PRIMI PASSI

Istituto di Preparazione per Vulcaniani.
Provincia Orientale.

Il boato di una serie di esplosioni scosse l'edificio fino alle fondamenta. Vetri volarono, muri crollarono e rauche sirene presero ad ululare tutto intorno, come se le trombe dell'Apocalisse si fossero di colpo risvegliate. Grida stridenti e isteriche riempivano l'aria, mentre un fumo acre invadeva le stanze, annerendo ciò con cui veniva in contatto.

Vaarik aprì gli occhi, stordito, rendendosi conto che giaceva sdraiato su un mucchio di macerie nel locale nel quale stava accatastando dei componenti meccanici, senza ricordare di essersi gettato a terra. Sollevò la testa, provando una lancinante fitta alla fronte e alla guancia. Portò istintivamente una mano al viso, e quando la ritrasse la vide imbrattata di sangue. Tentò di controllare il dolore, ma lo shock provato per l'esplosione glielo impedì. Con metà faccia coperta dalla mano, tentò di alzarsi in ginocchio, arrancando nel fumo. Sentì voci che gridavano attorno, ma non riuscì a decidere da che parte provenissero. Si appoggiò ad un brandello di muro, rimettendosi in piedi. Osservò attonito una trave del soffitto della sala che, staccatasi di netto, era piombata a terra senza lasciare scampo agli altri giovani vulcaniani che stavano lavorando con lui fino a pochi istanti prima. Oltre il fumo e la polvere intravide figure che correvano, e, istintivamente, si mise a correre nella loro stessa direzione, contando sul fatto che stessero tentando di mettersi al sicuro.

Mentre arrancava sulle gambe incerte e il fumo gli mozzava il fiato, una parte del suo cervello tentò di capire che cosa era successo, dissociandosi dal panico e dal bruciante dolore al viso. L'edificio era stato sventrato da un'esplosione, questo era chiaro, ma Vaarik non riusciva ad immaginare cosa potesse averla causata. Mentre una ridda di ipotesi si affollavano nella sua testa dolorante, il giovane vulcaniano si ritrovò lungo disteso sul pavimento del corridoio. Gridò per il dolore, mentre le sue ginocchia urtavano con violenza il pavimento irto di macerie. Faticosamente si rimise carponi, voltandosi istintivamente a guardare cosa aveva arrestato la sua corsa. Intravide la figura di un uomo, sdraiato per terra in maniera scomposta.

Si avvicinò al suo volto per vedere se era ancora vivo. Ma sotto la cresta frontale i suoi occhi era aperti e fissi, e non vi era traccia di respiro sulle sue labbra. E non ve sarebbe potuto essere, poiché un profondo squarcio era aperto nel suo torace, attraverso il quale gli organi interni esposti all'aria si stavano rapidamente ossidando. Una chiazza violetta si stava ancora allargando accanto alla sua testa, e grumi di materia cerebrale erano sparsi tra i suoi capelli lunghi e ricciuti.

Vaarik si ritrasse da quel macabro spettacolo e ricominciò a correre a perdifiato, questa volta senza nemmeno guardare dove stava andando. Corse lungo corridoi angusti e pieni di fumo, corse attraverso magazzini ingombri di materiali e macerie, e infine riuscì a scorgere la luce del sole che filtrava faticosamente tra il fumo e le macerie. Scavalcando calcinacci e corpi, emerse dalle viscere della struttura, guadagnando finalmente la luce e la possibilità di respirare senza inalare boccate di vapori irritanti. Arrancando sulle gambe malferme seguì la massa di persone che stavano evacuando l'intero edificio e si avvicinò alla silenziosa folla che si era radunata all'esterno dell'Istituto.

Voltandosi indietro, Vaarik poté vedere che l'Istituto era in parte crollato, e che dalle macerie si levavano numerose colonne di fumo e principi di incendi. Dove una volta sorgeva l'ala ovest, ora c'era solo un enorme cratere dalle pareti annerite, dal quale si levava una colonna di fumo denso e nero. Indeciso su come interpretare quell'informazione, Vaarik rifletté che nell'ala ovest non vi erano fonti di energia che potessero causare un'esplosione di quel genere, e che anzi quell'area era destinata agli alloggi dei sorveglianti.

Il giovane vulcaniano venne accolto in seno alla folla, dove si stava provvedendo faticosamente ai feriti tra i locali. I sorveglianti klingon e cardassiani, gli unici ad avere diritto ad una vera e propria infermeria, erano invece portati in un'altra ala dell'edificio. Venne affidato alle cure di una ragazza, una giovane vulcaniana dal volto triangolare e grandi occhi nocciola sotto la frangia leggermente spettinata. Lei lo guardò senza sorridere, ma fu delicata a pulire il sangue verde incrostato sul suo volto.

"Non ti muovere, altrimenti ti faccio male."

Per Vaarik sentire la sua voce curiosamente roca fu come accorgersi per la prima volta che era possibile comprendere il significato dei suoni che la gente emetteva. La guardò come se fosse la prima persona che vedeva da anni.

"Come ti chiami?" le chiese.

Lei rispose senza interrompere il suo lavoro. "T'Eia. Non ti muovere, ho detto."

"Io sono Vaarik."

Lei non sembrò particolarmente interessata all'informazione, e non lo degnò di uno sguardo. Ma il giovane vulcaniano non si lasciò intimidire, consapevole del fatto che continuare a parlare era l'unico modo che aveva per allontanare il dolore e il senso di irrealtà che minacciavano di risucchiarlo.

"Qual è la tua discendenza?"

"Io sono T'Eia, figlia di Solhok, discendente del clan di T'Pau."

Il giovane Vaarik non poté fare a meno di sollevare un sopracciglio a questa affermazione, anche se una fitta lancinante alla fronte lo convinse a non portare a termine il movimento. Il clan di T'Pau era legato ad uno dei nomi più controversi della storia della galassia degli ultimi cento anni.

"Il Supremo Spock apparteneva al clan di T'Pau," disse Vaarik con voce incerta, non sapendo bene cosa pensare.

Con un silenzio significativo, la ragazza gli lanciò uno sguardo che lasciava bene intendere quanto fosse consapevole di quel fatto, e quante volte glielo avessero ricordato da quando era nata. Ma Vaarik vide anche qualcos'altro. Era forse... amarezza quello che era passato per un attimo negli occhi della ragazza?

I due rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre T'Eia proseguiva delicatamente nella sua opera. Attorno a loro la gente cominciava a sfollare lentamente il piazzale, pungolata dai sorveglianti, ritornati in forze e innegabilmente innervositi da ciò che era successo. Quando tornò a farsi sentire, la voce di Vaarik era di un'ottava più bassa.

"T'Eia."

La ragazza smise per un attimo di badare alla ferita e lo guardò negli occhi, attendendo pazientemente la domanda. Probabilmente cominciava a pensare che la ferita gli avesse provocato dei danni a livello celebrale.

"T'Eia, tutto questo non può essere stato un incidente. Non c'era niente nell'ala ovest che potesse causare un danno del genere. Che cosa è successo?"

Il fugace lampo di un sorriso attraversò i lineamenti della ragazza, ma era un sorriso freddo e duro come l'acciaio. Era il sorriso che avresti immaginato sul viso di un soldato.

"'...e io colpirò con immane vendetta e implacabile determinazione coloro i quali tenteranno di corrompere e distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello di Surak quando la mia spada si abbatterà su di loro.' "

Neppure gli anni di disciplina emotiva ricevuti fin dalla nascita poterono evitare che gli occhi di Vaarik si spalancassero per una frazione di secondo, mostrando più sorpresa di quello che fosse lecito aspettarsi da un vulcaniano, seppur così giovane.

"Surak, 25:17..." sussurrò, mentre le parole salivano alle sue labbra prima che la sua sfera cosciente le analizzasse. "Ma allora..."

"Non è stato un incidente," concluse T'Eia guardandolo negli occhi.

Poi li diresse nuovamente in basso e un breve silenzio scese tra i due. Vaarik ammutolì, assorto, poiché le parole erano inadeguate a esprimere quello che stava vorticando nella sua mente. Poi il furioso susseguirsi dei suoi pensieri fu interrotto da un preoccupato sguardo della sua improvvisata infermiera, che frattanto era andata avanti con il suo lavoro.

"La ferita non riuscirà a cicatrizzarsi da sola," disse con voce priva di espressione, così diversa da quella che aveva usato appena pochi secondi prima. "Dovrò metterti dei punti."

Vaarik non ne fu sorpreso più di tanto e annuì, consapevole che sarebbe stata una procedura estremamente dolorosa. Ma era sempre meglio che morire dissanguato. Lei armeggiò con uno strumento medico, che assomigliava pericolosamente ad una specie di piccolo saldatore portatile. Lo avvicinò al suo viso, mentre il ronzio dello strumento aumentava di intensità in maniera preoccupante. Vaarik poteva avvertire il calore della sua punta al vanadio mentre si avvicinava alla sua faccia, già dolente e gonfia per la ferita. Chiuse gli occhi, un istante prima che il laser rovente sfiorasse i lembi sanguinanti dello sfregio sul suo volto...

Nave passeggeri John Milton.
Terra, settore 001.

"Benvenuti allo spazioporto "H.Sulu" di San Francisco, Nord America. I signori viaggiatori sono pregati di scendere dallo shuttle seguendo le istruzioni degli assistenti di volo. A tutti un augurio di buona permanenza sulla Terra."

Vaarik si svegliò di soprassalto, sentendo la voce della speaker che erompeva dagli altoparlanti della cabina passeggeri. Aveva imparato da tempo ad addormentarsi quando ne aveva l'occasione, per recuperare preziose ore di sonno. Uno schiavo vulcaniano non poteva mai sapere quando gli sarebbe ricapitato il lusso di una buona dormita. Assorto, seguì la mandria dei viaggiatori nel noioso seppur breve iter che li attendeva agli uffici doganali, perfettamente cosciente di ciò che gli accadeva intorno ma senza dover allocare più di tanti neuroni nel seguire lo svolgimento delle operazioni. Lo spazioporto era colorato, affollato e chiassoso, come tutte le strutture popolate da umani, come aveva avuto il tempo di osservare, ma non era di particolare interesse. In quel mentre si fece sentire la voce cortese dell'altoparlante dello spazioporto. "I signori viaggiatori in partenza per San Francisco City, Berkeley e Oakland sono pregati di recarsi al cancello d'imbarco 16, dove li sta attendendo un antigrav di linea."

La sua mente registrò il messaggio mentre era ancora concentrata nell'analizzare il bizzarro sogno che aveva fatto durante il viaggio. Erano anni che quel ricordo era scivolato negli abissi della sua memoria, presumibilmente per non farne più ritorno. E invece, inaspettatamente, i drammatici momenti che erano seguiti all'"incidente", come si ostinavano a chiamarlo le autorità dell'Alleanza, erano di nuovo risaliti alla superficie della sua coscienza, e con una dovizia di particolari che nemmeno la sua memoria vulcaniana avrebbe potuto giustificare. Cosa avrà avuto il potere di evocare quel sogno, lontano ricordo di un'esistenza che ormai non era più la sua? Pensierosamente portò una mano alla fronte, avvertendo la linea di una vecchia cicatrice che correva sottile attraversando verticalmente tutta la parte destra della fronte, fino al sopracciglio, per poi proseguire lungo parte dello zigomo sottostante. Quella cicatrice l'aveva seguito per buona parte della sua vita, e perfino ora che aveva a sua disposizione i moderni ritrovati della tecnologia federale, aveva deciso di non cancellarla.

Del resto, aveva detto ai medici, non c'era alcun motivo logico per cancellarla. E, segretamente, c'era più di un motivo non logico per tenerla.

Assorto in queste meditazioni, il vulcaniano non si avvide di un colosso rossochiomato che, intento in una conversazione con un umano piuttosto piccolo di statura, finì per inciampare nella sua valigia e rovinare pesantemente a terra, sollevando nuvole di polvere e soffocate risatine. Il piccoletto aiutò l'amico a rialzarsi, mentre l'altro imprecava in un accento colmo di aspirate e fricative.

"Ma per le chiappe dei miei antenati, non potresti stare più attento a dove metti le tue masserizie, pezzo di haggis?"

"Il mio bagaglio era indiscutibilmente in vista e poggiato in prossimità dei miei piedi," replicò Vaarik, tranquillo. "Non vedo come avrebbe potuto esserti d'intralcio se avessi prestato la dovuta attenzione ai tuoi passi."

Il colosso non pareva però essere d'accordo. "Questo lo dici tu, vulcaniano. La tua borsa era proprio in mezzo alle palle!"

Vaarik sollevò un sopracciglio, incrociando le braccia con aria seccata. "Uno: non vedo alcun tipo di sfera nei dintorni. Due: i Vulcaniani non mentono, a meno che non lo ritengano necessario. In questo momento, non ho motivi per ritenerlo tale."

"Be', faresti meglio a ritenerlo, brutt..."

Probabilmente il Colosso avrebbe voluto concludere la frase con un invito alla fratellanza universale, ma senza alcun preavviso il braccio del vulcaniano fece un rapido movimento verso l'altro. In qualche modo, da quel movimento fluido uscì fuori qualcosa di piccolo e lucente, che il vulcaniano mise in mano dell'umano. Guardando in basso, il Colosso si ritrovò tra le mani un piccolo d'ktahg, un pugnale di fattura klingon. Sollevò lo sguardo, completamente allibito.

Ma il vulcaniano era nuovamente a braccia conserte. "Poiché la conclusione più logica è supporre che tu voglia provocare una rissa, è mia intenzione darti una possibilità." Le sue labbra si incresparono in un infinitesimale sorriso. "In nome della sportività, diciamo. Ma vediamo di fare in fretta che mi sta partendo l'antigrav."

I due umani fissarono a occhi sgranati il vulcaniano impassibile per alcuni istanti. Poi il Piccoletto, come se avesse capito in quel momento una barzelletta che gli era stata raccontata giorni prima, cominciò a ridacchiare sommessamente, fino a scoppiare in una risata fragorosa. Il vulcaniano si ritrovò nuovamente ad alzare un sopracciglio.

"Non ci posso credere!" ridacchiava intanto il Piccoletto, quasi con le lacrime agli occhi. "Guarda che per un attimo c'ero cascato perfino io! E poi dicono che i Vulcaniani non hanno senso dell'umorismo!"

Il suo amico invece non ci capiva niente. "Ehi, ma perché ridi?", domandò al Piccoletto. "Me lo vuoi spiegare?"

"Ma come, non hai capito che il nostro amico qui sta scherzando?" lo apostrofò l'altro umano."Non crederai mica che abbia davvero intenzione di scatenare una rissa, qui, in mezzo a tutta questa gente?"

Ahh, certo, l'avevo capito subito io," diceva intanto il Colosso, tossicchiando imbarazzato. "Era tutto uno scherzo. Certo che l'avevo capito subito!" Poi allungò la mano verso Vaarik, porgendo il d'ktahg dalla parte del manico. "Questo credo sia tuo, amico."

Il vulcaniano prese il pugnale, che scomparve in una piega della veste rapidamente come era comparso. "Posso fare qualcos'altro per voi?" chiese semplicemente, approfittando del fatto che il Colosso sembrava aver abbandonato ogni velleità di scontro.

"No, no, non ti disturbare. Penso tu abbia già fatto abbastanza per noi, oggi," si affrettò ad aggiungere il Piccoletto, trascinando il suo amico per una manica.

"Molto bene," concluse Vaarik, voltando le spalle ai due e incamminandosi in direzione del cancello d'imbarco 16.

"Ma guarda che tipo," commentò il Colosso, scuotendo la testa con aria stupita. "Non deve essere mica tutto a posto, quel vulcaniano. Che serietà!"

Ma il viso dell'altro era mortalmente serio, mentre seguitava a trascinare il suo amico il più lontano possibile dal vulcaniano. "Ti è andata bene, Duncan. Ti è andata veramente bene." La sua voce preoccupata fece trasalire l'amico.

"Ma dai, cosa dici, Pete," rispose il Colosso, marcando il suo accento scozzese. "Va bene, so di essere un po' impulsivo, ma come vedi si è risolto tutto bene..."

"Non certo per merito tuo, testone!", gli disse a muso duro il Piccoletto. "Quello ti faceva a fettine senza pensarci due volte. Ascolta me, Duncan. Quello è uno pericoloso. Ha una strana luce nello sguardo... come se... non lo so, ma quel tipo non mi piace."

Anche Duncan cominciava a essere un po' preoccupato. "Dai, Pete, esageri! Forse sarà un po' matto, ma da qui a essere uno psicopatico..."

Peter scosse la testa, confuso. "Forse hai ragione... Ma cerca di stare attento, se lo rivedi. La prossima volta non ci sarò io a badare al tuo deretano, lo sai."

"Lo so, sei già stato anche troppo gentile a venirmi a prendere allo spazioporto, oggi." Poi un sogghigno si fece strada sul suo volto. "Chissà quanti impegni vitali per la Federazione ha dovuto rimandare, guardiamarina Walker!"

L'altro umano lo guardò di sottecchi. "Scemo. Lo sai benissimo che non ho ancora ricevuto un imbarco. Pensa invece ai due anni di Accademia che ti devi ancora fare tu, burba!"

"A proposito, cosa ti fa pensare che lo debba rivedere? San Francisco è grande, e forse è qui solo di passaggio..."

"Questo mi fa intuire che, nel rovinare come un gorilla sbronzo sopra la sua valigia, tu non abbia notato la targhetta con la dicitura 'Accademia della Flotta Stellare', vero?"

"Oh, merda!..."

Accademia della Flotta Stellare.
San Francisco, Terra.

Vaarik stava percorrendo da un minuto e ventisei secondi un lungo corridoio che l'aveva ormai portato nel cuore dell'edificio amministrativo. In fondo ad esso, vide una porta, di aspetto piuttosto comune. Non vedendo nessuno nelle vicinanze, la oltrepassò senza pensarci due volte.

Il vulcaniano si ritrovò in un'ampia e alta sala, illuminata dal sole del mattino che irrompeva all'interno da una lunghissima vetrata, estesa a due pareti adiacenti. Un enorme sigillo della Federazione campeggiava sul pavimento marmoreo, rilucendo come un immobile oceano blu notte su cui si rifletteva il cielo stellato. In fondo alla sala sorgeva isolata una semplice e austera scrivania, seduta dietro alla quale attendeva una minuta figura, indistinguibile a causa del sole alle spalle. Ma Vaarik poteva distinguere più particolari di quanto avrebbe potuto fare l'occhio umano, grazie alla membrana che proteggeva i suoi occhi dalle radiazioni troppo intense.

Il viso dell'uomo che gli stava di fronte era rugoso come quello di una prugna, e anche se ora la sua epidermide tendeva all'azzurrino, probabilmente in gioventù doveva aver sfoggiato una bella tinta puffo intenso. Un paio di sottili antenne emergeva dalla canizie dei suoi capelli, un poco diradati per l'età. Vestiva senza riempirla una delle varie versioni dell'uniforme da ammiraglio in uso alla Flotta Stellare. Ma tutto ciò era come offuscato dall'aura di autorevolezza che tutta la figura sprigionava. Vaarik poteva percepirla quasi fisicamente, così come avrebbe potuto vedere un campo elettromagnetico con un tricorder.

Non si sentì intimidito. Incuriosito avrebbe descritto meglio la sua sensazione. Nel posto da dove veniva, l'uomo più potente era quello che aveva più agonizzatori al suo servizio. Il potere era quello della frusta, ed era la paura il motore delle azioni degli uomini. Ma quell'uomo ispirava autorità in maniera spontanea, un uomo a cui prima avresti obbedito e poi ti saresti chiesto il perché. Doveva essere stato un grande comandante, in gioventù. Ora il fulgore della giovinezza era svanito, ma era stata una senescenza di cuoio e rovere a prendere il suo posto. Quando la sua voce si fece sentire, era rauca e sicura come te la saresti aspettata.

"Vieni avanti. Accomodati."

Vaarik fece come gli era stato detto. Si avvicinò, facendo risuonare i suoi tacchi nell'aria immobile della sala. Si accostò alla semplice sedia che era da questa parte della scrivania, e si sedette silenziosamente su di essa. La schiena eretta, le mani in grembo, Vaarik era la personificazione della posatezza vulcaniana. Ma la cicatrice sul suo viso e l'ombra nei suoi occhi dicevano più di quanto sui suoi burrascosi trascorsi. Immobile come una lucertola sotto il sole, attese ciò che sarebbe successo. L'ammiraglio intanto era silenzioso, continuando a leggere un fascicolo su un piccolo PADD come se niente fosse. Ma lui non stava attendendo, solo temporeggiando. Era chiaro che il gioco lo conduceva lui, ma Vaarik ebbe la fugace impressione che ci fosse qualcosa che lo infastidiva, come un insetto ronzante attorno alle sue antenne.

Ma un'impressione non era un fatto, ed era logico accantonarla finché non avesse avuto una conferma.

"E così tu vorresti diventare un ufficiale della Flotta Stellare..." sussurrò il rettore, scuotendo il capo con dolorosa lentezza. "Credo sia il caso che noi facciamo due chiacchiere, signor Vaarik."

Il rettore sollevò lo sguardo e si protese in avanti, guardando per la prima volta il vulcaniano negli occhi. Vaarik si sentì in dovere di dire qualcosa. Doveva rispondere. Ma cosa? Quella dell'andoriano non era una domanda, ma un'affermazione. Doveva replicare? Raccontargli per l'ennesima, dolorosa volta la storia di come era capitato lì? Inaccettabile. Allora Vaarik trovò la risposta in un piccolo cassetto della sua mente.

"I vulcaniani non chiacchierano, signore."

Il rettore fu quasi tentato di sorridere. Ma non lo fece.

"Affermazione su cui non avrei nulla da ridire, in genere. Tu però non sei precisamente un vulcaniano qualunque, anzi, sei decisamente un caso inconsueto. Ma io non sono qui per giudicare la tua natura. Solo la tua attitudine a diventare un ufficiale della Flotta Stellare.

"Vi sono vari motivi perché una persona voglia iscriversi all'Accademia della Flotta. Alcuni lo fanno per spirito d'avventura, altri per curiosità. Alcuni vogliono vedere l'ultima frontiera, altri desiderano un posto di comando. I motivi possono essere tanti, ed è nostro compito valutare questi motivi. Poiché da essi che dipende che ufficiale verrà fuori di qui. Noi non siamo un esercito, non siamo un ateneo. Noi siamo la Flotta Stellare. Noi siamo la linfa che tiene unita la Federazione, il suo scheletro, il suo cuore. La sua mano tesa o la sua spada. Non ci possiamo permettere errori. Su di noi poggia la sicurezza di centinaia di miliardi di individui, in noi riposano le loro speranze per un futuro ancora migliore. E' una responsabilità tremenda, con cui ogni ufficiale deve imparare a convivere. E innanzitutto è necessario comprendere che, senza i giusti motivi, questa responsabilità risulta intollerabile. Poi verrà tutto il resto. La complessità delle lezioni, la difficoltà delle esercitazioni, lo stress degli esami, e anche le paranoie degli istruttori. Sarà il tempo a decidere se riuscirai a venire fuori da tutto questo. Ma adesso sarò io a decidere se hai le carte in regola per entrare qui dentro."

Il rettore si protese in avanti, socchiudendo gli occhi, come se non ci vedesse bene.

"Dimmi, tu hai un'opinione su quale debba essere il ruolo della Flotta Stellare nella Federazione?"

Vaarik esitò un secondo prima di rispondere. Si aspettava un attacco più diretto da parte del rettore, dopo la sua filippica iniziale, non un quesito teorico. La sua risposta fu perciò circospetta.

"Tecnicamente, la Flotta Stellare è un organismo autonomo alle dirette dipendenze del Consiglio della Federazione. Il suo scopo è nel contempo esplorativo e difensivo. Infatti è compito della Flotta sia..."

Il rettore interruppe le parole del giovane con un gesto. "Non voglio che tu mi ripeta la lezioncina letta sul libro. A momenti sono stato io a scriverlo! Quello che voglio sapere è cosa pensi tu veramente, non sentire un capitolo imparato a memoria."

A Vaarik la cosa non dispiacque. Non aveva avuto tempo di imparare a memoria l'intero capitolo.

"Se vuole la mia opinione, signore, la Flotta Stellare deve fare la Flotta Stellare. Non che sia mia intenzione perdermi in tautologie, ma nella storia di questa galassia, per come è conosciuta, non esiste un organismo che sia paragonabile, per complessità e scopi, alla Flotta. Non esistono termini di paragone. Come ha detto lei, signore, non è né un esercito né un ateneo. Vi sono moltissime teorie discordanti su come dovrebbe agire, e su alcune di esse mi sono informato. Alcuni pensano che dovrebbe avere scopi prettamente scientifici, come l'esplorazione e la ricerca, e criticano di essa gli aspetti più militaristici. Altri invece dormirebbero sonni più tranquilli se la Flotta vegliasse più intensamente sulle loro case invece di andare in giro a corre dietro ai neutrini. Altri ancora auspicano una scissione tra le due facce della Flotta, esasperando la lieve differenziazione già esistente tra navi da guerra e vascelli scientifici, dando vita a due organismi separati, collegati ma in grado di agire indipendentemente uno dall'altro. Altri sono convinti che le cose funzionino così come sono. Sinceramente, non ho dati per esprimermi su chi di loro detenga le argomentazioni più logiche. Io mi limito ai fatti. La Flotta Stellare funziona. Funziona perché l'unica cosa certa è che non si sa cosa troveremo una volta là fuori. Per questo la politica della Flotta è di far sì che i suoi uomini siano sempre pronta ad ogni eventualità. Una volta sola nello spazio, una nave stellare potrà trovarsi di fronte un'infinità di alternative. Potrebbe incontrare un nuovo fenomeno celeste, e allora le servirà un astrofisico. Potrebbe affrontare una nave nemica, e allora le servirà un tattico militare. Potrebbe incontrare qualunque cosa. E per sopravvivere, deve essere pronta a qualunque cosa."

"Discorso sensato, ragazzo. La tua opinione è quindi che la Flotta non debba limitarsi ad una sola attività, ma che debba portare avanti contemporaneamente i suoi molti scopi."

"Esatto. Solo mantenendo in vita tutte le sue sfaccettature, potrà assicurarsi la sopravvivenza. Missioni diplomatiche, scientifiche, belliche. Missioni di primo contatto e rappresaglie di guerra. Lei l'ha detto: la mano tesa della Federazione, o la sua spada. E la Federazione ha bisogno di tutte queste sfaccettature, poiché, semplicemente, senza la capillare presenza della Flotta Stellare, un'organizzazione come la Federazione non può esistere."

Vaarik diede per un attimo l'impressione di avere finito, tanto più che il rettore stava per prendere fiato e replicare. Ma il vulcaniano aveva ancora qualcosa da aggiungere.

"Ma senza i valori di una comunità come la Federazione, la Flotta Stellare non ha ragione di essere. Diventerebbe un'oscura metafora di se stessa, come la Flotta Imperiale che incrociava nel mio universo un secolo fa. E ciò che è successo nel mio universo dovrebbe essere di monito sufficiente per evitare di ricadere negli stessi identici errori.

Ma intere galassie si sono spente aspettando che la saggezza abitasse tra gli uomini..."

Il rettore restò un attimo silenzioso dopo che Vaarik ebbe finito di parlare. Poi annuì, le antenne azzurre che ondeggiavano sui capelli lattei.

"Bisogna ammettere che il tuo è un punto di vista particolare, su questo argomento. Non privo di una sua logica."

Le sopracciglia di Vaarik si alzarono lievemente.

Non vedo perché questo debba essere motivo di stupore, avrebbe voluto dire, ma dentro di sé sapeva già la risposta. In quel luogo, la sua origine sarebbe sempre stata fonte di dubbi su di lui e le sue convinzioni.

Potevano essere teneri per i suoi standard, ma non erano degli ingenui.

"Ma in definitiva", disse l'anziano andoriano, "a cosa saresti disposto a rinunciare, concretamente, per diventare un buon ufficiale di quella Flotta di cui tanto ti sei interessato?"

Vaarik ebbe quasi voglia di mettersi a ridere. Ancora una volta, Vaarik non si era aspettato una domanda del genere.

"A cosa sono disposto a rinunciare?" per un attimo il vulcaniano sembrò quasi sul punto di scoppiare a ridere. "Signore, io non ho nulla. Non ho una vita, non ho una famiglia, non ho un futuro. A cosa posso rinunciare che non mi sia già stato strappato via dal destino? Però se vuole posso dirle due cose."

E il vulcaniano enumerò sulla punta delle dita.

"Uno: il conseguimento del diploma di ufficiale al momento è per me molto importante. Non sottovaluti la portata di questa mia affermazione.

"Due: le difficoltà che voi mi prospettate non mi spaventano, poiché sono certo di avere le capacità per superarle. Ho superato di peggio, tanti anni fa. Pensate che la vostra Accademia sia dura, faticosa, stressante. Voi non sapete che cosa sia la fatica. Non ne avete idea. Non finché non sarete stati in un campo di lavoro dell'Alleanza. Sono sopravvissuto allora. E' piuttosto logico supporre che sopravvivrò anche adesso."

Vaarik non mutò la sua espressione mentre rievocava ciò che aveva passato sul devastato Vulcano dei suoi ricordi, ma si sarebbe quasi detto che nei suoi occhi fugacemente passasse l'ombra di una rabbia profonda, un dolore ancora vivo e pulsante.

Il rettore sembrò soddisfatto della risposta, ma non era possibile dire se perché era quella che si aspettava o se perché era quella giusta. Mentre il rettore temporeggiava nuovamente, soppesando il senso delle parole del vulcaniano, Vaarik ebbe qualche secondo per stupirsi lievemente del fatto che una parte di lui avrebbe voluto cosa pensasse l'andoriano. Poi repentinamente il rettore riprese il filo del discorso.

"Quindi, tu sei certo di avere i requisiti necessari all'Accademia della Flotta. Un po' presuntuoso, considerando che sono molti coloro che prima di te hanno fallito, ma questo non è necessariamente un male, in qualcuno che vuole diventare un ufficiale. Si ricordi solo, signor Vaarik che a volte la presunzione è una cattiva compagna di viaggio. Può portarti a sottovalutare le difficoltà, e questo è sempre pericoloso per sé e per il proprio equipaggio."

Vaarik inclinò lievemente la testa di lato, facendo dondolare lunga coda di capelli corvini. "Mi permetto di contraddirla, signore. Qui non si tratta di presunzione, ma di consapevolezza. Se dico che so di avere le capacità, questo significa semplicemente che so di avere le capacità. E' un dato di fatto."

Con manierismo vulcaniano, il rettore sollevò un sopracciglio candido, come a significare che era perplesso dall'eccessiva sicurezza ostentata dal giovane. A Vaarik non sfuggì il movimento.

"Lei sembra dubitarne, signore. Ma se ha letto il mio curriculum, saprà certamente che io ho già seguito un corso di studi paragonabile a quello impartito in Accademia, con risultati soddisfacenti. E le assicuro che la preparazione e la disciplina pretese nell'Istituto non erano di certo inferiori a quelle richieste qui. Inoltre, nel mio universo dovevo convivere con condizioni di vita a dir poco disagevoli, mentre qui sarò comodo e ben nutrito. Non vi sono ragioni perché il mio rendimento debba essere inferiore. Anzi, in teoria i miei risultati dovrebbero migliorare." Il vulcaniano incrociò le braccia al petto, assumendo un'aria vagamente seccata. "In effetti, considero tutto questo un semplice spreco di tempo. Io sono già in grado di servire a bordo di una nave stellare. L'ho già fatto, e posso farlo ancora. Tutto ciò di cui ho bisogno è una infarinatura sulle vostre procedure."

Ragionamento impeccabile, si disse Vaarik, consapevole che il rettore non avrebbe potuto trovare nulla da ridire su di esso. Ma si sbagliava di grosso.

"Non esserne così sicuro, giovanotto." Il rettore sembrava perfino irritato. "Anche se ritieni di essere già in possesso di una preparazione sufficiente, ti illudi se pensi che questo basti a far di te un ufficiale. Per lavorare a bordo di una nave stellare della Federazione non basta sapere come funzionano gli strumenti e come farli funzionare." Il rettore si permise un sogghigno. "Quella è la parte facile dell'addestramento. La parte difficile, quella di fronte alla quale non saprai come reagire, è la componente personale. Ti ritroverai magari a sapere la risposta esatta, ma a non sapere come dirla e quando. E tutte le tue "conoscenze" saranno del tutto inutili. Il nostro scopo non è insegnarti come si guida un'astronave o quando dire "sissignore" a un superiore. Noi ti insegneremo come sopravvivere in un gruppo di persone in cui ognuno è necessario agli altri. Ti assicuro che non è facile come tu credi, soprattutto quando si è da soli nello spazio, ad anni luce dall'ultimo porto che vi posso dare rifugio. E' riguardo a questo che le tue capacità verranno testate. E a quanto pare su questo argomento hai ancora molto da imparare," concluse il rettore scuotendo lievemente la testa.

"Sono qui per questo." Vaarik aveva parlato guardando il rettore negli occhi, e per un attimo vide distintamente qualcosa passare sul suo viso rugoso, alla sua inaspettata, ma perfettamente logica, affermazione. Se avesse dovuto fare un'ipotesi, il vulcaniano avrebbe puntato su "stupore", ma era stato troppo rapido perché potesse esserne sicuro. Il viso del rettore si ricompose nella dura espressione che aveva mantenuto fino a quel momento.

"Vedo che lo spirito giusto non ti manca," disse agitando una mano davanti al volto incartapecorito, "ma ricordati che questo non basta. Perché da questo momento in avanti, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto della tua vita sarai sempre sotto esame. Non sarà solo la tua preparazione a venire valutata, ma ogni aspetto del tuo comportamento. Ogni risvolto della tua personalità verrà vagliato, esaminato, sezionato con una cura che non ritieni nemmeno possibile. La tua capacità di relazionarti con gli altri, istruttori e cadetti. Il tuo controllo nelle situazioni di emergenza. La tua determinazione. Ogni giorno sarà un test. E ogni test sarà più duro del precedente. Ricorda, non ci possiamo permettere errori. Perciò è mio dovere farti un'ultima domanda."

L'ammiraglio, inspiegabilmente, sembrò quasi a disagio con il futuro cadetto.

"Vaarik, perché hai deciso di entrare all'Accademia?"

Il vulcaniano non rispose subito. Fissò per alcuni istanti le sue mani raccolte in grembo, come se non sapesse la risposta. Ma era chiaro che stava solo tentando di raccogliere la forza per far uscire le parole. Non era certo sua abitudine cadere preda dell'emozione. Come tutti i suoi simili, aveva appreso a padroneggiarle, ma non per questo ne era esente. Poi, come se la sua voce non fosse altro che una cupa eco, si diffusero nella sala quattro parole.

"Non mi resta altro."

L'andoriano resto sorpreso, no, sbalordito dalla ventata di dolore e amarezza che percepì nelle parole del giovane. Non era quello che si era aspettato. Lasciò scivolare la maschera di roccia che aveva indurito i suoi lineamenti fino ad allora, permettendo all'empatia di fluire. Provò l'insensato impulso di dire: mi dispiace.

Vaarik sollevò lo sguardo, con gli occhi limpidi e l'espressione neutra tipica della sua razza. Ma non ci sarebbe voluto un betazoide per dire che il suo dolore non era sopito, solo rimandato.

"Posso esserle ancora d'aiuto, signore?", domandò con voce piatta.

"Credo di no, signor Vaarik. Può andare.", fu la formale risposta, detta da un rettore che aveva riguadagnato perfettamente la sua consueta espressione accigliata.

Vaarik si alzò dalla sedia privo di qualunque fretta, ma senza tergiversare.

"Grazie, signore," disse sollevando una mano nel saluto vulcaniano, e quando il rettore glielo restituì girò sui tacchi e si incamminò verso la porta che si trovava dall'altra parte della luminosa sala. Il rettore seguì pensieroso il suo allontanarsi. Se avesse contato i suoi passi quando era arrivato, non si sarebbe stupito nello scoprire che il loro numero non era variato di un'unità. Poi scomparve dietro la porta, che si richiuse alle sue spalle con un sibilo lieve.

Il rettore si permise di restare quasi un intero minuto a riflettere sull'incontro che si era appena concluso, le mani azzurre congiunte sopra la scrivania scura.

In attesa.

Poi, lentamente, la sagoma di una porta si delineò come per magia sulla parete alla sua destra. Quando questa fu perfettamente visibile, scivolò silenziosamente di lato, una figura avvolta in un abito bruno comparve dietro di essa, i lineamenti oscurati dalla luce della stanza segreta alle sue spalle.

Il rettore si rivolse ad essa come se finalmente avesse potuto dare libero sfogo alla pressione che si era accumulata dentro di lui.

"C'era davvero bisogno di andarci giù così pesante?" disse aspramente, gesticolando per dare risalto alle sue parole. "Dopotutto, non deve essere facile per lui essere qui."

"Ne siamo tutti consapevoli," disse con voce piatta la figura, mantenendo un tono ragionevole. "Ma lei sa bene che non possiamo permetterci errori. La posta in gioco è semplicemente troppo alta."

Il rettore annuì vistosamente, ancora contrariato, ma consapevole che l'altro aveva ragione. "Lo so, lo so. Lei e gli altri membri del progetto me l'avete ripetuto fin troppe volte. Ma non posso fare a meno di pensare che quel ragazzo ne ha passate di cotte e di crude, e il nostro lavoro dovrebbe essere di rendergli la vita più semplice, non più difficile. Non mi è piaciuto essere così duro con lui." Si permise un sospiro. "Non mi è piaciuto per niente."

"Ma l'ha fatto, e in maniera soddisfacente."

La figura avanzò lentamente, portandosi alla vasta vetrata che illuminava la sala. Appoggiò una mano sul cristallo, avvertendone il freddo contatto. I suoi occhi fissavano il sole che si alzava silenzioso, senza dare l'impressione di rimanerne abbagliati.

Il rettore fece ruotare la poltrona, in modo da trovarsi di fronte all'ampio mantello bruno. "Non che i membri del progetto mi avessero dato molte possibilità, del resto...", sogghignò amaramente, intrecciando le mani rugose davanti a sé.

La figura si voltò, sollevando lentamente un sopracciglio.

La risposta fu priva di qualunque inflessione.

"Come ho avuto modo di osservare più volte, vi sono sempre delle possibilità."

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