LA LAMA DEL PASSATO

San Francisco, Terra.
Quartiere di China Town.

C'era rumore.

C'era fumo e c'era rumore.

Una folla di volti senza nome lo circondava, mentre il ritmo infernale dei tamburi rimbombava sempre più forte all'interno della sua testa. La polvere da sparo riempiva l'aria del suo odore pungente, creando nuvole di fumo che bruciavano gli occhi. Dragoni multicolori agitavano freneticamente le enormi teste zannute, mentre la folla seguiva rapita il convulso snodarsi dei loro lunghi corpi serpentiformi. Acrobati e saltimbanchi facevano vorticare piatti e suppellettili, instabili sfide alla legge di gravità e d'inerzia.

La folla gridava, applaudiva e rideva.

Era la prima volta che Vaarik assisteva al capodanno cinese, ma non ebbe nessuna difficoltà a decidere che definitivamente non gli piaceva.

Era stato quel buontempone di Foster ad attirarlo con l'inganno nel cuore stesso del corteo. Quando l'umano gli aveva dato appuntamento da Chun per quel pomeriggio, non poteva non sapere che il vulcaniano sarebbe stato risucchiato nel maelstrom dei festeggiamenti.

Erano migliaia le persone che erano giunte in città per il capodanno. Alcune erano lì per ritrovare un pezzo della loro cultura che si perdeva nei millenni (cosa che Vaarik poteva anche capire), altre per semplice curiosità turistica (cosa che invece Vaarik non capiva per nulla). Forse un altro vulcaniano si sarebbe fermato ad osservare con interesse scientifico lo svolgersi di quel rituale antico, che aveva attraversato i millenni continuando a compiersi nonostante tutti i cambiamenti subiti dalla società umana. Ma Vaarik decisamente non era un altro vulcaniano, e tutto quello che gli interessava in quel momento era allontanarsi al più presto da quegli infernali tamburi che cominciavano a mettere a dura prova la sua capacità di autocontrollo.

Sfortunatamente, ogni volta che tentava di allontanarsi dai festeggiamenti veniva irrimediabilmente e fatalmente risucchiato in un altro vortice di persone, i quali lo rispedivano direttamente al punto di partenza.

L'unico sollievo in quella situazione infernale era che, grazie all'aura di disastro imminente che come al solito circondava il vulcaniano, la gente evitava di entrare in contatto fisico con lui, consciamente o inconsciamente. Era come se la sua mantella nero profondo, così fuori luogo nell'atmosfera quasi primaverile del primo pomeriggio, possedesse una sorta di gravità negativa, che tendeva ad allontanare i corpi che avessero la ventura di capitare nella zona di influenza del suo campo antigravitazionale.

Fu durante uno dei passaggi più concitati dei figuranti che reggevano i dragoni che Vaarik cominciò a percepire una particolarissima sensazione alla base del collo. Era una sensazione che conosceva, tuttavia impiegò alcuni istanti per rendersi esattamente conto di cosa fosse. Il vulcaniano si guardò intorno con circospezione, ma con tutta quella confusione non riusciva a vedere più in là di pochi metri.

Allora, senza una ragione apparente, il vulcaniano fece retro front e cominciò a spintonare la gente che si trovava davanti a lui, tentando di farsi largo per uscire dalla folla. Qualcuno tentò di rallentarlo pretendendo delle scuse, ma la vista di un vulcaniano dallo sguardo incandescente e una brutta cicatrice sulla faccia dissuase la maggior parte di loro dall'avanzare ulteriori proteste.

A poco a poco la gente cominciò a diradarsi intorno a lui, e Vaarik fu libero di aumentare il passo a suo piacimento. La sua fretta apparentemente immotivata gli attirò più di uno sguardo perplesso, ma Vaarik non se ne curò. A posteriori, avrebbe fatto meglio a curarsene, perché tra quegli sguardi ve n'era uno particolarmente attento e acuto che lo teneva d'occhio da una rispettosa distanza, ma guardandosi bene dall'intervenire in quello che sarebbe successo da lì a poco.

In pochi attimi si infilò in una via laterale, seguito dal suono dei tamburi che andava via via allontanandosi. Il giovane vulcaniano percorse tutta la stradina quasi di corsa e senza mai guardarsi indietro, e infine svanì come un'ombra tra i vapori di un vicolo secondario.

Passarono alcuni interminabili istanti di silenzio, poi Vaarik azzardò a sporgere leggermente la testa nella direzione da cui era venuto.

Nessuno.

Interessante, pensò Vaarik permettendosi di provare per un attimo una sensazione di stupore. Ero assolutamente certo che qualcuno mi stesse seguendo. Poi le sue sopracciglia si corrugarono per la perplessità. Forse, le mie percezioni non sono più così accurate come lo erano un tempo.

Scuotendo la testa con aria pensosa, Vaarik girò sui suoi tacchi, fece per muovere un passo e arrivò ad un soffio dalla morte.

Il vulcaniano non vide mai da che parte arrivò il colpo. Fu unicamente grazie all'istinto che Vaarik riuscì a gettarsi da un lato, facendo sì che la lama diretta verso il suo cuore colpisse invece il suo braccio sinistro. Istantaneamente un lampo di dolore avvampò dal polso fino alla spalla, ma in quel momento Vaarik seppe che, se non altro, avrebbe avuto almeno una seconda chance.

Rotolando sull'altro braccio tentò di voltarsi per vedere il suo assalitore, ma un secondo fendente vibrato con violenza lo costrinse a gettarsi nuovamente a terra, mentre qualcosa di caldo e appiccicoso cominciava a colare lungo la sua manica. Il vulcaniano si ritrovò di colpo con le spalle contro una parete del vicolo, consapevole che se non avesse continuato a muoversi con tutta la rapidità di cui era capace sarebbe stato un vulcaniano morto. Si gettò quindi di nuovo di lato, evitando nuovamente per un soffio di essere trafitto da un altro affondo del suo assalitore. A causa della forza dell'attacco, la lama si conficcò in profondità nella parete, resa cedevole dal tempo e dall'umidità. Questo diede tempo a Vaarik di recuperare una parvenza di equilibrio, e il vulcaniano si rimise in piedi, cercando con l'altra mano di tamponare l'emorragia al braccio mentre si concentrava per controllare il dolore. Nel frattempo, il suo assalitore era riuscito ad estrarre la lama dalla parete e stava ora tergiversando, facendo oscillare la sua lama in lente ed elaborate traiettorie come la testa di un serpente.

Per la prima volta, Vaarik riuscì a vedere chiaramente il suo avversario. Indossava una tunica di stampo vulcaniano con il cappuccio alzato, celando in questo modo i tratti del suo volto. Nonostante questo, Vaarik fu abbastanza sicuro che non fosse un vulcaniano. Non era estremamente alto, ma la fluidità dei suoi movimenti dimostrava chiaramente che quella non era certo la prima volta che maneggiava una lama. Infine, Vaarik vide che il suo assalitore gli puntava contro un kut'luch, un pugnale di fattura klingon.

Il kut'luch era un pugnale da sicario, la cui lama seghettata era disegnata per infliggere il massimo danno alle vittime e ucciderle nel modo più doloroso possibile.

Questo purtroppo la diceva lunga sulle intenzioni del suo assalitore, e Vaarik decise che non era il caso di perdere tempo ponendogli vane domande. Chiaramente quell'uomo era lì per ucciderlo. La sua prima necessità era evitare che riuscisse nel suo intento. Al resto avrebbe pensato in seguito.

I due girarono l'uno attorno all'altro, lentamente, sempre senza scambiarsi una parola, accompagnati dal ritmo frenetico dei tamburi in lontananza. Il sicario accennò un paio di finte, ma Vaarik fu abbastanza abile da non cadere in nessuna di esse. Il sangue continuava comunque a fuoriuscire dalla ferita al braccio, rendendo sempre più difficile per il vulcaniano restare lucido e pronto. Il suo assalitore doveva naturalmente rendersene conto, e in qualche modo Vaarik ebbe la sensazione che provasse un certo piacere nel vederlo in difficoltà. Dopo alcuni secondi che sembrarono eterni, il suo assalitore si lanciò verso di lui con un guizzo fulmineo, sibilando come un serpente infuriato.

Era quello che Vaarik stava aspettando. In un unico, fluido movimento fece scivolare dalle sue spalle la mantella, cercando di non pensare alle fitte roventi che attraversavano il suo braccio ferito. Con uno scatto del busto la lanciò contro il suo avversario, facendola dispiegare come una rete da pesca. Il sicario si ritrovò avviluppato nel tessuto e esitò un istante a portare l'ultimo affondo. Era tutto quello di cui Vaarik aveva bisogno per scartare di lato ed evitare di essere investito dalla carica del suo avversario. Facendo ricorso alle sue ultime forze, il vulcaniano abbrancò poi il sicario e, usando la sua stessa quantità di moto contro di lui, riuscì a scagliarlo contro una parete del vicolo. Questo impattò con malagrazia, grugnendo di dolore mentre si accasciava a terra. Vaarik non fece caso a nulla di tutto questo, perché in quel momento si stava già avventando verso il pugnale che gli era scivolato di mano, cadendo a terra con un tintinnio metallico.

Vaarik non esitò un solo istante e lo puntò con il braccio ancora utilizzabile verso il suo avversario, appena prima che questo si liberasse rimettendosi velocemente in piedi.

Tentando di rimanere fermo sulle gambe, il vulcaniano si mantenne ad una certa distanza dall'assalitore, cercando di capire che intenzioni avesse ora che il vantaggio era passato dalla sua parte. Lo sconosciuto rimase immobile, il volto ancora nascosto nell'ombra del cappuccio.

"Su le mani," intimò Vaarik, facendo un cenno con la lama ancora sporca del suo sangue.

Con deliberata lentezza, l'assalitore sollevò le braccia, fino a che le sue mani non si trovarono all'altezza delle spalle.

"Via il cappuccio," disse ancora il vulcaniano, poi aggiunse, "lentamente."

Le labbra del sicario si atteggiarono ad un ghigno di sfida, poi le sue mani si mossero lentamente rivelando il volto che si nascondeva nell'ombra del cappuccio.

Vaarik si ritrovò di fronte ad un uomo che non aveva mai visto prima. Un bajoriano, per la precisione, dagli occhi infossati e i capelli castani.

"Si puo' sapere chi sei?" domandò il vulcaniano, non riuscendo a trattenere una nota di esasperazione dalla sua voce. "E perche' hai tentato di uccidermi?"

Il silenzio fu l'unica risposta che ottenne.

Il pensiero di togliere quel ghigno impertinente dalla faccia del suo assalitore facendo scivolare la lama del kut'luch sulla parte tenera della sua gola passò velocemente nella mente di Vaarik, ma poi il vulcaniano decise che non avrebbe lasciato quel vicolo senza una risposta.

"Sono abbastanza certo di non avere motivi di attrito personale nei tuoi confronti," disse all'uomo, con l'aria di chi sta ponendo le ipotesi per dimostrare il teorema di Cauchy. O almeno, di chi lo sta facendo con una forte emorragia al braccio sinistro. "La logica suggerisce quindi che tu stia lavorando come prezzolato al servizio di qualcuno che vuole la mia morte. In questo caso, vi è una probabilità molto alta che la tua lealtà nei confronti del tuo datore di lavoro potrebbe essere fiaccata con un appropriata dose di... stimoli da parte mia." Nonostante l'apparente neutralità delle parole, ascoltando il tono del vulcaniano sarebbe stato immediatamente chiaro che si trattava di molto più che una semplice minaccia.

Per un attimo, il ghigno sul volto dell'uomo assunse una sfumatura incredibilmente ironica, come se nel corso della sua vita avesse sopportato talmente tante sofferenze che la minaccia di una in più per lui non avrebbe fatto alcuna differenza. Vaarik fissò intensamente quegli occhi duri come la selce, spietati e freddi come quelli di uno squalo, come...

Come quelli di Vaarik.

Nonostante la quantità di sangue perduta, o forse proprio grazie a quella, Vaarik cominciò a capire esattamente che cosa stava succedendo.

"Parla!" gli disse, facendo un passo verso di lui e lasciando trasparire la sua rabbia in maniera quasi inconcepibile per un vulcaniano. "Parla, ho detto! PARLA!"

Questa volta fu il turno di Vaarik di fare quello che il suo avversario stava aspettando. Con un movimento del polso, il sicario fece scattare un meccanismo inserito nella manica della tunica. Immediatamente, un getto di gas venne rilasciato dalla fibbia della sua cintura, inondando il petto e il viso del vulcaniano di vapori tossici.

Vaarik cominciò a tossire incontrollabilmente, e fu costretto ad indietreggiare brandendo il pugnale alla cieca di fronte a lui. Ma il sicario non aveva intenzione di attaccarlo. Si limitò invece a girarsi sui tacchi e fuggire a gambe levate, lasciando il vulcaniano a sputare i propri polmoni da solo. Vaarik tentò di inseguirlo, ma lo stordimento dovuto alla perdita di sangue e al gas ebbe la meglio su di lui. Cadde sulle mani e sulle ginocchia, continuando a tossire mentre la nube di vapore iniziava a disperdersi in lente spirali intorno a lui.

La sua mano lasciò cadere il pugnale, e Vaarik vide sull'impugnatura dell'arma quello che già sapeva avrebbe trovato. I simboli predatori dei Klingon e dei Cardassiani, fusi insieme in un unico, osceno glifo.

Non per la prima volta, il vulcaniano seppe quello che gli era stato ripetuto per tutta la vita, tutta la vita, fino alla nausea.

Nessuno sfugge all'Alleanza.

Nessuno.

Nessuno.

Accademia della Flotta Stellare.
San Francisco, Terra.

"Ripetimi un'altra volta come ti sei ferito al braccio."

Il vulcaniano ebbe voglia di strappare di mano il medikit a Dalton e di sbatterglielo in faccia, ma non fece nulla di tutto questo. Si limitò invece a sospirare impercettibilmente e ripetere per l'ennesima volta: "Mi stavo esercitando nell'utilizzo delle armi da taglio come consigliato dall'istruttore Sherman e mi è scivolata l'arma di mano."

"E ti sei ferito nella parte posteriore della spalla da solo?!" disse l'umano, lasciando chiaramente intendere quanto questa eventualità lo lasciasse perplesso.

"Esattamente," disse il vulcaniano, senza la minima inflessione di voce.

"Già, come no!" esclamò Dalton, dando un'ultima passata sulla ferita con il rigeneratore dermico.

Mentre il suo compagno di stanza riponeva la cassetta del pronto soccorso nell'armadietto del bagno, Vaarik passò le dita nel punto dove fino a poco prima si trovava una profonda ferita dai margini slabbrati. Niente. Nessuna cicatrice, nessun dolore. Solo una lieve sensazione di intorpidimento, come quando si rimane a lungo nella stessa posizione.

Pero', pensò il vulcaniano, di sicuro quest'universo ha i suoi vantaggi.

"E come mai non sei andato in infermeria a farti curare e ho dovuto ricucire personalmente i brandelli della tua pellaccia verde?" chiese l'umano con la testa infilata nell'armadietto.

"Non avevo interesse che la faccenda diventasse di pubblico dominio."

"E te lo credo!" lo prese in giro l'umano. "Un altro di questi numeri da circo e la tua fama verrà distrutta completamente!"

"Quale fama?" domandò il vulcaniano, testando con circospezione le capacità motorie del suo braccio appena guarito.

"Be', lo sai...", rispose l'umano in maniera evasiva.

"Tu illuminami ugualmente," gli disse Vaarik, guardandolo con freddezza.

"Insomma," disse Dalton sentendosi un po' a disagio con quegli occhi gelidi che sembravano fissarlo direttamente all'interno della testa. "Guardati!"

Il vulcaniano abbassò lo sguardo sui suoi abiti, poi guardò nuovamente Dalton con l'espressione più perplessa che un figlio di Eridanus potesse permettersi.

Dalton emise uno sbuffo esasperato, poi cercò di spiegarsi. "Guarda i tuoi vestiti! Ti sei mai chiesto se nell'universo esistano altri colori oltre il nero?"

"Scientificamente parlando, il nero non è un colore, bensì l'assenza degli stessi."

"Appunto! Perché mai insisti ad indossare esclusivamente un colore che non è nemmeno un colore? E' possibile che ogni volta devi sembrare appena uscito da una sartoria per pompe funebri?"

"Le tue domande sono illogiche. I Vulcaniani sono soliti limitarsi ad un abbigliamento sobrio."

"Stronzate, Vaarik!" gli rispose Dalton, fattosi d'improvviso molto serio. "Ho visto gli altri vulcaniani in giro. Sarò anche nuovo di queste parti, ma non sono mica scemo. Sono riservati, d'accordo, e a volte possono anche essere esasperanti. Ma non sono tutti dei lugubri beccamorti come quello che mi ritrovo come compagno di stanza!"

"Io non sono... un vulcaniano qualunque," disse Vaarik increspando le labbra in una smorfia quasi impercettibile, ma mantenendo il tono della sua voce estremamente controllato.

"Tante grazie, me n'ero accorto anche da solo!" inveì Dalton, incrociando le braccia.

"E allora non vedo lo scopo di questa conversazione," tagliò corto Vaarik, togliendosi la tunica strappata di dosso e mettendosene una pulita, anch'essa disperatamente nera.

"Ecco, bravo, meglio che lasciamo perdere!" gli rispose Dalton, stizzito. "Tanto più che ho un'esercitazione al simulatore di volo tra meno di venti minuti."

"Allora ti auguro buon volo," gli disse il vulcaniano senza nemmeno guardarlo.

Dalton rispose con un grugnito e uscì imbrancando al volo un PADD per gli appunti e il suo portafortuna, una zampa di yiostly senza la quale non metteva nemmeno piede su un velivolo.

Odio le porte automatiche, pensò Dalton stringendo i pugni quando la porta si chiuse alle sue spalle sibilando sommessamente. Non so cosa darei per poterle sbattere quando sono infuriato!

* * *

Solo, nel suo alloggio, Vaarik si affacciò alla finestra, posando gli occhi sul paesaggio sottostante. Il campus dell'Accademia brulicava di attività. Cadetti, istruttori e visitatori percorrevano i vialetti del parco, intrecciando i loro destini con i vorticosi disegni delle foglie portate dal vento. Alle loro spalle, il cielo e il mare si tingevano di rosso e oro con i colori di un antico damasco. Per un istante, perfino il sole sembrò esitare, prima di scivolare oltre l'orizzonte ponendo infine termine a quella giornata sulla costa occidentale del continente americano.

Ma nulla di tutto questo aveva la benché minima importanza per Vaarik, naturalmente.

La sua mente non avrebbe potuto essere più distante. Ad un universo di distanza, per la precisione.

L'Alleanza l'aveva trovato.

Vaarik sapeva che sarebbe potuto succedere, prima o poi. Tuttavia, dopo così tanto tempo, il vulcaniano era quasi giunto alla conclusione che la sua condizione di fuggitivo non avrebbe avuto ripercussioni su quella che era la sua nuova vita.

Sono stato un ingenuo. Il passato esige sempre cio' che gli e' dovuto.

Se la sua Disciplina gli avesse permesso di provare qualcosa a riguardo, Vaarik sarebbe stato semplicemente nauseato da se stesso per aver coltivato quelle illogiche fantasie.

Aveva forse pensato che, una volta fuggito in questo universo, l'Alleanza non avrebbe fatto di tutto per trovarlo, per scovarlo, per punirlo? Eppure sapeva che il suo era il crimine peggiore: aveva sfidato le regole, ed era sopravvissuto per raccontarlo.

E l'Alleanza avrebbe fatto di tutto pur di fargliela pagare.

Infiltrare qualcuno in quest'universo non era una cosa facile. Dall'epoca del primo passaggio del capitano Kirk, in entrambi gli universi erano state prese severe misure di sorveglianza per evitare interferenze da parte delle rispettive controparti. Un trasferimento non segnalato era una cosa più unica che rara.

Tuttavia, tutto era stato predisposto perché la punizione fosse esemplare. Avevano assoldato un sicario bajoriano, in assoluto i migliori sulla piazza, ed erano riusciti a metterlo sulle sue tracce. Probabilmente gli ci erano voluti mesi per rintracciarlo qui a San Francisco, sotto il naso del Quartier Generale della Flotta.

Uno sforzo non da poco, davvero. Per un attimo, Vaarik provò quasi l'impulso di sentirsi lusingato.

Da ultimo, l'arma utilizzata lasciava supporre che avessero bisogno di un cadavere, probabilmente un trofeo da esporre in bella vista. Per un attimo, Vaarik dovette combattere per allontanare l'immagine delle sue orecchie inchiodate al muro della sala tattica sul vascello del Reggente, mentre il suo corpo mutilato pendeva da un pennone di fronte al palazzo dell'Alto Comando come monito a chiunque tentasse di sfidare ancora le leggi dell'Alleanza.

Trasgressione equivale a morte.

Ribellione equivale a morte.

Tradimento equivale a morte.

Questa era la regola, e per farla rispettare l'Alleanza era disposta perfino a scavalcare il muro che divide gli universi. C'era davvero di che sentirsi lusingato.

Tuttavia, il sentirsi lusingato non cambiava la sua posizione. Ora che l'Alleanza l'aveva rintracciato, nulla avrebbe potuto impedire loro di dargli caccia come un animale braccato. Forse oggi non erano riusciti ad eliminarlo, ma quel sicario era ancora in giro, pronto a colpire in qualunque momento.

Al di là di qualsiasi dubbio, Vaarik seppe che quello di oggi era solo l'inizio.

La sola conclusione logica di quella intera linea di pensiero lo colpì in quel momento. C'era un unico modo per guadagnare un po' di tempo: lasciare l'Accademia della Flotta Stellare. Probabilmente oggi stesso. Sicuramente la Flotta poteva approntare un passaggio rapido verso un mondo coloniale, e con un po' di fortuna il sicario avrebbe perso un bel po' di tempo per rintracciare i suoi spostamenti. Questo gli avrebbe dato un piccolo margine di vantaggio. Poi la Flotta Stellare avrebbe provveduto alla sua sistemazione. Vaarik si sorprese a chiedersi quale sarebbe stata. Oggi era un cadetto, domani chissà. Se fosse stato fortunato, avrebbe avuto un lavoro come assistente di laboratorio su qualche planetoide semisconosciuto, altrimenti aveva sentito che nelle fonderie di Deneb IX avevano sempre bisogno di una mano. Dopo un'infanzia passata negli sconfinati altiforni di Vulcano, nell'universo dello specchio, sarebbe stato come ritornare a casa. A parte le tormente di neve, naturalmente.

Vaarik era restio ad ammetterlo, ma l'Accademia cominciava a piacergli. Aveva iniziato a rendersene conto durante quella bizzarra avventura sul Pianeta del Sempre. Non era tanto l'ambiente ad attirarlo, anzi. Considerava la maggior parte dei cadetti un branco di ragazzini viziati, e i docenti nient'altro che pomposi imbecilli che non sapevano nemmeno di cosa parlavano.

Tuttavia, quegli stessi imbecilli gli avevano dato modo di fare quello che sapeva fare meglio senza chiedere nulla in cambio, semplicemente perché pensavano che fosse la cosa migliore per lui. Inoltre, cosa forse più importante, i loro laboratori di ricerca erano sempre puliti e in ordine, al contrario di quei gabinetti arrugginiti messi a disposizione dall'Alleanza, dove aveva dovuto imparare a distinguere una singolarità quantica da una stringa cosmica tra la puzza dei klingon e lo scherno dei cardassiani.

Nessuno che dia tanta importanza alla fisica delle particelle può essere tanto male, rifletté tra sé e sé.

Bli-blip.

Vaarik venne strappato alle sue riflessioni dal suono del terminale che indicava un messaggio in arrivo.

Bli-blip.

Per un istante, il vulcaniano si fece tentare dal pensiero di non rispondere alla chiamata. L'ultima cosa che voleva fare in quel momento era spiegare a Foster o a Renko perché non li avesse raggiunti da Chun quel pomeriggio.

Bli-blip.

Emettendo un impercettibile sospiro, Vaarik si sedette alla scrivania e attivò il terminale di comunicazione. Lo schermo si illuminò, proiettando l'immagine del simbolo della Federazione. Sotto di essa, una scritta lo informava che il messaggio proveniva dalla USS Nemesis.

Niente Foster o Renko.

Peggio.

Molto, molto peggio.

Pochi istanti dopo, infatti, sullo schermo apparve il volto del tenente comandante Memok, consigliere di bordo della Nemesis nonché tutore e incubo di Vaarik all'Accademia. Tuttavia, notò Vaarik, il volto da folletto del vulcaniano era privo della consueta aria sardonica che spesso sembrava accompagnarlo.

"Salve, consigliere. Cosa posso fare per lei?"

"Signor Vaarik. Temevo non fosse rientrato in alloggio."

"Spiacente di averla fatta attendere, consigliere," mentì spudoratamente Vaarik. "Il motivo della sua comunicazione?"

Memok gli lanciò uno sguardo significativo. "Formuli un'ipotesi."

Vaarik impiegò meno di mezzo secondo per fare il collegamento. "L'ha saputo?" domandò.

"Io so sempre quello che le succede, signor Vaarik. Ormai la cosa non dovrebbe stupirla più di tanto."

"Ha ragione, ma tento di dimenticarlo, di tanto in tanto," rispose Vaarik con rassegnazione.

"E ora come sta?" chiese il vulcaniano, senza lasciarsi distrarre dall'ironia di Vaarik.

"Piuttosto bene, per uno che è stato appena accoltellato. Sarebbe potuta andarmi molto peggio."

"Molto peggio," sottolineò cupamente il consigliere. "Ha parlato a qualcuno dell'aggressione?"

"Certo," rispose Vaarik con naturalezza. "Ho indetto una conferenza stampa meno di dieci minuti fa. Le rotative stanno già fremendo nell'attesa."

"I suoi tentativi di umorismo sono decisamente fuori luogo, cadetto. Mantenere il riserbo sulla sua provenienza è di fondamentale importanza, soprattutto se vogliamo evitare il ripetersi di simili incidenti."

"Concordo pienamente. In qualunque posto mi manderete ora, le misure di sicurezza dovranno evidentemente essere migliorate."

Memok gli lanciò uno sguardo confuso. "Cosa intende con in qualunque posto mi manderete ora?" domandò poi.

"Dopo che mi avrete trasferito dall'Accademia, intendo."

"Temo di non capire, signor Vaarik. Lei non va da nessuna parte."

"Ma..." questa volta fu il turno di Vaarik di essere confuso. "Signore, la mia presenza è stata scoperta. L'Accademia non è più un luogo sicuro. Trasferirmi da qualche altra parte è l'unica scelta logica."

"Mi permetto di dissentire. L'Alleanza non è stata messa al corrente della sua presenza in Accademia. L'uomo mandato ad assassinarla non ha mai fatto rapporto ai suoi superiori."

"E questo lei come fa a saperlo?" chiese Vaarik, irritato.

"Il sicario è stato reso... inoffensivo prima che fosse in grado farlo."

Vaarik non poté fare a meno di sollevare un sopracciglio. "Intende dire che è stato eliminato?"

Con una freddezza inaspettata nella voce, il consigliere rispose. "Questo non è più un suo problema."

"Devo ricredermi su di lei, consigliere," disse Vaarik con quello che non poteva essere altro che un briciolo di ammirazione nello sguardo. "Non credevo che la Flotta Stellare agisse in questo modo."

"Ci sono molte cose che lei non sa sulla Flotta Stellare, signor Vaarik," disse Memok, e nella sua voce il giovane vulcaniano non poté fare a meno di notare una sfumatura di... amarezza? Vaarik non avrebbe saputo dirlo con certezza.

"Quindi la mia assegnazione all'Accademia è stata confermata."

"Certamente. Sono ancora convinto che per lei questa sia la cosa migliore," disse Memok un po' troppo rapidamente. Poi cambiò argomento. "A proposito, come va la convivenza con il signor Dalton?"

Silenzio. "Non diversa da come mi aspettavo, signore."

Il consigliere sollevò un sopracciglio. "Devo desumere che vi siano degli attriti?"

"Non credo che questo la possa stupire, signore, visto che questa pessima idea è stata sua."

Sentendo queste parole, il vulcaniano si carezzò lentamente la barba spruzzata di grigio. "Con il tempo imparerà, signor Vaarik, che a volte le situazioni peggiori sono quelle da cui si può trarre il maggiore insegnamento."

"La sua saggezza mi stupisce sempre, consigliere," disse Vaarik, gelido. "Ha mai pensato di scrivere i biglietti dentro i dolcetti della fortuna?"

Il vulcaniano quasi sorrise a quella che definitivamente era una battuta di spirito del suo protetto. Ho detto quasi. "Sono lieto di sentirla fare tutta questa ironia, signor Vaarik. Mi chiedo se non sarebbe tempo per lei di seguire un corso di umorismo avanzato con il tenente Sherman."

"Credo di non essere ancora pronto per un corso di quel livello, signore," rispose Vaarik, che sapeva riconoscere una minaccia quando ne vedeva una.

"Meglio per lei, signor Vaarik. Ora devo salutarla. Aspetto con ansia il suo rapporto."

"Non vedo l'ora di scriverlo," rispose il giovane vulcaniano con aria impassibile. "Pace e lunga vita."

"Lunga vita e prosperità," rispose Memok. Poi mentre si accingeva a chiudere la comunicazione, aggiunse, cupamente "Anche se da come si comporta comincio a sospettare che a lei non interessi né l'uno né l'altro."

Poi lo schermo divenne nero, lasciando Vaarik a fissarlo per alcuni secondi, senza sapere se quello che stava provando in quel momento era un logico sollievo per non dover ricominciare un duro periodo di adattamento in un nuovo ambiente, o un molto meno logico desiderio di togliere quel ghigno dalla faccia del consigliere solo con l'ausilio di una primitiva mazza da baseball.

USS Nemesis, NCC 75310. Classe Sovereign.
Attraccata alla Stazione Spaziale 3-14.

Il consigliere Memok si rilassò contro lo schienale della vecchia poltrona del suo studio a bordo della USS Nemesis. Attorno a lui, una vasta schiera di vecchi mobili che a detta di tutti facevano sembrare quell'ambiente più che altro un ufficio nella Chicago degli anni '40.

"Alfiere a cavallo in C-12, livello beta," disse dopo alcuni secondi, come se si stesse rivolgendo alle pareti del suo studio.

"Un'apertura prudente, per un giocatore come lei," rispose dopo un attimo una voce priva di qualunque inflessione.

Il consigliere si voltò verso una delle due figure che sedevano dall'altra parte della sua scrivania. "E non è quello che abbiamo appena fatto?" domandò. "Un'apertura prudente?"

"Possiamo dire così," concesse la stessa voce dopo un attimo di riflessione. "Ma lei saprà che la cautela è d'obbligo, nel nostro lavoro."

"Mi permetto di dissentire con voi, signore," disse Memok scuotendo la testa. "Tutta questa faccenda ha ben poco a che fare con la cautela."

"La sua posizione è ben nota ai membri del progetto, consigliere," si intromise il secondo uomo. Era un umano sulla cinquantina, piuttosto in forma, con gelidi occhi azzurri e folti capelli grigi scolpiti in un rigoroso taglio militare. "Tuttavia, perfino lei si renderà conto che questo tipo di approccio è l'unica speranza che abbiamo per rimettere le cose a posto."

"Non c'è niente da rimettere a posto, generale. Non possiamo pensare di cancellare l'errore di un secolo fa con un altro errore ancora più grosso."

"Questo suo afflato moraleggiante è del tutto fuori luogo, consigliere," disse il generale con una durezza nella voce che non ammetteva repliche. "Lei ha i suoi ordini, ed il mio consiglio è di non metterli in discussione una volta di troppo."

Memok fece ricorso a tutta la sua Disciplina per sopprimere le parole che minacciavo di scappargli di bocca, tuttavia non poté fare a meno di lanciare uno sguardo incandescente al generale.

"Stia tranquillo, consigliere," continuò la prima voce in tono quasi conciliatorio, sapendo che le cose tra quei due potevano surriscaldarsi con estrema facilità, "le assicuro che la sua opinione verrà tenuta in grande considerazione. Tuttavia, questi sono tempi assai critici per il nostro progetto, e non possiamo permetterci alcuna indecisione. Quando verrà il momento di mettersi in azione, non avremo nessun margine d'errore."

"Su questo non c'è alcun dubbio, signore," disse Memok piuttosto cupamente. "Siete sicuro che il sicario non sia riuscito a far sapere ai suoi superiori la posizione del soggetto?"

"Di questo può stare tranquillo," disse il generale sfoderando un sorriso crudele. "Quella maledetta IENA non ci darà più alcun fastidio."

Memok sollevò interrogativamente un sopracciglio udendo quel termine davvero inusuale.

"Infiltrato Exo-dimensionale Non Autorizzato," spiegò con calma la voce. "Dovrebbe sapere che il generale tende ad utilizzare un gergo piuttosto... colorito."

"Può giurarci," gracchiò l'umano. "A sentire voi sembra sempre che parliate di... mitosi cellulare, o di decadimenti muonici!"

La sua risata amara si trasformò in latrato, riempiendo lo studio solitamente silenzioso del consigliere. Poi si interruppe di colpo così come era iniziata. "Ma veniamo alle cose serie. Ho ricevuto il rapporto dal nostro operativo sull'interrogatorio del sicario bajoriano. Questo è quanto siamo riusciti ad appurare dalla sua spontanea confessione: dopo il passaggio nel nostro universo, l'Alleanza ha sguinzagliato i suoi scagnozzi sulle tracce degli eventuali sopravvissuti, senza tuttavia riuscire a fare breccia nel nostro sistema di sicurezza. Solo pochi mesi fa, grazie ad un induttore di fluttuazione quantica vendutogli da un rinnegato nel settore di Terok Nor, l'agente bajoriano che abbiamo catturato è passato nel nostro universo, ma da allora non è più riuscito a mettersi in contatto con i suoi superiori. Fortunatamente ci siamo accorti di lui in tempo, e una volta messo sulle tracce dal soggetto dagli indizi che i nostri operativi hanno preparato, ha organizzato quella aggressione ed è finito nelle nostre mani."

"Una conclusione del tutto soddisfacente," commentò la solita voce priva di qualunque inflessione.

"Io non direi, signore," disse invece Memok, badando però a mantenere estremamente pacato il tono di voce. "Per mettere le mani su un semplice agente ostile abbiamo messo in gioco la vita del soggetto. E se non fosse riuscito a sopravvivere? Cosa ne sarebbe stato dell'intero progetto?"

La bocca del generale si incurvò verso il basso. "I rischi erano stati accuratamente calcolati, consigliere. Inoltre, il nostro operativo sul posto non avrebbe mai permesso che succedesse qualcosa al soggetto."

"Ha detto così anche quella volta sul Pianeta del Sempre, poi il soggetto si è gettato nel Guardiano all'inseguimento di quell'istruttore idiota e il suo operativo è rimasto lì come un allocco a guardare."

La voce tornò a farsi sentire, e questa volta aveva una sfumatura quasi ironica. "Vi sono cose che nemmeno noi possiamo prevedere, consigliere. Per quanto seccante, è un fatto con il quale dobbiamo fare i conti, prima o poi..."

* * *

Una volta che i due se ne furono andati, il consigliere andò al replicatore a prendersi una tazza di moka vulcaniana molto zuccherata, senza curarsi di nascondere l'evidente componente emotiva che quel gesto assumeva in quel momento. Come se volesse levarsi dalla bocca il sapore della congiura. Gli dava il mal di testa lavorare con quel tipo di gente, ma lui era un ufficiale e un vulcaniano, e fare lo schizzinoso non rientrava nei suoi doveri.

Ecco, il generale poteva anche capirlo. Memok era uno psicologo, e comprendere quello che passava per la testa delle persone era il suo lavoro. Il generale era rigido, efficiente, determinato, fermamente e profondamente convinto che il fine giustificasse i mezzi. Tutto quello che si potrebbe aspettare da uno come lui, insomma.

L'altro personaggio, invece... be', con lui era tutt'altra cosa.

"Computer," disse rivolto all'aria, sedendosi a gambe incrociate sulla scrivania, "attivare programma olografico BL-01."

Nella stanza si materializzò una figura, un'umana sulla ventina in abiti civili e una pettinatura stile anni '40.

"Salve, capo," disse lei allegramente, masticando una gomma. "Ha bisogno di me?"

"Sì, Betty Lou. Quali sono gli appuntamenti per domattina?"

"Dunque," disse lei consultando un taccuino che comparve come per magia tra le sue mani, "domani ci sono: la seduta settimanale con Cinque di Sette per lo sviluppo della sua individualità, la sessione di terapia di gruppo con il personale della sicurezza e la revisione delle schede mediche con la dottoressa Lorne."

"Annullali tutti. Scusati con gli interessati e informali che farò in modo di recuperare il prima possibile. Fissa poi un appuntamento con la commissione, ho alcune questioni urgenti che necessitano di essere discusse al più presto. Ah, ricordati anche di inviare quel rapporto al Rettore D'Elena. Lo trovi nella solita directory."

"Come se l'avessi già fatto, capo," rispose lei con una punta di orgoglio per l'efficienza del suo lavoro.

"Grazie, Betty Lou," disse il consigliere saltando giù dalla scrivania con una certa agilità. "Per oggi puoi spegnerti. Dovevo essere a cena con Wak Inyan mezz'ora fa e come al solito sono in ritardo..."

L'ologramma esitò un istante, mordicchiando nervosamente l'estremità della penna. "Capo..."

Memok la guardò incuriosito, sollevando un sopracciglio.

"Volevo chiederle... c'è una cosa che proprio non riesco a capire... lei è una brava persona, eppure... com'è che lavora con quella gente?"

"Betty Lou," disse il consigliere permettendosi un infinitesimale sospiro. "Quante volte ti ho detto di non origliare quando parlo con i membri del progetto? Sai che sarebbero capaci di cancellare il tuo programma se venissero a saperlo."

"Mi spiace, capo, ma... insomma, quella gente non mi piace."

"I vulcaniani non si lasciano influenzare da questo tipo di considerazioni emotive, Betty Lou, dovresti saperlo. Ma, giusto per soddisfare la tua curiosità, ti dirò una cosa: non piacciono neppure a me."

"E allora perché ha accettato di lavorare per loro?" domandò l'ologramma di getto.

Memok le lanciò un'occhiata infinitamente triste, sentendosi più stanco, saggio e cinico di quanto gli sarebbe mai piaciuto essere. "La risposta è semplice, Betty Lou: farsi accompagnare dai demoni è l'unico modo sicuro per entrare all'inferno... e sperare di tornare indietro."

Stazione Spaziale 314, Sezione 9, Livello Alfa.
In quello stesso momento.

Chiunque avesse visitato la Stazione 314 solo pochi mesi prima, sarebbe stato sbalordito dai cambiamenti che aveva subito nell'ultimo periodo.

Fino a poco tempo fa la stazione era solo un'anonima stazione privata di transito come ce n'erano tante altre ai margini dello spazio federale, frequentata unicamente da trasporti commerciali e antiquate navi da carico. Ora quella stessa stazione si stava trasformando in qualcosa di completamente diverso.

I suoi freddi pavimenti metallici avevano conosciuto fino ad allora solo il pigro trascinarsi dei piloti di cargo e degli addetti alla manutenzione, ma ora rimbombavano sempre più spesso dei passi cadenzati e delle voci forti di numerosi uomini, tecnici, operai, soldati. Soprattutto soldati. Entro pochissimo tempo la base sarebbe stata pienamente operativa.

E non sarebbe stata l'unica.

Proprio in quei corridoi, in quel momento quasi deserti a causa dell'orario, due figure avanzavano rapidamente lungo un corridoio, facendo risuonare i loro passi lungo le paratie.

Le rare persone che li incrociavano chinavano leggermente il capo in segno di rispetto al loro passaggio, come a riconoscere l'importanza del loro ruolo e di ciò che rappresentavano.

Senza di loro, nulla di ciò che stava accadendo sarebbe mai potuto succedere.

"Deduco dal suo silenzio che qualcosa la turbi, generale," disse piano una di loro, con la voce priva di qualunque inflessione. "Sarei curioso di sapere di cosa si tratta."

"Ad essere sinceri, trovo che la faccenda dell'aggressione sia stata gestita con troppa leggerezza, signore," rispose l'altro, scuotendo cupamente la testa. "Sapete benissimo che personalmente non mi fido del consigliere, e che anzi l'ho sempre reputato solo una zavorra per tutto il progetto. Ma questa volta aveva ragione. Non c'era motivo di esporre il soggetto ad un rischio così alto. Il bajoriano era un professionista, e nonostante l'operativo non l'abbia mai perso di vista, c'era la seria possibilità che si facesse ammazzare. E noi non avremmo avuto più nulla."

"Se il soggetto si fosse fatto uccidere così facilmente, generale, allora in ultima analisi non sarebbe stato comunque adatto ai nostri scopi. Non possiamo permetterci di affidare tutte le nostre speranze ad un uomo così povero di risorse."

Il generale ci pensò un po' su. "In effetti avete ragione. Però avrei preferito prendere parte alla decisione, e ancora di più sarebbe piaciuto agli altri membri del progetto. Non potete aspettarvi di tenere unita la commissione se non li mettete a parte delle vostre decisioni."

L'altra figura si arrestò di colpo, costringendo il generale a fare dietro front. "Si sta forse dimenticando, generale," disse con voce calma, ma pervasa di un greve senso di minaccia, "che l'intera operazione è possibile solo perché io lo voglio? Lei e la sua banda di lustrascarpe siete qui per eseguire i miei ordini, non per prendere parte ad essi. O devo forse ricordarle con chi sta parlando?"

No, non doveva ricordarglielo. Il generale abbassò quindi lo sguardo, mormorando rispettosamente una risposta negativa.

L' altro, evidentemente soddisfatto, riprese a camminare.

"Tuttavia, signore," aggiunse sommessamente il generale dopo qualche passo, "se altre iniziative del genere non dovessero avere un esito altrettanto fortunato, alcuni membri del progetto potrebbero avere dei... ripensamenti."

Se il generale si aspettava una risposta preoccupata a seguito di questa sua insinuazione, non avrebbe potuto sbagliarsi in maniera maggiore.

"Quest'eventualità non deve preoccuparla minimamente, generale," fu l'inaspettata risposta della persona a cui tutta la commissione faceva riferimento fermandosi di fronte ad una coppia di enormi porte di metallo alla fine del corridoio che stava percorrendo. "Il progetto andrà avanti comunque, con o senza di loro. Ciò che deve essere fatto, sarà fatto."

"A qualunque costo?" domandò il generale, mentre di fronte a lui si le porte si aprivano docilmente, rivelando dietro di loro il cavernoso ambiente occupato dal centro operativo della stazione.

"A qualunque costo," ripeté cupamente la voce, mentre la sua eco si mescolava in lontananza alle decine di voci e rumori del centro operativo, addensandosi nell'aria come le nuvole minacciose di una tempesta imminente.

"A qualunque costo."

FINE CAPITOLO