EVEN IF I WALK IN THE VALLEY OF SHADOWS

Città di de'Khriv, Vulcano.
Centro di Risoluzione Mentale, Stanza 1097.

Vaarik era coricato sul suo letto, le mani incrociate dietro la testa, aspettando che un accenno di brezza soffiasse via la sensazione di fastidio dalla sua pelle. La casacca del suo pigiama giaceva abbandonata ormai da ore dall'altro lato della stanza, appallottolata come uno straccio, così come la maggior parte delle sue lenzuola verde pallido, sparse per tutta la stanza.

Non era il caldo ad infastidirlo, anzi.

Dopo un esilio durato quasi due anni su un pianeta freddo e umido come la Terra, il caldo abbraccio di Vulcano era quasi una benedizione. Quello che disturbava le notti di Vaarik era qualcosa di molto diverso, e non aveva niente a che fare con il clima.

Pur avendo vergogna di formulare un pensiero tanto illogico, Vaarik non riusciva a liberarsi dalla sensazione che le notti si allungassero a dismisura in quella stanza del Centro, dove il silenzio lo avvolgeva come un sudario e i pensieri si insinuavano nella sua mente silenziosi come serpenti del deserto, ed altrettanto pericolosi. Tante volte il vulcaniano aveva tentato di mettere a tacere le sue inquietudini con la meditazione, ma altrettante volte il suo tentativo era risultato vano, nonostante le condizioni di quella stanza fossero pressoché perfette, compreso quel silenzio che era tanto importante per quelli della sua razza.

Dal momento in cui era stato catapultato in questo universo, Vaarik aveva sempre considerato il silenzio un amico, un fratello, un rifugio sicuro nel quale isolarsi quando il caos del mondo esterno rischiava di abbattere le barriere del suo già minato autocontrollo.

Nei primi tempi che aveva passato in Accademia, il vulcaniano aveva detestato ogni rumore, ogni singolo suono che giungeva alle sue sensibili orecchie durante la notte. Quante volte si era svegliato di soprassalto nel cuore della notte, il cuore in gola e i muscoli tesi per la scarica di adrenalina, mentre la sua mano istintivamente si serrava sotto il guanciale ad afferrare il piccolo d'k tahg che anni di abitudine nell'universo dello specchio gli avevano insegnato a tenere sempre a portata di mano. E quante volte aveva poi sibilato una maledizione agli dei dimenticati, rendendosi conto che quello che aveva sentito non era altro che il passo di qualcuno che rientrava nell'alloggio accanto, o il rumore di una seggiola spostata con meno grazia del solito.

Niente sorveglianti a caccia di una preda da torturare per puro passatempo, niente compagni di schiavitù il cui freddo o la cui fame fossero diventati più forti della coscienza.

Niente, se non le ombre che esistevano soltanto nella sua testa.

Allora, troppo sveglio per tentare di addormentarsi nuovamente, e troppo infastidito dalla sua debolezza per tentare di fare qualcosa di costruttivo, sedeva con gli occhi chiusi, contemplando il silenzio attorno a lui, tentando di raggiungere quella parte di T'Eia che abitava ancora i profondi recessi della sua mente.

A volte, riusciva ancora a sentire il suono della sua voce, che pronunciava dolcemente quelle ultime parole. A volte, riusciva ancora a sentire il tocco della sua mente che lo sfiorava da lontano, suggellando ancora una volta il loro patto: Io Non Ti Lascerò.

Era un'esperienza dolorosa, che spargeva sale sulle sue ferite mai del tutto cicatrizzate e che lo lasciava spossato e sanguinante. Ma il dolore era pur sempre qualcosa, e perfino quello era meglio del nulla che sentiva incombere su di lui da ogni lato e che temeva potesse sommergerlo ad ogni istante, se solo avesse perso di vista il suo unico appiglio.

Ora invece, chiuso in quella stanza come in un sarcofago, il silenzio sembrava diventato suo nemico, intrappolandolo in un labirinto ostile e minaccioso, dove i suoi pensieri lo inseguivano senza sosta, dove il dolore e la solitudine, che aveva tenuto sotto controllo così a lungo, raspavano ai confini della sua consapevolezza come mastini affamati di preda.

Era stato il consigliere Memok a 'suggerirgli' di usufruire delle due settimane di licenza garantite ai cadetti per la fine del secondo anno per intraprendere questo periodo di ritiro al Centro di Risoluzione Mentale, cosa che a suo dire lo avrebbe aiutato a rinforzare le sue barriere psicologiche. Pur non facendo i salti di gioia, all'inizio Vaarik si era crogiolato con il pensiero che se non altro su Vulcano avrebbe goduto di un po' di pace, finalmente lontano da quella fastidiosa masnada che sembrava agglutinarsi attorno a lui ogni volta che si trovava in Accademia.

Ora però che la tanto sospirata pace era finalmente a portata di mano, Vaarik si era sorpreso a smaniare, desideroso di poter fare qualcosa, qualunque cosa, pur di occupare il tempo in maniera diversa dall'ascoltare il rumore del vento fuori dalla sua finestra e dei pensieri dentro la sua testa.

Ma se le notti sembravano non avere mai fine, non è che le sue giornate gli procurassero un grande sollievo. Il vulcaniano era costretto a tenere a bada gli specialisti di psichiatria vulcaniana, sempre indaffarati a sottoporlo ad un nuovo test di valutazione psichica. La loro dedizione al lavoro era ammirevole, ma stavano combattendo una battaglia persa: il loro scopo era di aiutarlo a superare i suoi traumi, quando lui non aveva nessuna intenzione di superarli.

Dopo due settimane così, sospeso nel tempo come una mosca nella tela di un ragno, Vaarik era giunto alla conclusione che non sarebbero riusciti a trattenerlo in quel luogo contro la sua volontà nemmeno se l'avessero legato con delle catene a dei ceppi di granito.

Voglio andarmene di qui, decise definitivamente. Non hanno il diritto di tenermi rinchiuso in questo posto come un prigioniero.

Alzandosi con uno scatto dal suo giaciglio, il vulcaniano si diresse verso il piccolo scrittoio incassato nella parete che, insieme alla sedia, all'armadio e al letto costituiva l'unico arredo di cui era fornita la stanza. Attivò rapidamente il terminale di computer, che tanto spesso aveva utilizzato per leggere gli articoli più recenti della Vulcan Science Academy Astrophysical Journal, e attese che il sistema lo mettesse in contatto con un altro terminale video situato in un'altra ala del Centro, quella riservata al personale esterno.

Quando la comunicazione fu stabilita, Vaarik si ritrovò di fronte la faccia assonnata e perplessa del suo interlocutore.

"Signor Vaarik," disse il consigliere Memok, non riuscendo del tutto a tenere lontana una certa dose di irritazione dalla sua voce. "Immagino sia al corrente che sono..." sbirciò un punto appena fuori dal suo campo visivo, "le quattro punto sedici del mattino, vero?"

"Questo è esatto," rispose Vaarik, senza fare alcuno sforzo per dimostrarsi almeno un po' spiacente di aver svegliato il consigliere nel cuore della notte. "Avevo bisogno di conferire con lei."

"Non capita molto spesso che le mie qualità di consigliere vengano richieste prima di colazione," affermò l'altro vulcaniano, passandosi una mano sul volto e sulla barba brizzolata per rimuovere le ultime vestigia del sonno, "ma... d'accordo. Per lei posso anche fare un'eccezione."

Vaarik non fece commenti sul sarcasmo del consigliere ed invece arrivò subito al punto. "Voglio andarmene da questo posto," disse quindi tutto d'un fiato.

Memok parve confuso. "Ha un posto prenotato su una navetta in partenza domani mattina per la Terra," spiegò al giovane vulcaniano. "Non se lo ricorda?"

"Me lo ricordo benissimo, consigliere," rispose Vaarik freddamente. "Ma non è questo il punto."

"Allora si spieghi meglio, perché io proprio non riesco a capire la differenza," lo esortò Memok aggrottando le sopracciglia inclinate.

"Il punto è che sono io a decidere cosa fare della mia vita," disse ancora Vaarik, lasciando chiaramente intendere che l'enfasi non era casuale. "E nessuno può costringermi a rimanere seppellito in questo posto, sottoposto ai vostri esperimenti psichiatrici come una cavia da laboratorio. Io non sono il suo personale esperimento di psicologia criminale, e lei non ha il diritto di trattarmi in questa maniera. Se domani prenderò quella navetta è solo perché sono io che ho deciso di tornare a San Francisco per terminare i miei studi, non perché lei o chiunque altro vuole sapere se il vulcaniano dell'universo specchio riuscirà a finire l'Accademia senza crollare."

"Sono molto lieto di sentirglielo dire." D'un tratto Memok appariva stranamente compiaciuto, nonostante le parole del giovane vulcaniano fossero tutto fuorché amichevoli. "Questo vuol dire che finalmente inizia a rendersi conto quanto sia illogico ignorare le possibilità che le sono state offerte, invece di approfittarne come le avevo consigliato fin dall'inizio."

"Lei sta travisando le mie parole, consigliere," rispose Vaarik in un soffio, abbassando pericolosamente il tono di voce.

"D'accordo, signor Vaarik, come vuole," concesse Memok, con un'aria sardonica che gli aleggiava tutto intorno agli angoli degli occhi. "Mi permetterò il lusso di essere generoso nella vittoria quanto lei è cortese nella sconfitta."

"Io non sono stato sconfitto," dichiarò il vulcaniano più giovane con gli occhi che ardevano come braci. "E soprattutto non da lei."

"Sono lieto che se ne renda conto," disse Memok pigramente, sollevando un sopracciglio con aria significativa. "Perché negli ultimi tre anni avevo avuto come l'impressione che lei non volesse ammettere quali erano i suoi pensieri al riguardo al solo scopo di non darla vinta al sottoscritto."

Vaarik aprì la bocca per rispondere, richiudendola poi immediatamente, rendendosi conto con estremo disappunto di essere stato messo nell'angolo dalla logica del comandante. "Non intendo disturbarla ulteriormente," disse quindi, chiudendo qualsiasi tentativo del consigliere di portare avanti l'argomento.

"Se avesse ancora bisogno di me sa dove trovarmi," rispose il consigliere riacquistando un tono più distaccato. "In ogni caso mi aspetto di incontrarla allo spazioporto di de'Khriv domani mattina alle ore 9.00, ossia tra..." il consigliere lanciò un'altra occhiata fuori dal campo del terminale video, "quattro ore e trentanove minuti. Le auguro buon riposo, signor Vaarik."

"Potrei augurarle altrettanto, consigliere," lo apostrofò il vulcaniano più giovane. "Ma non lo farò."

Scuotendo la testa con malcelata ironia, Memok chiuse con un gesto il canale di comunicazione.

Vaarik rimase davanti allo schermo nero per quasi cinque minuti, chiedendosi come aveva fatto ad essere così sprovveduto da farsi mettere in scacco da quell'insopportabile consigliere e dalla sua psicologia da quattro soldi, ma domandandosi soprattutto come avesse fatto Memok a trovare in commercio quel disgustoso pigiama verde muffa con i le'matya disegnati sopra.

* * *

Dall'altra parte della linea di comunicazione, anche il consigliere Memok rimase a fissare pensierosamente lo schermo nero del suo terminale, solo che quest'ultimo rimase a riflettere per un tempo molto più lungo.

Anche i viaggi più lunghi iniziano con dei piccoli passi, pensò il consigliere non senza ironia, ripensando a tutti i dubbi e le preoccupazioni che nutriva riguardo ciò che si stava muovendo nell'ombra alle spalle dell'ignaro vulcaniano.

Da un punto di vista strettamente professionale, il consigliere aveva riportato una grande vittoria, riuscendo a far sì che Vaarik si risvegliasse almeno per un momento dalla sua indifferenza esistenziale, affermando il suo diritto a decidere da solo cosa fare della sua vita. D'altro canto, però, questa dichiarazione di autonomia poteva risultare molto pericolosa, soprattutto nel caso fosse arrivata alle orecchie sbagliate. Più volte la Commissione lo aveva ripreso, rinfacciandogli di mettere il benessere del soggetto davanti alla riuscita del loro piano, e se si fosse sparsa la voce che stava tentando di instillare nel soggetto idee ribelli avrebbero potuto estrometterlo dal progetto, con conseguenza decisamente spiacevoli sia per Vaarik che per lui.

Era una partita molto difficile quella che stava giocando il consigliere, eternamente in bilico tra le pressioni della Commissione, le preoccupazioni per il suo giovane 'protetto' e i suoi doveri come vulcaniano e ufficiale della Flotta Stellare. Il suo lavoro consisteva soprattutto nel preparare Vaarik ad affrontare le responsabilità che sarebbe stato chiamato a sopportare, facendo sì che al momento opportuno non avrebbe potuto fare altro che accettare il gravoso compito al quale era stato destinato. Tuttavia, il consigliere era anche consapevole di essere l'unica persona all'interno del progetto ad interessarsi realmente al benessere del giovane vulcaniano: la sua unica, flebile speranza di non trasformarsi completamente in una misera pedina in balia di giochi molto più grandi e complessi di lui.

Memok quasi sorrise ripensando all'aperta ostilità che Vaarik mostrava nei suoi confronti, come se il maturo vulcaniano fosse la fonte di tutti i suoi problemi. Se solo quel ragazzo avesse saputo quante volte il sarcastico consigliere aveva messo in gioco la sua carriera (e forse la sua vita) per proteggerlo, cercando di far valere i suoi diritti di fronte alle scelte puramente utilitaristiche della Commissione, forse la sua opinione sarebbe cambiata. O forse no, pensò il vulcaniano, meditando sulla cocciutaggine del suo cosiddetto 'pupillo'.

Per dirlo con un'espressione terrestre, il consigliere Memok aveva stretto un patto con il diavolo, e ora doveva stare molto attento alle clausole scritte in piccolo.

Scacciando questi pensieri negativi con un gesto della mano, il consigliere si alzò dalla scrivania, percorrendo con lo sguardo la piccola stanza che il Centro aveva messo a sua disposizione nell'ala riservata al personale esterno. Per un attimo lanciò un'occhiata verso il letto ormai disfatto, avvertendo una fortissima fitta di nostalgia al pensiero di Wak Inyan, in quel momento lontana anni luce a bordo della Nemesis, impegnata in missione dall'altra parte del quadrante.

Ma non era quello il momento per abbandonarsi ai sentimentalismi: quando tutta quella storia sarebbe finita, allora avrebbe potuto pensare di nuovo a se stesso. Per il momento, il suo unico dovere era di stare vicino al giovane vulcaniano, tenerlo sotto controllo e assicurarsi che tutto andasse secondo i piani.

Per il suo futuro, per quello di Vaarik, e per quello di un intero universo.

Città di de'Khriv, Quartiere degli Artigiani.
Ore 6.20 del mattino...

La temperatura era insolitamente fresca per la primavera vulcaniana. Il sole non era ancora sorto, ma già una tenue luminosità rischiarava il cielo ad oriente. L'aria era fresca e frizzante, carica dei profumi della notte appena trascorsa che si mescolavano a quelli del giorno che stava per nascere.

I vulcaniani in genere erano molto mattinieri, in modo da potersi trovare al posto di lavoro prima che la calura del giorno si facesse troppo opprimente, ma a quell'ora anche nella città di de'Khriv erano davvero poche le persone per strada, e anche quei pochi procedevano in silenzio, persi nelle loro occupazioni mattutine.

Consapevole che per quella notte non sarebbe riuscito a dormire, Vaarik aveva lasciato la sua stanza poco dopo la sua conversazione con il consigliere Memok, preferendo passare il resto della notte in giro per le strade piuttosto che trascorrere un altro minuto in quella stanza. Per sua fortuna il Centro non era una prigione, e i degenti potevano entrare ed uscire a loro piacimento, fintanto che si facevano trovare puntuali per le cure a cui venivano sottoposti.

Vaarik aveva passeggiato un po' per le strade illuminate artificialmente, osservando il silenzioso passaggio delle sporadiche hovercar che viaggiavano a livello del suolo, ascoltando i suoni della notte, inquieto e nervoso, fermandosi infine in un ristorante per consumare rapidamente una colazione un po' anticipata ma comunque cucinata in maniera più che soddisfacente. Ora però il sole si preparava a sorgere, e il giovane vulcaniano iniziava ad intravedere oltre i tetti dei palazzi, comunque non troppo alti, la sagoma scura di Khallikesh, il promontorio che si ergeva appena fuori città.

E mentre il cielo pian piano si schiariva, Vaarik sentì che anche i suoi dubbi e le sue debolezze scivolavano via piano piano, come gocce di pioggia su una tela cerata. Immerso nella tenebre non era riuscito a rendersene conto, ma una volta che queste si erano diradate la soluzione alla sua inquietudine appariva di fronte a lui in tutta la sua dolorosa chiarezza.

Anche se camminassi nella valle delle ombre della morte, io non temerò alcun male, pensò, ricordando un'antica preghiera terrestre che aveva sentito tanto tempo fa. C'era solo una cosa che poteva rimettere ordine nella sua vita, una sola luce che poteva dissipare le sue ombre, una sola persona che poteva dare risposta a tutte le sue domande. Ora sapeva cosa doveva fare.

* * *

Trovare la strada per la Cattedrale non era mai stato un problema. A parte il fatto che era possibile vedere la sommità del promontorio roccioso che ne costituiva il corpo principale praticamente da qualunque punto della città, Vaarik conosceva a memoria ogni singolo passo del tragitto che conduceva verso il maestoso edificio intagliato nella roccia viva.

Doveva aver percorso la maggior parte del tragitto come se avesse inserito il pilota automatico, perché aveva preso coscienza del fatto che era già arrivato solo quando si era trovato di fronte ai ciclopici battenti in pietra della facciata principale.

Le enormi porte della Cattedrale venivano aperte solo poche volte durante l'anno, per commemorare eventi particolarmente significativi o per celebrare importanti ricorrenze. Quel giorno nulla di tutto ciò era in programma, e i battenti erano chiusi e impenetrabili come l'espressione sul volto del vulcaniano.

Come sempre Vaarik entrò da una porta secondaria, sottraendosi agli sguardi delle poche persone che entravano e uscivano dalla costruzione. All'interno della Cattedrale lo accolse la caratteristica luce verdazzurra, e che dava a quel luogo un'atmosfera strana, quasi subacquea; in ogni caso completamente aliena rispetto al paesaggio circostante. Così come nelle strade cittadine, anche all'interno non vi erano che poche persone, per la maggior parte giunte sul posto per una rapida meditazione mattutina prima di affrontare la giornata.

Al contrario dei suoi connazionali, Vaarik non degnò di uno sguardo il grande simbolo dell'IDIC che dominava il cuore della costruzione, costruito in modo da essere illuminato dalla luce che filtrava dalle vetrate in qualsiasi momento del giorno. La scultura sorgeva al centro di una grande vasca piena d'acqua, costruita attorno ad una sorgente naturale che sgorgava direttamente dalla roccia del pavimento. I riflessi cangianti dell'acqua si rincorrevano sulla superficie polita dell'IDIC, dando l'impressione che il simbolo cambiasse forma e dimensioni ad ogni istante, pur rimanendo sempre uguale a se stesso.

Rapidamente e con passo misurato Vaarik si diresse verso il perimetro della sala, fino a trovarsi di fronte ad una delle tantissime nicchie scavate lungo il perimetro interno della Cattedrale. C'erano migliaia di queste nicchie, affacciate lungo le pareti di roccia, come se qualcuno si fosse divertito a rivoltare il Colosseo come un guanto. Ad una prima occhiata queste nicchie sembravano tutte uguali, ma osservandole più attentamente si poteva notare che quelle più in basso, proprio al livello del pavimento, erano leggermente più grandi e più profonde delle altre. Ognuna di queste nicchie conteneva infatti al suo interno una porta, dalla quale si accedeva ad un lungo corridoio in pietra, scavato nelle profondità stesse della roccia di Khallikesh.

Il vulcaniano attivò con il palmo della mano un discreto sensore inserito nella parete, e i battenti in metallo brunito si spalancarono silenziosamente. Per un istante Vaarik chiuse gli occhi, come per ascoltare meglio una voce che soltanto lui poteva udire, poi fece un passo in avanti e scomparve nell'oscurità che gli si parava davanti.

* * *

Poco distante, all'ombra di una degli enormi costoni di roccia che sostenevano la volta ciclopica, una figura avvolta in un mantello da penitente osservò il giovane vulcaniano imboccare un corridoio nascosto, finché pochi istanti dopo i battenti della porta si chiusero silenziosamente alle sue spalle, proteggendo l'uomo e il suo dolore dagli sguardi del mondo.

Adesso che non poteva più essere scorta, la figura avanzò lentamente verso l'ingresso della nicchia, fermandosi di fronte ai battenti chiusi per leggere la targa montata sopra l'arco in pietra della porta. Su questa era incisa una frase, scritta nell'antica lingua usata ormai solo durante le occasioni cerimoniali. Non un nome, o una data, o una linea di discendenza, dal momento che una cosa del genere avrebbe dato origine ad una infinità di complicazioni, ma una sola frase, semplice e tuttavia incomprensibile per chi non sapesse cosa era custodito dietro quella porta.

"Io Non Ti Lascerò."

La figura lesse la frase a bassa voce, lentamente, meditando sul significato ironico e paradossale che essa assumeva nel momento in cui veniva pronunciata dalle sue labbra.

"Io non ti lascerò," ripeté, come per fare sue quelle parole, sentendo che penetravano nel suo cuore riaprendo vecchie ferite che sapeva non si sarebbero mai cicatrizzate del tutto.

La figura rimase a lungo immobile di fronte ai battenti chiusi della porta, il volto coperto dall'ombra del cappuccio e le mani nascoste nelle ampie maniche della veste di foggia vulcaniana, finché un leggero rumore dall'altra parte della porta la ricosse dalle sue meditazioni. Con una velocità e una leggerezza impensabile per qualcuno che fino ad un attimo prima sembrava una statua scolpita nella roccia, la figura si allontanò dalla nicchia, confondendosi nuovamente nelle mille ombre che riempivano gli angoli della Cattedrale.

Dopo pochi istanti la porta si schiuse lentamente, lasciando emergere la sagoma di un vulcaniano vestito completamente di nero. Le sue spalle erano salde e il suo passo misurato, ma qualcosa nella sua figura suggeriva che dietro la maschera di rigido autocontrollo, dietro ai movimenti lenti e misurati, viveva un dolore e una nostalgia strazianti, come il canto di corvo in una notte invernale.

Poi un riflesso di luce dissipò le ombre che lo accompagnavano, rivelando un volto pallido e tirato, segnato dal dolore e dalla fatica, un volto che però sembrava scomparire dietro agli occhi neri come la notte, roventi come un fiamma e affilati come una spada. Occhi che ancora popolava i suoi sogni e i suoi ricordi.

La figura si scoprì a trattenere il fiato, come se temesse che un singolo respiro avrebbe potuto rivelare la sua presenza, mentre per quello che sembrò un'eternità i due sguardi quasi si incontrarono. Ma poi il momento passò, e il vulcaniano continuò a camminare rigidamente, apparentemente inconsapevole di tutto ciò che lo circondava.

La figura lo seguì con lo sguardo mentre si incamminava lungo la navata, dirigendosi verso una delle uscite secondarie. Fu solo quando la piccola porta laterale si chiuse alle spalle del giovane vulcaniano che la figura si animò nuovamente, lasciando le ombre rassicuranti, sapendo che nulla sarebbe mai stato come prima.

Spazioporto della città di de'Khriv. Terminal 27.
Due ore dopo...

"Benarrivato, signor Vaarik. Temevo non sarebbe arrivato in tempo."

"Lei mi sottovaluta, consigliere. Ed è un errore che può costare molto caro."

A quelle parole Memok socchiuse gli occhi con aria sorniona. Conosceva troppo bene il suo giovane protetto per non sapere che stava solo tentando di svicolare. Troppe volte aveva visto Vaarik tentare di allontanare le altre persone con qualche frase ad effetto perché questo trucco funzionasse ancora.

Essendo ufficialmente in licenza, il tenente comandante Memok non indossava l'uniforme della Flotta Stellare, ma una specie di soprabito spiegazzato dal colore indefinibile. Come sempre in questi casi, sulla sua testa faceva sfoggio di sé il suo immancabile borsalino di feltro, dandogli quell'aria da detective anni '40 che il consigliere sembrava indossare con tanta nonchalance.

"Ha approfittato di queste ultime ore su Vulcano per sistemare ciò che aveva in sospeso?" domandò Memok, ben sapendo che tra loro due non potevano esserci dubbi su ciò che intendeva.

"Sì," rispose infine Vaarik dopo una lunga pausa. "Ho fatto quello che dovevo fare."

Memok approvò con discrezione, trattenendosi dal fare commenti. C'erano cose su cui perfino lui aveva pudore a fare dell'ironia.

I due vulcaniani rimasero qualche minuto in silenzio, attendendo pazientemente che i grandi tabelloni olografici diffondessero le ultime informazioni sul trasporto delle 09:30 che avrebbe riportato Vaarik sulla Terra, a San Francisco, all'Accademia della Flotta Stellare. Memok aveva insistito per accompagnarlo di persona a prendere il volo, sostenendo che preferiva assicurarsi con i suoi occhi che Vaarik salisse effettivamente sulla nave diretta alla Terra. Il vulcaniano più giovane aveva interpretato il gesto come uno dei soliti comportamenti studiatamente irritanti del consigliere, e come tale si era rifiutato di discutere la cosa per non dargli soddisfazione.

"Ecco il suo volo. Le procedure di imbarco inizieranno tra pochi minuti. Sarà meglio sbrigarsi."

Quando però furono in vista del cancello di imbarco, Memok non poté trattenersi più a lungo in silenzio. "Perdoni la mia curiosità, signor Vaarik, ma ho bisogno di farle una domanda a proposito della nostra conversazione di questa notte."

"Deve proprio?"

"Temo di sì. Però le prometto che sarà rapido e indolore. O quasi."

"D'accordo," sospirò il vulcaniano più giovane. "Facciamola finita."

Memok fece una pausa, come se stesse scegliendo con cura le parole. "C'è una cosa che non riesco a spiegarmi: ci ho riflettuto a lungo, questa notte, ma non sono riuscito a trovare una risposta. Che cosa l'ha spinta a chiamarmi questa notte, per dirmi che voleva andarsene dal Centro? La sua partenza era già stata programmata, e in ogni caso avrebbe lasciato Vulcano questa mattina. Perché ha avuto bisogno di dirmelo?"

Vaarik si incupì leggermente, ma rispose alla domanda. "Perché è quello che voleva sentirsi dire, no? È per questo che mi ha costretto a intraprendere questo ritiro su Vulcano, con la scusa di rinforzare le mie barriere emotive. O mi sbaglio?"

Memok si grattò la barba brizzolata, come se la cosa lo mettesse leggermente a disagio. "Non sbaglia. Forse non è una terapia che Jung o Shadak avrebbero approvato, ma dal mio punto di vista ciò che importa è il risultato. Tuttavia questo non spiega perché abbia avuto bisogno di comunicarmelo. E non mi dica che l'ha fatto per darmi soddisfazione perché non le crederei," lo ammonì severamente.

Memok dovette attendere a lungo per ottenere una risposta, e quando arrivò fu la più strabiliante che avesse mai immaginato.

"Perché avevo bisogno di dirlo a qualcuno," mormorò infine Vaarik, ostinandosi a non guardare in faccia il suo cosiddetto 'tutore'. "E io non avevo nessun altro all'infuori di lei a cui dirlo."

Istintivamente al consigliere salirono alle labbra almeno una quindicina di risposte salaci con le quali avrebbe potuto replicare all'affermazione del giovane vulcaniano, ma non riuscì a pronunciarne neanche una.

"Capisco," disse infine, arrendendosi all'evidenza. "Le auguro buon viaggio, signor Vaarik. Lunga vita e prosperità."

Il vulcaniano più giovane si accomiatò con un cenno del capo, dirigendosi poi verso il cancello di ingresso che l'avrebbe condotto alla navetta in partenza per la Terra. Molti passeggeri gli lanciarono un'occhiata perplessa, non sapendo bene cosa pensare di quel vulcaniano dall'aria truce e lo sguardo corrucciato. Vaarik proseguì per la sua strada, disinteressandosi completamente di quanto gli accadeva intorno, fendendo la folla con la sua solita aura di disastro imminente.

Il consigliere Memok rimase solo nel corridoio del terminal, meditando su quanto era appena successo, senza riuscire a liberarsi della sensazione che qualcosa di assolutamente sconvolgente fosse appena capitato di fronte a lui.

Città di de'Khriv, Quartieri Industriali.
Nello stesso momento...

"Mi avete chiamato, Signore."

Era un'affermazione, non una domanda. In ogni caso il suo interlocutore non sembrò fare caso al suo arrivo, completamente assorbito dal panorama che si poteva godere attraverso la grande finestra a parete e il cui sguardo dominava l'intera città. Quando pochi istanti dopo si fece sentire, la sua voce fu priva di qualunque inflessione.

"Affascinante, vero?"

Di tutte le cose che si aspettava di sentire, quella era di certo l'ultima della lista. "A cosa si riferisce esattamente, Signore?"

"Il cielo," affermò la figura, come un dato di fatto.

"Temo di non capire, Signore."

"Scientificamente parlando, il cielo non esiste. L'atmosfera diventa via via più sottile man mano che ci si allontana dalla superficie, finché la sua densità non diventa pari a quella dello spazio interplanetario. Tutto qui. Niente scodella capovolta, niente sfera celeste. Quello che noi chiamiamo 'cielo' è in realtà un'illusione ottica, un miraggio, nato nel momento in cui il primo essere vivente ha sollevato i suoi occhi verso l'alto, scoprendo in questo modo che il mondo era molto più vasto e molto più sorprendente di quanto avesse mai immaginato." Si concesse una pausa teologica. "In un certo senso, il cielo esiste solo perché ci siamo noi ad osservarlo."

"Non sapevo che si interessasse anche di filosofia, Signore."

"Nessuno arriva alla mia età senza farlo." Pausa. "Ma veniamo agli affari. Non penserai certo che ti abbia fatto chiamare solo per dividere con te le riflessioni di un vecchio."

"Il pensiero non mi aveva nemmeno sfiorato, Signore."

"Lo immaginavo. Innanzitutto, mi preme mettere in chiaro una questione. Immagino tu sappia che le tue azioni di questa mattina sono state molto avventate."

"Sì, Signore."

"E immagino anche tu sappia che le azioni avventate non sono ben viste all'interno del nostro progetto."

"Sì, Signore."

"Bene." Pausa. "Devi sapere che, recentemente, alcuni membri della Commissione hanno manifestato il timore che, data l'importanza del tuo ruolo all'interno del progetto stesso, tu stessi iniziando a maturare la convinzione di essere in qualche modo... al di sopra degli ordini. Naturalmente, ho dissipato personalmente questi dubbi," continuò la voce, "ricordando alla Commissione quale impegno tu avessi finora profuso per il progetto, e quanti sacrifici tu abbia fatto per portare avanti il piano." Pausa. "Spero quindi di non essere costretto un giorno a ritirare quello che ho detto," concluse, lanciando verso il suo interlocutore un'occhiata che sembrò attraversarlo come se fosse fatto d'aria.

"La mia fedeltà al progetto è fuori questione, Signore. Non mi sembra di aver mai dato l'idea di pensarla altrimenti."

"È confortante sentirtelo dire. Perché sai bene che, in caso contrario, potremmo essere costretti a far valere la nostra... polizza di assicurazione."

Una contrazione dei muscoli della mascella fu l'unico indizio di quanto quella affermazione avesse turbato il suo interlocutore.

"Ne sono... profondamente consapevole, Signore."

"Eccellente." Pausa. "Adesso che questo punto è stato chiarito, vorrei porti una domanda." Pausa. "Perché l'hai fatto?"

Il suo interlocutore rimase in silenzio, apparentemente reticente a rispondere a quella domanda. Fissò un punto molto distante, oltre la finestra, oltre la città che si muoveva silenziosa, oltre il cielo rossastro di Vulcano. Un punto molto distante, nel tempo, oltre che nello spazio. "Dovevo vederlo," ammise infine, sapendo che mentire sarebbe stato inutile.

Il silenzio dall'altra parte fu assordante. "Dovevi... vederlo," disse infine la voce, come per essere certa di aver inteso bene.

"Sì, Signore."

"Ti rendi conto quanto questa tua affermazione sia inappropriata, vero?"

"Sì, Signore. Tuttavia..." lottò con le parole, tra ciò che poteva dire e ciò che non voleva dire. "Ho sentito parlare di lui così a lungo... ho visto le registrazioni, naturalmente, prima al Centro e poi all'Accademia ma... non erano sufficienti. Dovevo vederlo di persona, vedere se gli assomigliava solamente o se era davvero... lui."

"E qual è stata la tua risposta?"

"A rigor di logica, non può trattarsi dello stesso individuo. Fisicamente sono identici, certo, ma le loro esperienze passate non potrebbero essere state più diverse. Come due gemelli separati alla nascita, il loro rapporto non dovrebbe andare oltre la rassomiglianza fisica."

"Questo è piuttosto logico. Però non mi hai detto cosa pensi tu."

Questa volta la pausa fu davvero lunga, tanto che il suo interlocutore cominciò a chiedersi se la risposta sarebbe mai arrivata.

"Ora che l'ho guardato in viso... non posso fare a meno di pensare che sia lui."

Pausa. Una lunga pausa carica di preoccupazione. "Questa tua affermazione è molto pericolosa, anche se prevedibile. Spero che questo non comprometta il tuo rendimento come membro del progetto."

"No, Signore. Qualunque cosa sia successa in passato, quel passato è stato reciso da tempo. Adesso altri pensieri occupano la mia mente. Altre... responsabilità."

"Eccellente. Naturalmente, spero tu abbia la saggezza di non ripetere quello che hai detto a me di fronte a nessun altro dei membri della Commissione."

"Siete stato voi a farmi la domanda, Signore. Se la mia risposta non è di vostro gradimento, fate in modo che nessuno mi ripeta la domanda."

Gli angoli della sua bocca si inclinarono impercettibilmente di fronte a quelle parole così impertinenti. In passato pochi avevano avuto l'ardire di parlargli in quella maniera, e ancora meno erano sopravvissuti per raccontarlo. Tuttavia, sapeva per esperienza che un collaboratore troppo impaurito per dare voce alle sue opinioni è un collaboratore che non serve a nulla, ed era una lezione che aveva imparato nel peggiore dei modi. A questo punto, avevano investito troppe risorse e troppe speranze in quel progetto per permettere al suo orgoglio di mettersi sulla strada del successo. Non avrebbe avuto un'altra opportunità.

"Vai ora," ordinò infine. "Vi sono molte cose di cui tu ti debba ancora occupare. I test preliminari sono quasi completati."

"Sì, Signore," disse, voltando rapidamente sui tacchi.

"Solo una cosa," disse ancora la voce, prima che potesse attraversare la porta che si era aperta al suo passaggio. "Ci aspettiamo grandi cose, da voi due."

Un sorriso affiorò negli occhi del suo interlocutore, ma fu un sorriso duro come l'acciaio. Il sorriso che avresti immaginato sul volto di un soldato.

"Le avrete, Signore. Le avrete."

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