PERCORSI TORTUOSI

San Francisco, Terra.
Financial District

Vaarik stava camminando da solo, il viso sferzato dall'aria frizzante del mattino, le mani sprofondate nelle ampie tasche della sua veste scura. Non si sarebbe potuto intuire dall'espressione neutra del suo viso il turbinare dei suoi pensieri, ma le persone sul suo cammino avvertivano d'istinto che non era il caso di importunarlo. Non che fosse una cosa insolita. Come aveva detto al rettore, i vulcaniani non sono famosi per la loro amabile conversazione.

Anche se non aveva idea di dove stava andando, non avrebbe ammesso con nessuno, nemmeno con sé stesso, di stare camminando solo perché aveva bisogno di farlo.

Io sto semplicemente prendendo confidenza con l'ambiente, decise.

Nelle sue peregrinazioni, si ritrovò ad uscire dal perimetro dell'Accademia, inoltrandosi nelle vie della città. Era una luminosa mattina, e le strade erano colorate di persone. Nessuno ci faceva più caso, ma l'incredibile varietà somatica raccontava che il DNA di un'alta percentuale dei residenti aveva avuto origine molto lontano da questo sistema solare. San Francisco era una città multietnica, multiculturale, multicolore. Ed era orgogliosa di esserlo.

Istintivamente, Vaarik rifuggì la calca, inoltrandosi nei quartieri vecchi, memori di una ghettizzazione che ormai non era più nemmeno concepibile.

In poco tempo si ritrovò in piena China Town.

Il sole risultava velato da una lieve foschia, che saliva dalle strade, dai vicoli ricchi di odori e di vapori. Un silenzio innaturale regnava tutt'intorno, interrotto solo dalle metalliche note di un'antica melodia. Vaarik dovette ammettere di essere lievemente spaesato. Quello per lui era davvero un altro pianeta, totalmente alieno da tutto ciò che conosceva. La patina di mondanità era svanita, e Vaarik si ritrovò con i sensi all'erta, fiutando nell'aria gli odori di quel mondo sconosciuto. Drappi leggeri adornavano i palazzi, sui quali si inerpicavano figure scolpite sinuose e sconosciute. Un umano avrebbe potuto dire di averle viste muoversi, ma Vaarik sapeva che era solo un gioco delle luci e dei vapori. Continuò a camminare, avvertendo con un lieve disagio che la temperatura era scesa di un paio di gradi.

D'un tratto, si ritrovò di fronte all'insegna luminosa di una taverna. Due ideogrammi facevano finta di dormire sopra l'architrave della porta, ma tenevano un occhio sull'inconsueto visitatore. Un dispositivo di traduzione universale li convertì in Standard, definendo il locale la "Salamandra Lucente nel Sole del Mattino che varca i Cancelli del Regno del Coleottero Danzante".

Dalla porta filtrava un calda luce rosata.

Vaarik non decise coscientemente di entrare, ma si ritrovò come in un sogno a varcare la soglia di quel locale. All'interno la taverna era arredato in tipico stile cinese, con le pareti e il soffitto decorati in legno laccato. Qua e là erano appese stampe dall'aspetto antico e ideogrammi dipinti su carta di riso. L'illuminazione era bassa e avvolgente, e proveniva da lampade a forma di iguana rosa.

Non il massimo del buon gusto, decise Vaarik.

Un umano sulla cinquatina, piccolo di statura e con penetranti occhi a mandorla comparve come dal nulla di fronte al vulcaniano.

"Quale onore al mio umile locale l'ingresso di onorevole avventore," lo salutò l'uomo, increspando i sottili baffi grigi in un sorriso di benvenuto e producendosi in un cortese inchino. "Purtroppo però a quest'ora il locale è quasi completo, e sono costretto a chiedere di condividere il tavolo con altro giovane, se non è di troppo disturbo."

Sulle prime Vaarik pensò di girarsi sui tacchi ed andarsene dal locale, poi qualcosa negli occhi del suo ospite lo fece fermare. L'uomo lo guardava con una sorta di divertita familiarità, come se stesse aspettando da tempo il suo arrivo. Il vulcaniano lo fissò con evidente sospetto per alcuni istanti, poi decise di seguirlo, se non altro per soddisfare la sua curiosità.

L'uomo lo condusse ad un tavolo piuttosto appartato, al quale era seduto un ragazzo con indosso l'inconfondibile uniforme dei cadetti e un paio di improbabili occhiali da sole. Davanti a lui riposava un bicchiere colmo a metà di un liquido giallognolo.

Sempre tenendo sott'occhio l'orientale, Vaarik si rassegnò ai disegni del caso e si avvicinò al tavolo.

"Lunga vita e prosperità," intonò con la sua solita voce sepolcrale, poi si sedette con la schiena rigida e le mani raccolte in grembo.

L'uomo della taverna si schiarì la voce. "Cosa desidera l'onorevole cliente per rifocillare corpo e anima?"

Vaarik si scoprì incerto su cosa ordinare, anche perché non aveva assolutamente idea di che cosa potessero servire in un posto del genere.

Fu il padrone del locale a venirgli incontro. "Se l'onorevole cliente permette, allora provvederà Chun a portare qualcosa di suo gradimento."

Il vulcaniano soppesò per qualche istante la proposta, considerando l'eventualità che l'uomo avesse intenzione di avvelenarlo, poi la accantonò come illogica e decise di fidarsi.

Non appena l'uomo fu scomparso oltre un paravento, sul tavolo discese una leggera foschia di imbarazzo. L'altro cadetto sorseggiava lentamente il suo beveraggio, mentre Vaarik manteneva il suo sguardo tenacemente fisso nel vuoto, come nulla di ciò che gli accadeva intorno avesse per lui la minima importanza.

In realtà, il vulcaniano si stava interrogando sul giovane seduto di fronte a lui. D'aspetto sembrava piuttosto umano, ma ad una prima occhiata risultava impossibile stabilirne l'età. I capelli ricadevano sulla fronte in maniera apparentemente casuale, rendendo ancora più difficile inquadrarne i tratti del volto, ampi ma poco evidenti. Se non fosse stato per quegli estemporanei occhiali neri, sarebbe potuto passare completamente inosservato.

Dopo alcuni minuti di silenzio, fu lui prendere la parola per primo, dicendo qualcosa che lasciò Vaarik piuttosto stupito.

"Che hobby hai?"

Il vulcaniano lo fissò per qualche secondo, senza la più pallida idea di cosa gli fosse stato chiesto. Forse il suo traduttore universale aveva qualche problema?

"Prego definire 'hobby'," chiese, stando attento a pronunciare lentamente ogni parola.

L'altro apparve piuttosto imbarazzato, e Vaarik lo vide digitare qualcosa su un taccuino elettronico.

"Per esempio, durante il tuo tempo libero fai cose tipo ricamare coperte, macchiare con pittura tele di stoffa, lanciarti nel vuoto attaccato a delle corde attaccate a loro volta ad un enorme lenzuolo, collezionare qualcosa di macabro?"

Vaarik rimase perplesso, aveva capito le parole, ma il loro significato appariva privo di contesto di qualunque conteso. Decise di tentare di nuovo. "Definire 'tempo libero'."

Un lampo di panico passo sul volto del ragazzo, che evidentemente decise di lasciar cadere il discorso. Dopo un attimo di meditazione, e un sorso di roba giallognola, il ragazzo tornò però all'attacco.

"Da dove vieni?", chiese, il volto illuminato dalla speranza.

Domanda sbagliata.

Una scura nube temporalesca parve addensarsi spiraleggiando sopra la testa del vulcaniano. Folgori saettarono dentro di essa, seguite da cupi brontolii di tuoni lontani.

Fortunatamente, prima che potesse aprire bocca dal nulla comparve il piccolo asiatico, poggiando con gentilezza una specie di teiera sul tavolino. Vaarik prese nota del fatto con un cenno del capo, poi attese che l'ospite ne versasse il contenuto in una tazza e infine portò la bevanda alle labbra, il viso atteggiato ad un vago sospetto.

Un'espressione di assoluto rapimento passò nei suoi occhi, anche troppo evidente per gli standard vulcaniani. Poi, come se parlasse a se stesso, Vaarik mormorò, in maniera appena percettibile "Erano anni che non bevevo il tevesh..."

Il tevesh era una bevanda tipica della sua città natale, un infuso di erbe lenitivo e dalle leggere proprietà antidolorifiche. Immagini della sua giovinezza riemersero nella sua mente, evocate da quel sapore da tanto tempo dimenticato. Una sera in cui aveva avuto qualche ora tutta per sé, rosicchiata tra gli alienanti turni di lavoro, e che aveva passato a guardare la legna crepitare nel fuoco. Il fugace ma abbagliante sorriso di T'Eia mentre gli versava una tazza di tevesh fumante...

Non guardare, Vaarik. Non guardare.

Vaarik tentò di impedire alla sua mente di ricordare, ma ormai era tardi. Quella non era più la sua vita, ed egli non avrebbe disonorato sé stesso lasciandosi andare ai ricordi come un tveeokh senza disciplina. Ma questo era tutto ciò che gli restava di lei. Per un brevissimo, illogico attimo, sentì ancora la sua voce nella sua mente, che gli sussurrava: Io Non Ti Lascerò.

Fu invece la voce soddisfatta dell'orientale a riportare il vulcaniano alla realtà. "Chi viene da Chun trova sempre quello che cerca," disse misteriosamente, poi scomparve senza lasciare traccia.

Vaarik si ricordò della presenza dell'altro cadetto in un lampo. Il ragazzo era stato testimone del suo smarrimento, una mancanza di disciplina intollerabile per un vulcaniano. Si voltò verso di lui, temendo di vederlo perplesso o addirittura divertito, un'eventualità a dir poco mortificante. Vaarik fu invece sorpreso di vedere che il cadetto lo stava guardando senza dare segni di aver colto quello che era avvenuto. Vaarik fu talmente grato di questo che decise di presentarsi al suo collega.

"Io sono Vaarik, figlio di Temnok," si presentò.

"Piacere, Renko, figlio di," rispose l'altro con un ampio sorriso.

Vaarik rimase piuttosto interdetto. Era evidente che qualcosa in quella conversazione non andava, ma il vulcaniano non era ancora riuscito a capire che cosa. "Quale hai detto che è il nome del tuo clan?" azzardò con cautela.

"Il mio clan?", domandò l'altro ancora più stupito. Vaarik cominciò a sospettare di trovarsi in mezzo ad un eclatante caso di fraintendimento culturale, soprattutto quando il suo interlocutore continuò la sua spiegazione. "Si può dire che il mio clan abbia la catalogazione 512.000. Comunque prima mi stavo riferivo al mio nome umano, Renko, che in un dialetto terrestre significa semplicemente 'figlio di', punto e basta."

"Affascinante," commentò il vulcaniano, ancora più confuso dopo quella spiegazione. "Non capisco comunque perché tu abbia deciso di assumere un nome terrestre. Non sarebbe meglio. ad esempio, assumere un nome vulcaniano?"

"Non l'ho scelto io," rispose quello che si era identificato come Renko allargando le braccia. "Mi hanno registrato con questo nome due terrestri all'ufficio di reclutamento. Dovevano avere un senso dell'umorismo traviato, tuttavia trovo che mi descriva in maniera egregia."

Vaarik permise per un istante che i suoi tratti si distendessero. "Tipico dei terrestri," disse, riferendosi al bisogno tutto umano di dare un proprio nome alle cose.

"Comunque non mi hai ancora detto da dove vieni," lo apostrofò Renko, guardandolo significativamente da dietro le lenti scure.

"Da molto lontano," rispose enigmaticamente il vulcaniano, mentre i suoi occhi parvero osservare un punto in lontananza, come se potesse davvero vedere il posto da cui veniva da quella posizione.

Vaarik finì rapidamente la sua tazza di tevesh, poi si alzò in piedi, salutando il suo interlocutore con un cenno del capo. "Se mi vuoi scusare..." disse congedandosi, poi si voltò e si incamminò verso l'uscita senza guardarsi indietro. Lasciò qualche credito sul bancone della taverna, poi varcò la soglia e si ritrovò all'esterno. L'aria frizzante di fine ottobre lo fece rabbrividire, e il vulcaniano sollevò il bavero della propria veste per mantenere il calore corporeo.

Da un posto che i terrestri chiamerebbero inferno..., pensò cupamente, rivedendo nella sua mente le immagini da incubo degli altiforni in cui era cresciuto.

Poi si voltò e riprese a camminare in direzione del sole, ormai alto sul colle dell'Accademia.

FINE CAPITOLO