendo cenno a Watling che si avvicinava.
"Cosa state confabulando, voi tre?" domandò il pellerossa appena si fu avvicinato. "Avete visto qualcosa che dovrei sapere?"
Un significativo silenzio accolse la domanda. I tre cadetti sembrarono a disagio, cosa che non fece altro che aumentare i sospetti di Watling.
"È la mia vita che è in ballo," ricordò loro il giovane guerriero, guardandoli con severità. "Ho il diritto di sapere cosa avete visto."
I tre cadetti si scambiarono delle occhiate, come per cercare un tacito accordo. Il loro dovere era semplice: dovevano dire a Watling la verità. Il problema era trovare un modo per dirgliela.
"Ascolta, Watling," prese la parola Renko, da sempre il più diplomatico dei tre. "Riportarti in Accademia potrebbe essere più complicato di quello che pensavamo. A dire il vero, potrebbe essere... come dire..." Il delta gammano fece un vago gesto con le mani, come per esprimere la sua frustrazione.
"Potrebbe essere impossibile," concluse al suo posto Vaarik, implacabile come al solito. Il suo sguardo non tradiva nessuna emozione, ma il suo tono era quello di un uomo che ha appena emesso una sentenza di morte.
"Mi sembrava di essere già stato chiaro su questo," ribatté il pellerossa, seccato. "Io voglio tornare al mio mondo. Non voglio restare rinchiuso per sempre in questa prigione olografica."
"So cosa significhi essere fuori posto," disse Dalton, guardandolo negli occhi. "Credimi. E credimi anche quando ti dico che il tuo posto è qui."
"Ma non è possibile!" insistette Watling, cercando disperatamente un modo per convincerli. "Io non sono un personaggio olografico! Ho dei ricordi, dei pensieri, delle emozioni. Io sono vivo, capite? Vivo!"
Renko, Dalton e Vaarik non risposero, ma nel loro sguardo Watling vide la sua sconfitta. Il pellerossa voltò quindi loro le spalle e sparì dietro la tenda, fumante di rabbia.
I tre rimasero soli, sentendosi terribilmente a disagio per quello che era successo al giovane, anche se sapevano che non sarebbe potuta andare diversamente. Dalton, abituato a prendere i problemi di petto, fece per seguirlo, ma Vaarik lo trattenne per un braccio.
"No, Luke," disse, scuotendo gravemente il capo. "Non è ancora pronto per accettare il suo destino. Queste cose hanno bisogno di tempo."
Dalton lo osservò per un lungo momento, poi decise di dare ascolto al vulcaniano. Era seccante doverlo ammettere, ma alcune volte perfino lui aveva ragione.
Una figura solitaria sedeva a gambe incrociate di fronte ad un piccolo tepee, immersa nella notte se non fosse per il triangolo di luce proveniente dall'apertura della tenda. I suoi occhi erano chiusi, non per il sonno ma per meglio ascoltare la voce che da sempre gli parlava dal profondo del suo spirito. Solo che questa volta la voce gli diceva cose che avrebbe preferito non ascoltare.
Nonno.
Perché questa volta non sei qui ad aiutarmi?
Tre sagome si avvicinarono discretamente, timorose di turbare la sua concentrazione ma ben sapendo che dovevano farlo. La figura le ignorò fino a quando non si furono sedute vicino a lui, poi aprì gli occhi e posò severamente il suo sguardo su di loro.
"Come stai?" domandò Renko, sentendosi un po' stupido a fare quella domanda, ma non sapendo in che altro modo avrebbe potuto dare avvio a quella conversazione.
Il giovane pellerossa non rispose, ma i suoi lineamenti si ammorbidirono leggermente. "Immagino di stare come qualunque persona che scopra improvvisamente di non esistere."
"Il fatto che la tua natura sia quella di un programma olografico non implica che tu non esista," precisò Vaarik con puntualità scientifica. "Semplicemente appartieni ad una tipo diverso di realtà."
"Ben detto: come io e il mio compare vulcaniano possiamo assicurarti, quello là fuori è solo uno dei mondi possibili," commentò Dalton con un sorriso sghembo. "E nemmeno uno dei migliori, se ascolti la mia opinione."
"Questo è corretto," confermò Vaarik seriamente, interrotto però da una leggera gomitata del delta gammano.
"Ehi, è del mio universo che state parlando!" si lamentò Renko, guardandoli entrambi con aria torva.
"Mi riferivo al fatto che quella là fuori non è l'unica realtà possibile," rispose il vulcaniano, folgorandolo con lo sguardo. Renko tossicchiò imbarazzato e lasciò cadere l'argomento.
"Eppure io mi ricordo così tante cose..." continuò Watling guardando lontano, oltre quelle stelle sopra la loro testa che non erano altro che piccole luci. "Mi ricordo il Wilde Village e il Kilowattore. Mi ricordo i volti dei miei compagni di studi, e quelli degli istruttori. Cobledick, il capitano Maxwell, Vinsar, il Rettore... tutte le persone che ho conosciuto, e a cui ho voluto bene. Sono ricordi miei, no?"
"Sono i ricordi di Watling, grazie ai quali tu sei stato generato," spiegò Vaarik, ancorato alla realtà. "Purtroppo molte informazioni devono essere andare perse durante il backup del sistema, e il programma le compensa con ciò che ha a disposizione pescando dalle sue banche dati sugli indiani d'America. Questa è la ragione per cui non riesci ad associare la parola arco se non alla tua arma, e per cui ti ricordi di eventi occorsi a sala ologrammi spenta."
"Ma se non sono quello che pensavo di essere, che cosa sono?" domandò Watling, guardandosi le mani, come aveva fatto nella visione di Vaarik.
"Sei un costrutto," rispose il vulcaniano, serafico. "Anche se il termine è improprio. Sei un programma olografico generato dal computer elaborando i ricordi di Watling in un algoritmo di personalità coerente con i parametri del programma. In effetti, posso ipotizzare che tu sia una delle copie di backup che si sono create."
Il giovane guerriero sollevò lo sguardo verso gli altri tre cadetti, con gli occhi sgranati. "Ma se avete ragione... cosa è successo a Watling?"
Questa volta fu il turno di Dalton di parlare. "Probabilmente il suo corpo originale si è dissolto quando è avvenuta l'avaria della sala ologrammi, trasformandosi in materia olografica. In quel momento Watling ha cessato di esistere così come lo conoscevano, ed è stato creato... be', sei stato creato tu. O meglio, la prima versione del programma olografico Watling di cui tu rappresenti una copia di backup, come ha propriamente spiegato il cervellone vulcaniano qui presente."
"Quindi sono morto," concluse il pellerossa con voce piatta.
Un minuto di silenzio accolse doverosamente quella paradossale, per quanto tragicamente corretta, affermazione.
"Dunque ora questo è il mio mondo," disse Watling tristemente, o meglio il programma olografico creato a sua immagine e somiglianza. "Tutto quello che mi circonda è una finzione. E lo sono anch'io."
"Ascolta," intervenne Renko, rimasto silenzioso da un po' di tempo. "Io non so se tu sia senziente, o se tu sia semplicemente programmato per pensarlo. Sicuramente sei qualcosa di più di un semplice programma olografico."
"Soltanto grazie ai ricordi di Watling inscritti nel mio algoritmo di personalità. Gli stessi ricordi che mi dicono che vivo dentro ad un'illusione. Come posso accettare una vita fittizia, in un mondo popolato da personaggi fittizi, quando so che c'è un intero universo là fuori? Ma allo stesso tempo, che senso avrebbe cercare una via d'uscita verso un mondo che non sarà mai il mio?" Watling li guardò negli occhi uno per uno, come per trovare dentro di loro la sua risposta. "Qual è il mio posto?"
Ma né Vaarik, con la sua logica e il suo cinismo, né Renko, con il suo entusiasmo e la sua saggezza, né Dalton, con il suo carattere e la sua ironia, riuscirono a immaginare la risposta a quella fondamentale domanda.
Dopo qualche momento di silenzio, Watling alzò lo sguardo ancora una volta verso le stelle, con un sorriso tranquillo dipinto sulle labbra.
"Ho deciso. So cosa devo fare."
In quel momento, la sala ologrammi si spense. Tutti i rumori della foresta che li avevano circondati fino a quel momento sparirono improvvisamente, mentre il paesaggio attorno a loro, la foresta, la radura, la tenda, l'erba, perfino le stelle si spensero come dopo un colpo di spugna. E Watling, che fino ad un momento prima era di fronte a loro, pronto a prendere la decisione che avrebbe condizionato il resto della sua per quanto atipica esistenza, era svanito davanti ai loro occhi come se non fosse mai esistito.
"State bene?" Le voci dei tecnici che attraversavano le pesanti porte sembrarono bestemmie, infrangendo quell'atmosfera di silenzio irreale che era scesa improvvisamente nella sala ologrammi.
"Non posso credere che non ci abbiano creduto." Renko era abbattuto su una delle poltrone dell'alloggio dei suoi due compagni, lo sguardo fisso verso il soffitto.
"Come biasimarli?" commentò Vaarik, sollevando le spalle con aria scettica. "Senza alcun dato che possa suffragare il nostro racconto, l'ipotesi più logica è che ci siamo inventati tutto."
"Non mi interessa quale sia l'ipotesi più logica," ribatté l'ibrido, seccato. "Io so quello che ho visto. Watling era lì di fronte a noi. Quello che è successo era reale, non una specie di allucinazione collettiva."
Dalton agitò il suo bicchiere di bourbon non replicato, facendo tintinnare i piccoli cubetti di ghiaccio contro il bordo del bicchiere. "Abbiamo passato le ultime ore a cercare di convincere un uomo di essere un personaggio olografico e ora cerchiamo di convincere il resto del mondo che quello che è successo era reale. Io questa la chiamo ironia della sorte."
"C'è però una cosa che mi frulla in testa," disse il delta gammano, sollevandosi dallo schienale della poltrona e appoggiando il mento sulle mani. "I tecnici hanno detto che non siamo i primi cadetti ad affermare di avere visto l'ologramma di Watling e di aver interagito con lui. Eppure quando noi l'abbiamo incontrato, non sembrava ricordare nulla dei suoi precedenti incontri con altri cadetti."
"Probabilmente la memoria del programma viene resettata ad ogni avvio del sistema," ipotizzò Vaarik. "Tutti i dati riguardanti i cicli di calcolo precedenti vengono cancellati e il programma riparte dall'inizio, dal momento in cui Watling ha salvato il suo programma creando la copia di backup."
"Vuoi dire che tutto quello che abbiamo fatto è stato inutile?" domandò Dalton con aria afflitta. "La prossima volta che qualcuno attiverà involontariamente il programma, Watling avrà dimenticato quello che è successo e sarà tutto come prima?"
Fu Renko a rispondere alla domanda. "Non necessariamente. Anche nel caso in cui Watling non ricordasse nulla di quello che è avvenuto, rimaniamo comunque noi."
"Cosa intendi dire?"
"Questo incontro ci ha costretto a porci delle domande sul senso della vita, della nostra vita, a chiederci quale sia il nostro posto nel mondo, e se esista un tale posto. Forse anche agli altri cadetti è successa la stessa cosa. Ricordate cosa ci ha raccontato Watling? Prima di entrare in sala ologrammi anche lui si sentiva perso, come se avesse perso il senso della sua vita. Poi l'incontro con il nonno, la sua guida, l'ha aiutato a comprendere quale fosse la sua strada, e come fosse necessario percorrerla fino in fondo. Forse, quelli che hanno bisogno di scoprire il loro posto nel mondo siamo noi, non Watling."
Nulla può fermare un uomo che conosce il suo destino, si ritrovò a pensare Vaarik, riascoltando le parole senza suono pronunciate dal ga'hral nella sua visione.
"Aspetta un momento," intervenne Dalton, poggiando il suo bicchiere di fronte a sé. "Stai dicendo che quello che abbiamo incontrato sia una specie di guida spirituale olografica per cadetti in crisi esistenziale, che compare ogni volta che un cadetto ha bisogno di porsi domande sul senso della vita? È questo che stai dicendo?"
"Io non dico niente," rispose Renko facendo spallucce. "Dico solo che a volte la vita usa mezzi incredibilmente contorti per insegnarti cose incredibilmente semplici."
"Se lo dici tu," replicò l'umano, riprendendo a sorseggiare il suo bourbon.
"C'è una cosa inoltre che non dobbiamo dimenticare," continuò Vaarik, pensieroso. "Watling ha avuto la possibilità di scegliere tra il mondo olografico a cui apparteneva come programma, e il mondo reale da cui proveniva il suo originale. Ha avuto la possibilità di decidere cosa fare della sua vita."
"Però non ha avuto il tempo di portare a termine la sua decisione," commentò Renko, curioso di vedere dove il vulcaniano andava a parare.
"Non importa," rispose Vaarik lanciando un'occhiata fuori dalla finestra come per abbracciare tutto il mondo là fuori. "Ogni uomo che abbia la possibilità di scegliere, è un uomo libero."