LO SPECCHIO INFRANTO

Discontinuità di Cassandra, Settore 314.
Spazio dell'Alleanza.

La nave sfrecciava follemente nel vuoto dello spazio, spingendo i motori fino al limite delle loro capacità strutturali. Sfortunatamente, quel tipo di vascello non era stato costruito per sopportare velocità così elevate troppo a lungo, e i propulsori a curvatura gemevano sotto lo sforzo a cui erano costretti. Ma in quel momento, ogni secondo in più che riuscivano a reggere era un secondo in più strappato al loro destino.

I due occupanti, una coppia di vulcaniani dall'aspetto provato, tenevano gli occhi incollati ai controlli, cercando di sondare lo spazio circostante per capire se qualcuno era riuscito a seguirli. Per il momento la zona sembrava libera, ma sapevano entrambi che un vascello, scampato in qualche modo all'inferno di fiamme e distruzione della base stellare dalla quale erano fuggiti, sarebbe potuto comparire dietro di loro da un momento all'altro.

"Situazione dei motori?" domandò uno di loro, un uomo dagli zigomi alti e gli occhi nerissimi sotto la frangia di capelli corvini.

"Per ora tengono, ma non so per quanto ancora potranno reggere lo sforzo." L'altro occupante era una donna dall'aspetto serio, con grandi occhi nocciola e un'aria di competenza attorno a sé. "Il campo di integrità del nucleo si sta rapidamente deteriorando."

"Questa zona di spazio è particolarmente ricca di disturbi subspaziali dovuti delle tempeste ioniche che la contraddistinguono. Forse potrà coprire le nostre emissioni ancora per un po'."

"Io non ci conterei più di tanto. A questo punto la notizia della distruzione della base stellare avrà già raggiunto ogni nave presente nel settore, ed c'è una probabilità del 97.5% che una di esse entri nel nostro raggio sensorio entro le prossime 0.21 ore."

L'altro gli lanciò uno sguardo sollevando un sopracciglio appuntito.

"Nella migliore delle ipotesi," concluse la donna, sapendo che l'altro aveva ragione.

In quel momento, un oggetto entrò nello schermo radar. "I sensori registrano una nave in rotta parallela," disse il vulcaniano.

"Configurazione e distanza?"

"Incrociatore da battaglia klingon, classe Negh'Var. Distanza: meno di tre minuti alla velocità attuale." Poi aggiunse come per giustificarsi, "I disturbi affliggono anche i sensori della nostra nave."

"Aumentare l'iniezione al plasma del 120%. Forse non servirà a molto, ma ci darà qualche secondo di vantaggio."

La sagoma incombente dell'incrociatore si avvicinò alle loro spalle, minacciosa come una nube temporalesca. Un lieve trillo echeggiò nella silenziosa cabina di pilotaggio.

"L'incrociatore klingon ci sta chiamando."

"Allora direi che faremo meglio a rispondere. Sullo schermo." Immediatamente, sul visore della nave apparve il massiccio volto di una vecchia conoscenza.

"Reggente Worf," disse l'uomo, non riuscendo a nascondere una nota ironica nella voce. "Sono lieto che la sua nave sia uscita indenne dalla distruzione della base stellare."

"Se fossi in lei non ne sarei tanto lieto, dottor Vaarik," ringhiò il klingon, "perché questa nave è l'ultima cosa che vedrà prima di morire. Ora se lei abbasserà i suoi scudi e ci consegnerà ciò che è nostro, forse saremo sufficientemente magnanimi da non fare alcun male a lei e alla sua compagna. Ma sinceramente," aggiunse il reggente snudando i denti in un sorriso crudele, "spero vivamente che non lo faccia."

"La sua offerta è estremamente allettante, reggente," considerò il vulcaniano. "Tuttavia la logica suggerirebbe di vagliare prima qualche ipotesi alternativa."

Questo era esattamente quello che Worf non voleva sentire. "Non c'è nessuna alternativa, vulcaniano. Dacci il dispositivo immediatamente, o vi distruggeremo."

"O, perlomeno, potete tentare di farlo," fu l'asciutta risposta.

Il viso del klingon si rabbuiò, poi latrò rabbiosamente un ordine in hol e la comunicazione si interruppe.

"Pensi che abbia davvero intenzione di distruggere la nave?" chiese la donna. "Così facendo distruggerebbe anche il dispositivo."

"Worf è un klingon. Se non può averlo lui, allora non l'avrà nessun altro."

In quel momento un allarme automatico si mise in funzione. "Attenzione," disse la voce tranquilla del computer. "Siluri in arrivo."

Il computer fece appena in tempo a terminare la frase che la nave vibrò violentemente sotto l'impatto della prima salva lanciata dall'incrociatore.

"A volte è estremamente irritante avere sempre ragione," commentò l'uomo rivolgendosi a nessuno in particolare. Poi le sue mani volarono sulla consolle come quelle di un pianista. "Faremo meglio ad andare via di qui. E in fretta, anche."

La nave virò bruscamente di bordo, cercando di fornire il minore bersaglio possibile agli inseguitori.

"Rapporto sui danni."

"Scudi scesi al sessanta percento. Danni minori a tutti i sistemi secondari."

Poi un secondo, energico scossone. "Ci stanno ancora inseguendo. E' estremamente improbabile che la nave possa reggere ad un attacco prolungato."

"Concordo pienamente. Dobbiamo trovare una soluzione alternativa allo scontro."

"Facile a dirsi. Ma i dati in mio possesso indicano che tentare di trattare con un klingon in manifesta superiorità bellica è un esercizio in futilità."

La donna quasi sorrise all'affermazione del suo compagno. "Non possiamo batterli in velocità, e nei dintorni non ci sono luoghi in cui potremmo nasconderci," disse poi, alla disperata ricerca di una soluzione. Poi le venne un'idea. "Potremmo attivare il dispositivo."

Un significativo, breve silenzio scese sulla piccola cabina di pilotaggio.

"E' un'alternativa rischiosa. Il dispositivo non è mai stato testato. Con la nave in queste condizioni, potremmo vaporizzarci all'istante."

Quando la terza salva arrivò, un pannello esplose in mille scintille, inondando la cabina del fumo acre dei circuiti bruciati.

"Ancora qualche minuto, ed è altamente probabile che saremo vaporizzati comunque," rispose la donna. Poi lanciò uno sguardo in direzione del suo compagno, facendo scomparire un sopracciglio nella folta frangia leggermente spettinata "E poi, da quando in qua dubiti della validità del mio lavoro?"

"Procedura di pre-ignizione attivata."

L'incrociatore intanto stava guadagnando terreno alle spalle della nave in fuga. La sua sagoma da uccello predatore incombeva sull'altro vascello, sempre più vicina. Mortalmente vicina. La sua bocca da fuoco di prua si illuminò, pronta a scagliare una nuova bordata.

"Matrice della memoria tampone inizializzata. Blocchi di sicurezza rimossi."

"Iniettori di flusso operativi al 97%. Tutti i sistemi: go."

"Quindici secondi al salto. Dieci. Nove..."

"Vaarik..."

L'uomo si voltò verso la sua compagna. I suoi occhi scuri lo stavano osservando, e il vulcaniano sentì che in quello in sguardo era condensato tutto quello che per lui aveva senso nell'universo. La sua mano si allungò fino a sfiorare le due dita protese della sua compagna e attraverso il legame avvertì, con l'impatto di una mareggiata, i pensieri che la sua compagna voleva trasmettergli.

Seppe tutto ciò che c'era da sapere.

Non vi fu più nulla da dire.

"Cinque secondi al salto. Lunga vita e prosperità, moglie mia."

Due sfere gemelle di furia incandescente eruppero dal tubo lanciasiluri dell'incrociatore, puntando impietosamente verso la piccola nave, sfrecciando nello spazio a velocità terrificante.

Ma non raggiunsero mai il loro obbiettivo. La nave accelerò, deformandosi come se fosse fatta di gomma, poi venne proiettata in avanti e scomparve in un lampo di luce accecante, lasciando dietro di sé solo tre strisce infuocate. L'onda d'urto della dislocazione si propagò nello spazio, spazzando via i siluri, poi abbattendosi sulla nave klingon, facendola rollare vistosamente, e infine andando a spegnendosi nelle buie profondità dello spazio. Cessata la vibrazione, sulla plancia dell'incrociatore scoppiò un'altra bufera.

"Incompetenti!" sbraitava il reggente, scaricando la sua furia sui suoi sottoposti. "Trovate quella nave. Trovatela, ho detto!"

"Non vi sono tracce, mio signore. E' semplicemente svanita nel nulla."

Il Reggente Worf agguantò per una spalla il giovane guerriero seduto alla consolle dei sensori, facendolo girare con irruenza su se stesso. Avvicinò il proprio volto a quello dell'ufficiale, mentre la furia emanava da lui come una cortina gassosa.

"Ti consiglio di trovare quella nave. Per il tuo bene."

"Lascia stare quel ragazzo, Worf." La voce inaspettata di Gul Dukat fece voltare il reggente, che rivolse la sua ira contro l'ufficiale cardassiano.

"Tu non puoi darmi ordini sulla mia plancia, Dukat!" ruggì il klingon, omettendo il titolo come palese mancanza di rispetto.

"Io non ho intenzione di darti alcun ordine, reggente," rispose il Cardassiano pronunciando quel nome con disprezzo. "Ma non vedo il motivo per cui devi riversare la tua frustrazione su quel povero ragazzo spaventato."

"Non capisci, Dukat? E' assolutamente imperativo che il dispositivo venga recuperato. Senza di esso i nostri piani sono inutili. Dobbiamo ritrovare quella dannata nave!"

Gul Dukat scosse la testa, incredulo di fronte al poco senno mostrato dal comandante del vascello. "Sei tu che non capisci, ottuso d'un klingon! Quella nave se n'è andata. An-da-ta. Almeno questo riesci a capirlo? Non è più qui. Non possiamo più recuperarla. L'unica cosa che possiamo fare, ormai, è sperare che qualcosa sia andato storto e che ora i loro rottami stiano roteando nello spazio, dall'altra parte. Di più non possiamo fare."

Worf si avvicinò al comandante della più grande flotta di Cardassia, ergendosi in tutta la sua statura. "Questo non piacerà per nulla all'Alto Comando. Avevamo assicurato dei risultati, e se non potremo fornirli, la nostra vita potrebbe diventare molto, molto dura."

Dukat sapeva riconoscere la verità perfino quando era nelle parole di un klingon. "Su questo hai ragione. L'Alto Comando non è tenero con chi commette degli errori. Ma purtroppo, insieme a quella dannata nave se n'è andato il dispositivo, i progetti, e l'unica persona in grado di portare avanti il progetto. Il nostro sbaglio più grande è stato affidare l'intero progetto ad una sola persona, una vulcaniana!, e ora, senza di essa, non abbiamo nulla. Assolutamente nulla." Per la prima volta, l'eco di una rabbia appena trattenuta ebbe modo di trasparire dalle parole del cardassiano.

Fu invece un Worf assolutamente furibondo a dare voce ai pensieri di entrambi. "Ma quei due me la pagheranno. In un modo o nell'altro, in un universo o nell'altro, io li prenderò e quando saranno nelle mie mani, avrò personalmente il piacere di ucciderli entrambi. Lentamente. E senza onore."

"E con il dispositivo di nuovo in nostro possesso," concluse Dukat mentre gli occhi gli scintillavano avidamente, "entrambi gli universi si inchineranno al potere dell'Alleanza!"

Intanto, ad un universo di distanza...

Una nuvola di fumo acre oscurava la piccola plancia di pilotaggio. Le fioche luci di emergenza rossastre riuscivano a malapena a penetrare la densa coltre che incombeva sui due corpi, distesi scompostamente sul pavimento. Alcune spie brillavano sui pannelli della strumentazione, e gli allarmi frinivano mestamente. All'improvviso uno dei due corpi si mosse, gemendo lievemente. La figura tentò di issarsi a sedere, ma fu interrotta da una serie di violenti colpi di tosse. Ripresosi, si trascinò a sedere sulla poltroncina del pilota, gettando un rapidissimo sguardo sulla consolle e assicurandosi che il supporto vitale fosse operativo e l'integrità strutturale non fosse compromessa.

Nessuna falla nello scafo, nessuna perdita radioattiva. Bene.

Poi l'uomo rivolse immediatamente la sua attenzione all'altra figura sdraiata nell'oscurità. Le si inginocchiò accanto, sollevandole delicatamente il capo.

"T'Eia..." la chiamò gentilmente.

Nessuna risposta.

Chiamò ancora, più forte questa volta.

Di nuovo l'unica risposta che ottenne furono i lievi cicalecci dei circuiti. L'uomo posò con delicatezza le punte delle dita sul volto della donna, in modo da poter sentire la sua mente.

Era ancora viva, ma non avrebbe resistito a lungo se non avesse ricevuto cure adeguate nel più breve tempo possibile.

Ora era immersa nel profondo stato della trance risanatrice, una misura resa necessaria dalle numerose ferite interne. Muovendosi con estrema delicatezza, poggiò nuovamente a terra il capo della sua sposa, facendo in modo di non interrompere la trance. In quel momento non sarebbe stato logico tentare di trasportarla, e una manovra azzardata non avrebbe potuto fare altro che aggravare il suo stato. L'uomo corse a prendere il kit medico da un pannello posto nella paratia laterale, poi estrasse un hypospray e ne poggiò l'emettitore contro il collo sottile di lei, iniettandole il contenuto della fiala. Era uno stimolante, e l'avrebbe aiutata a resistere più a lungo. Ma lui non era un medico, ed era di quello che lei aveva bisogno. Di un medico e di tutte le attrezzature di una vera infermeria.

Con una sicurezza data unicamente dalla disperazione, seppe che in qualche modo sarebbe riuscito a trovare ciò di cui lei aveva bisogno.

Si guardò intorno, prendendosi un attimo per riflettere. Il primo passo era trovare aiuto. Si avvicinò alla radio subspaziale, e con poche modifiche la regolò affinché trasmettesse su tutte le frequenze. Secondo logica, se si fossero ancora trovati nel loro universo, la nave del reggente li avrebbe già ridotti ad un ammasso di rottami incandescenti. Di conseguenza, dovevano trovarsi da qualche altra parte. Il più, era scoprire dove. Lanciò un SOS.

"Attenzione. A chiunque possa sentirmi. Qui è il vascello Spada di Surak. Emergenza. Ripeto: emergenza. Siamo in avaria. Necessitiamo di soccorso immediato. Ripeto: soccorso immediato. C'è nessuno in ascolto?"

Solo statica.

"Attenzione. A chiunque possa sentirmi, Qui è il vascello Spada di Surak. Emergenza. Ripeto: emergenza. Siamo in avaria. Necessitiamo di soccorso immediato. Ripeto: soccorso immediato. C'è nessuno in ascolto?"

Dopo alcuni secondi di statica, una voce femminile eruppe dall'altoparlante. "Spada di Surak, parla il capitano Graam della USS Nemesis. Vi possiamo essere d'aiuto?"

"Affermativo, USS Nemesis. Necessitiamo di soccorso immediato. La maggior parte dei sistemi è fuori uso. Abbiamo un ferito grave. Qualunque tipo di aiuto possiate fornirci, sarà il benvenuto."

"Tempo previsto di intercettazione: sette minuti. Resistete, Spada di Surak. Graam, chiude."

"Fate presto..." non poté fare a meno di mormorare, anche se non c'era più nessuno ad ascoltarlo. "Fate presto..."

USS Nemesis, NCC 75310, Classe Sovereign.
Sei minuti dopo...

"Capitano, abbiamo la nave in avaria entro il raggio visivo."

"Sullo schermo."

La Spada di Surak appariva come un vascello slanciato, grande pressappoco come un runabout, ma con tre gondole di grandi dimensioni attaccate con eleganza alla fusoliera. Andava alla deriva nello spazio, quasi totalmente priva di energia.

"Tenente Wak Inyan, dai suoi dati risulta una nave come quella che risponde al nome di Spada di Surak?" chiese il capitano, rendendo esplicito quanto ritenesse improbabile un nome del genere.

I capelli della bruna archivista danzarono, mentre scuoteva perplessa la testa. "Negativo, capitano. E non risulta nemmeno con un altro nome. La configurazione e le emissioni energetiche non hanno precedenti."

Ad una prima occhiata, la nave sembrava decisamente mal ridotta, come se fosse appena uscita da un violento scontro a fuoco.

"Hmm. Cosa ne pensa, comandante?," chiese il capitano.

L'imprimana alla consolle scientifica portò indietro una ciocca di capelli bianco-argento. "Non saprei, capitano. Quello che è certo è che hanno passato un brutto quarto d'ora. Rilevo danni estesi causati dall'esplosione di siluri fotonici, ma in questo settore non ci sono navi nel raggio di parecchi parsec... Oh, santa talpa!"

Buona parte della plancia si voltò verso l'ufficiale scientifico, udendo l'esclamazione che l'imprimana riservava per le grandi occasioni.

"Capitano, rilevo tracce di uno sfasamento quantico su tutto lo scafo della nave, come se avesse appena subito gli effetti di un qualche sorta di... anomalia dimensionale."

Il capitano Hollie Graam fece un paio di pensierosi passi verso lo schermo visore, come per studiare più da vicino la nave misteriosa. "La logica cosa suggerisce, consigliere?"

Il vulcaniano, seduto sulla poltroncina alla sinistra del capitano, si lisciò la barba curata con aria meditabonda. "Purtroppo la logica non è di nessun aiuto in questo caso, capitano. Questo fatto dell'anomalia dimensionale impone cautela, ma per il momento le uniche cose certe sono un SOS e una nave in grave avaria. L'unica scelta logica è proseguire, pur avendo cura di esercitare il massimo della prudenza."

"Molto bene. La decisione è stata presa." Il capitano si mise a distribuire ordini con risolutezza. "Sala teletrasporto, prepararsi a portare a bordo gli occupanti appena a portata di teletrasporto. Voglio che vengano mandati direttamente in infermeria." Poi alzò la testa, come se si stesse rivolgendo all'aria "Ha sentito, dottor Hernandez?"

Dall'interfono scaturì una voce dal lieve accento messicano "Perfiettamente, capitano. Quaggiù saremo pronti. Infermeria, chiude."

Infine si rivolse al suo capo della sicurezza, che stava già prendendo fiato per parlare. "Prima che apra la bocca, comandante May, voglio che metta una squadra di sicurezza fuori dalla porta dell'infermeria. Non si sa mai."

Gli occhi dell'inuit si socchiusero, compiaciuti. "Lo consideri fatto, capitano." E scomparve nel turboascensore.

"Capitano, la nave è entrata ora nel raggio del teletrasporto."

"Bene. Sala teletrasporto, energia." Poi rivolse un sorriso al suo primo ufficiale. "Signor Stevenson, a lei la plancia. Penso sia mio dovere accogliere i nostri ospiti di persona."

E così dicendo, il capitano olografico scomparve dalla plancia.

Riapparì, dopo un istante, all'interno dell'infermeria.

L'attenzione di tutto lo staff medico era rivolta verso le due figure che erano apparse pochi istanti prima sotto i loro occhi. Il capitano vide due vulcaniani, il cui aspetto malconcio appariva stranamente in contrasto con la severità dei tratti del viso. Entrambi indossavano una strana tuta da lavoro grigia, tanto consumata che in alcuni punti il tessuto era liso e strappato.

La donna, priva di sensi, esibiva lineamenti esotici tipicamente vulcaniani, con occhi ovali sotto la frangia di capelli scuri. Il viso dell'uomo, al contrario, era insolitamente incorniciato da un sottile pizzo e da lunghi capelli neri raccolti in una severa coda di cavallo.

In quel momento, il dottore stava esaminando rapidamente la vulcaniana con uno scanner medico. "Ferite interne. Pancreas, milza, apparato digerente. Tre costole rotte. Una ha perforato il pneuma."

Dalla sua espressione non si presagiva nulla di buono.

Poi l'ufficiale medico si rivolse all'uomo, continuando però a far danzare la sua sonda diagnostica. "Se può saper che cosa diamine è successo?"

Il vulcaniano dallo strano aspetto rispose con voce calma e profonda, ma senza staccare gli occhi dal viso della donna. Le sue parole sembravano però prive di senso.

"Stavamo tentando di fuggire da un campo di lavoro quando siamo stati attaccati da un vascello da guerra dell'Alleanza Klingon-Cardassiana. Grazie ad un dispositivo per il trasferimento dimensionale da noi trafugato siamo riusciti a fuggire proiettandoci nel vostro universo. Ma la nave era già danneggiata e durante il salto qualcosa non deve essere andato secondo le previsioni."

Mentre i dottori continuavano ad affannarsi intorno alla donna, chiedendosi da quando in qua i Klingon se la facevano coi Carda, il capitano fece un passo avanti, alzando la mano nel tradizionale saluto

"Lunga vita e prosperità. Sono il capitano Hollie Graam. Lei è?..."

"Vaarik...!"

Il nome era venuto non dall'uomo, ma da un gemito della sua sposa. Distesa sul lettino diagnostico, la donna aveva proteso verso di lui una mano, cercando di toccare la sua.

"Sono qui, moglie mia," disse lui, non degnando nemmeno di uno sguardo il capitano e unendo la sua mano a quella della donna.

Lei sorrise impercettibilmente, avvertendo il contatto.

Siamo riusciti a portare via il mio dispositivo? chiese la voce della sua mente risuonando in quella del suo sposo.

Sì, T'Eia. Ci siamo riusciti. L'Alleanza non avrà mai il dispositivo. Non riuscirà mai ad impossessarsi anche di questa galassia.

La sua mente sorrise, sentendo quelle parole senza suono. Bene. Allora la nostra missione puo' considerarsi un successo.

T'Eia, tu...

Shhh... lo ammonì amorevolmente la voce di lei. Ho detto che questa missione è da considerarsi un successo. Il sorriso della sua anima si fece più radioso nonostante il dolore Oppure vuoi forse contraddire T'Eia, figlia di Solok, discendente del casato del Supremo Spock?

No, non oserei mai... disse la mente del vulcaniano, rispondendo al sorriso ma senza riuscire a parteciparvi.

Le voci dei dottori, ovattate alle loro menti unite nel legame, erano sempre più preoccupate "Le condizioni sono critiche. Dobbiamo stabilizzare il..."

Non essere triste, Vaarik. So che non riusciranno a salvarmi, e lo sai anche tu. Sarebbe illogico non accettare questo fatto. Ma io non sono triste. Sono riuscita a evitare che questo universo cadesse nelle mani dell'Alleanza, a evitare che la mia invenzione venisse usata per fare del male. Io non sono triste. Il bene dei molti conta più di quello dei pochi.

O di uno solo, continuò lui, citando le parole di Surak. Lo so. Ma questo ormai non mi basta più. Non avremmo dovuto intraprendere questa missione. Non avrei dovuto permetterti di portare avanti il tuo piano. Ho acconsentito solo perché avevo giurato di proteggerti, e ho fallito nel mio compito. Il vulcaniano serrò le dita attorno a quelle della sua sposa. Io non voglio perderti, T'Eia. So che questo non è logico, ma... Non voglio che tu mi lasci, T'Eia. Non mi lasciare.

Come se fosse finalmente riuscito a rompere le barriere che il vulcaniano aveva eretto, il dolore inondò la sua mente, bruciando tutto ciò che trovava sul suo cammino.

Isolato da tutta la realtà circostante, avvertì appena la voce del medico capo che parlava con il capitano "E' solo una questione di tiempo. Non posso fare più nulla."

Lacrime roventi minacciarono di erompere dai suoi occhi tenacemente chiusi.

Tu non mi perderai, marito mio. Io saro' sempre con te. Poi la voce della sua mente cominciò a recitare le antiche parole. Così come hanno fatto coloro che furono, affinché ciò che erano non vada perduto, io affido a te il mio spirito, mio amato, per custodirlo nella tua mente e nel tuo cuore, cosicché possa riunirsi un giorno alle anime dei miei antenati,...-

Lentamente la mano di TEia condusse quella di Vaarik al proprio viso, mentre allungava l'altra a sfiorare la pelle del volto del suo sposo.

"Ricorda."

La parola venne pronunciata nella lingua del loro pianeta natale, una lingua ricca e dolce, la più bella che avesse mai sentito.

Non mi lasciare, disse lui guardandola negli occhi.

Non ti lascerò, rispose lei sorridendo.

Poi i due spiriti furono uno. E non vi furono più parole.

* * *

A poco a poco Vaarik riemerse dalla fusione mentale, riprendendo coscienza di ciò che gli era intorno. L'infermeria, i dottori, tutta quella gente sconosciuta. Teneva ancora la mano della sua sposa sul suo viso, ma non vi era traccia di calore in quel tocco.

La sua anima non dimorava più in quel corpo.

Lentamente si raddrizzo sul busto, assumendo un'espressione tenacemente stoica. Sollevò la mano, atteggiandola nel consueto gesto di saluto.

Ma questa volta era per un addio.

"Lunga vita e prosperità, T'Eia, figlia di Solok. Possa la tua anima trovare la pace e la tua mente il riposo."

Le poche persone presenti in infermeria osservarono in rispettoso silenzio il semplice rito funebre. Poi Vaarik si rivolse al capitano del vascello, una donna alta avvolta in una uniforme nera e grigia. La sua voce fu poco più di un sussurro.

"Le sarei grato, capitano Graam, se potesse sistemare il corpo in un feretro adeguato, e pensare alle formalità inerenti l'inumazione." Il vulcaniano non riuscì a guardare il corpo sul lettino mentre pronunciava quelle parole. "Penso le sarebbe piaciuto riposare sul pianeta Vulcano. Il vostro Vulcano. Ha sempre desiderato vederlo. Quando era giovane, aveva sentito dai suoi familiari i racconti di quel mondo dove la logica conviveva con la pace..." Si concesse un mezzo sorriso amaro. "Spero che risulti all'altezza delle aspettative," concluse poi.

"Sarà mia premura," dichiarò sollecito il capitano.

Il vulcaniano abassò gli occhi come se fosse enormemente stanco, e fece per muovere un passo verso il lettino dove giaceva il corpo esanime della sua amata sposa.

"Ma prima ci sono un paio di domande a cui mi piacerebbe che rispondesse," aggiunse il capitano. "Vi sono ancora degli aspetti della vicenda che non mi sono del tutto chiari."

L'uomo si irrigidì a metà del movimento. Rimase fermo un istante, come congelato, con le spalle voltate alla gente che riempiva l'infermeria, mentre il suo autocontrollo faceva di tutto per non esplodere. Lentamente, molto lentamente, si voltò a guardare in viso l'ufficiale della Federazione.

I suoi occhi fissarono quelli del capitano. Una fornace di ghiaccio nero ardeva in quegli occhi, una furia forgiata dai retaggi ancestrali di una razza selvaggia e violenta, una furia controllata da un mente fredda e determinata. Se fosse stato un semplice umano, e non un elaborato programma dotato di autocoscienza, il capitano avrebbe potuto immaginare di vedere un enorme muro di fiamme ardere dietro le spalle del vulcaniano.

Una voce gelida e profonda riempì la sala, aleggiando come una nube temporalesca.

"Ora le spiego io che cosa è successo, terrestre," disse il vulcaniano con disprezzo, avanzando di un passo verso l'ufficiale. "E' successo che io sono in credito con questo universo. E' successo che per proteggere questo posto lei è morta. E successo che a causa vostra che io ho perso l'unica persona che amavo. Io oggi ho perso la mia anima. Mi è stata strappata via. E nessuno potrà ridarmela indietro!" I suoi occhi brillavano di una luce sinistra, una luce che la donna non aveva mai visto prima. "Vi auguro che le vostre anime valgano quello che è successo."

Poi si voltò dall'altra parte, avvicinandosi al lettino dove sul corpo era stato deposto un lenzuolo in segno di rispetto. Quando parlò, vi era un lieve tremore nella sua voce. "E ora, se mi vuole scusare, desidererei meditare. Da solo. Avremo tempo in seguito di pensare alle sue... domande."

Ad un cenno del capitano, i dottori e gli infermieri lasciarono la camera. Il vulcaniano rimase solo, anche se probabilmente una squadra di sicurezza aspettava fuori dalla porta, pronta ad ogni movimento sospetto.

Silenziosamente Vaarik si sedette al fianco della donna che era stata la sua unica ragione di vita per più di dieci anni, la donna che, ora non aveva pudore di pensarlo, aveva amato più di ogni altra cosa nell'universo.

O per meglio dire negli universi, vista la situazione.

Sollevò delicatamente il lenzuolo, scoprendone il viso delicato. Il viso di T'Eia era sereno, e se non fosse stato per le macchie del fumo sul suo volto, Vaarik avrebbe potuto pensare che fosse semplicemente addormentata, così come l'aveva vista centinaia di volte durante la loro vita insieme. Ne studiò i lineamenti, le eleganti orecchie appuntite, le labbra delicate, quegli occhi ovali ormai chiusi per sempre.

Non si chinò sfiorare quelle labbra fredde con un bacio d'addio, non protese una mano a carezzare una guancia che non poteva sentire il suo tocco.

Sarebbe stato contro la sua natura.

Si limitò a ridistendere il lenzuolo, con delicatezza, con distacco, come se non fosse il sudario della sua sposa.

Chiuse gli occhi, mentre il rimbombo del sangue dentro la usa testa si faceva sempre più insistente. I suoi pugni si strinsero, sempre più forte, sempre più forte, finché le unghie non morsero la carne e i palmi delle sue mani si macchiarono di verde. Il rombo aumentò sempre più, incessantemente, espandendosi come una mareggiata invernale, spazzando via tutto quello in cui Vaarik aveva sempre creduto, la sua logica, la sua razionalità, il suo autocontrollo, finché, veloce come una nave che passa a curvatura, sferrò un pugno violentissimo contro la strumentazione sovrastante il lettino, ancora attiva alla vana ricerca di segnali vitali. Infranse la consolle, gli strumenti, e qualche osso della mano, facendo volare da tutte le parti le schegge di tripolimero.

Il dolore era una benedizione. Aveva bisogno di sentire dolore, bisogno di sentirsi ancora vivo, prima che la disperazione facesse presa su di lui in maniera incontrollabile. Guardò con soddisfazione crudele il pugno livido e sporco di sangue, concentrandosi sulla ragnatela di nervi e di tendini che avvampavano come strisce di fuoco attraverso la sua carne.

Il suo viso era una maschera di pietra.

Ma il suo cuore stava gridando.

E avrebbe continuato a gridare finché l'ultima stella non si fosse spenta, oppresso dal dolore e dalla disperazione come dal peso di un intera galassia.

Poi, leggera e improvvisa come una brezza del deserto, la sentì.

Un'eco, lontana e distante, proveniente dagli abissi della sua mente. Ma poteva distinguerla chiaramente.

Era una voce. La sua voce.

E diceva, semplicemente:

Io Non Ti Lascero'.

FINE CAPITOLO