LA RACCOLTA DELL’ACQUA NELLA PROVINCIA DI TRIESTE



 
 


Il problema dell’acqua

Trieste è una città che, nella sua storia millenaria, ha dovuto sempre confrontarsi con un grave e complicato problema: l’approvvigionamento idrico.
La particolare conformazione geologica del territorio, infatti, comporta la quasi totale mancanza di fiumi e torrenti che scorrono in superficie cd i pochi corsi d’acqua esistenti sono distanti vari chilometri. Per questo motivo, durante l’epoca romana, furono realizzati ben tre acquedotti per fornire d’acqua potabile la città di Tergeste ed il suo porto. Poi, nel VI secolo, queste condutture vennero progressivamente abbandonate e gli abitanti dovettero adeguarsi all’uso di pozzi e cisterne. Tale situazione si protrasse per lunghi secoli, finché l’imperatrice Maria Teresa d’Austria fece realizzare un nuovo acquedotto, ricalcando il percorso di uno di quelli precedentemente costruiti dai romani (acquedotto Teresiano - 1749/51). Anche questa realizzazione, pero, si rivelò ben presto insufficiente ed i pozzi e le cisterne continuarono ad essere di fondamentale importanza, in attesa di nuove soluzioni. Alla metà del 1800 iniziarono i   lavori per l’allacciamento delle sorgenti di Aurisina.

I manufatti idraulici della città
Esplorazione delle sorgenti
I pozzi
I fontanoni
Le cisterne
Conclusioni

La maggior parte dell’acqua era utilizzata dalle locomotive a vapore della linea ferroviaria Trieste-Vienna, ma una piccola quantità veniva convogliata in città tramite tubature (acquedotto di Aurisina - 1857). Nonostante vari lavori di miglioramento per incrementare la resa di queste sorgenti, il volume d’acqua si rivelò comunque insufficiente alla città e quindi, dopo lunghe esitazioni, l’Amministrazione Comunale decise finalmente la costruzione di una nuova tubazione che andasse a captare le risorgive del fiume Timavo. Si realizzò così l’acquedotto provvisorio del Mulino Sardos (1922), che fu quasi subito sostituito dalle condutture definitive dall’acquedotto Randaccio (1929). Negli ultimi anni, si completarono infine i lavori di prolungamento delle tubature fino alla pianura alluvionale isontina, allacciando alcuni pozzi artesiani che intercettano una falda profonda alimentata dal fiume lsonzo (acquedotto del Basso Friuli 1989-
1994).
Solo nel XX secolo, quindi, si può ritenere risolto il problema del rifornimento idrico cittadino, disponendo finalmente di sufficienti quantità d’acqua potabile, di discreta qualità, ad uso della popolazione e delle industrie.

Dalla sintetica storia dell’approvvigionamento idrico della città emerge chiaramente come, parallelamente alle realizzazioni più importanti, Trieste abbia sempre dovuto usufruire d’opere minori che, anche se singolarmente di scarsa resa, hanno in ogni caso permesso la sopravvivenza e lo sviluppo del centro abitato.
Il presente lavoro vuole indagare proprio su queste opere minori, presenti in ampio numero in tutto il territorio urbano. Ai fini della ricerca, verranno analizzate le cavità artificiali, realizzate fino agli inizi di questo secolo, presenti in Cittavecchia (nucleo storico) e nella Città Nuova (borghi periferici edificati a partire dalla seconda metà del 1700). Tutte le esplorazioni e le indagini, se non diversamente specificato, sono state effettuate dalla Sezione di Speleologia Urbana della Società Adriatica di Speleologia, Trieste.
 

manufatti idraulici della città

Il terreno sul quale è stata edificata la città di Trieste è formato prevalentemente da un’alternanza di marne ed arenarie (Flysch). Questo tipo di roccia è impermeabile e favorisce lo scorrimento superficiale dell’acqua piovana, con la formazione di corsi d’acqua temporanei a regime torrentizio. Allo stesso tempo, però, permette anche una limitata penetrazione nel sottosuolo, lungo le fratture, gli interstrati e le varie discontinuità (permeabilità per fratturazione).
In territorio urbano potremo trovare quindi acque di percolazione, ancora in lento movimento all’interno della massa rocciosa, oppure acque di falda, dove la presenza di strati impermeabili e di particolari condizioni litologiche ha portato alla formazione di localizzati acquiferi sotterranei.
Queste acque presenti nel terreno possono ritornare alla luce in presenza di particolari condizioni geomorfologiche (sorgenti naturali), oppure in corrispondenza d’interventi specifici realizzati dall’uomo. Le acque di percolazione sono captate dai cunicoli di drenaggio e
più piani di discontinuità saranno attraversati, maggiore sarà la resa finale della galleria (portata direttamente proporzionale alla lunghezza dello scavo). Le falde sotterranee sono intercettate invece dai pozzi: lo scavo verticale attinge le acque presenti in questi bacini ipogei, spesso di limitata estensione e normalmente posti a poca profondità dalla superficie.
Per quanto riguarda le finalità del presente lavoro, che analizza sotto il profilo tecnico le opere realizzate dall’uomo per la raccolta e la conservazione dell’acqua, sono identificabili le seguenti tipologie di cavità:
• le sorgenti: punti del territorio, più o meno modificati con opere artificiali, in corrispondenza dei quali l’acqua emerge naturalmente dal terreno;
• i pozzi: scavi verticali nel terreno che permettono la raccolta dell’acqua presente nel sottosuolo (autoalimentati, non necessitano di sistemi esterni di alimentazione)
• le cisterne: scavi nel terreno che permettono la conservazione dell’acqua (pareti a tenuta stagna, necessitano sempre di sistemi esterni di alimentazione).
Le sorgenti

Bisogna prendere atto che sono ben poche le sorgenti naturali presenti in ambito urbano che sono state citate nei vari documenti. Sono ricordate, infatti, solamente la fonte Ustia (sul colle di Scorcola), la sorgente in Contrada dagli Artisti e quella in località Tor Cucherna (sul colle di San Giusto). Se si allarga l’area di riferimento, includendo la periferia della città, è possibile ritrovare cenni relativi alle sorgenti della valle delle Sette Fontane, a quella del Bosco Marchesetti, a quella sotto il colle del Farneto ed alle fonti di Barcola. Le ricche sorgenti presenti nel rione di San Giovanni non sono incluse in quest’elenco perché tutte captate dalle estese canalizzazioni dell’acquedotto Teresiano.
 
 

Esplorazione delle sorgenti

Una sorgente è il punto dove l’acqua scaturisce naturalmente dal suolo e spesso bastano pochi adattamenti per sfruttare al meglio tale circostanza. Un piccolo bacino di raccolta ed opportune canalizzazioni permettono, infatti, di convogliare facilmente l’acqua verso il luogo d’utilizzo ritenuto più opportuno. Per questo motivo, non vi sono normalmente delle descrizioni particolareggiate delle opere realizzate presso le sorgenti ed anzi, in molti casi, non viene precisata nemmeno la posizione esatta delle stesse. Durante le esplorazioni effettuate nel sottosuolo cittadino, ci si è spesso imbattuti per puro caso in queste opere, talvolta senza individuare, all’inizio, quanto si stava visitando. Soltanto in seguito, analizzando in maniera più approfondita i documenti e le descrizioni disponibili, sono stati identificati correttamente i singoli manufatti sotterranei precedentemente osservati.
Sul colle di Scorcola è stata esplorata una galleria drenante di sviluppo ridotto, formata da un ramo principale e da due brevi cunicoli laterali. Inizialmente non era stato possibile riconoscere la cavità; solamente in un
secondo tempo è stato accertato che la galleria d’alimentazione esplorata non era altro che l’opera di adattamento eseguita in corrispondenza della fonte Ustia (n0 CA 6), sorgente citata molte volte nei documenti, ma mai localizzata precedentemente sul territorio.
Allo stesso modo, quando c’è stata l’occasione di visitare un cantiere edile in via degli Artisti e sono stati percorsi alcuni vani sotterranei che s’interrompevano a contatto con la roccia in presenza di un forte arrivo d’acqua, non sono state subito riconosciute le opere che si stavano esplorando. Anche in questo caso, solo dopo alcuni giorni, è stato collegato tale manufatto con la presenza in questo luogo della sorgente in Contrada degli Artisti (o Sotto il Monte - n0 CA 131), citata in più documenti.
Talvolta, sempre a causa dell’imprecisa localizzazione dei manufatti, è stata rintracciata un’opera sotterranea sconosciuta, pur cercandone un’altra. F il caso delle ricerche avviate nell’alta valle di San Giovanni, dove si stava tentando di rintracciare la galleria Slep dell’Acquedotto Teresiano. Dopo alcune giornate di perlustrazione, è stata trovata una costruzione semi sotterranea dotata di bacini di decantazione e di galleria d’alimentazione: non si trattava della galleria Slep (che non è stata ancora localizzata e che deve aprirsi in ogni caso ad una quota inferiore), ma della sorgente del Bosco Marchesetti (n0 CA 3), anch’essa pesantemente modificata per ottenere una maggiore resa idrica.
La sorgente sotto il colle del Farneto (n0 CA 15) era invece da noi conosciuta fin dal 1985. Era stata segnalata, quell’anno, una piccola costruzione semi interrata posta lungo il torrente Bonomo, interessata da una limitata presenza d’acqua. Solo nell’anno 1988 è stato possibile effettuare una più attenta verifica del manufatto e sono state raccolte numerose nuove informazioni. Per prima cosa è risultato che la costruzione era dotata di una piccola galleria d’alimentazione; poi è stato scoperto che sotto il pavimento era stata realizzata un’ampia cisterna per la raccolta dell’acqua. Alla luce dei nuovi dati, l’opera acquisiva una particolare importanza: era stata interessata, infatti, da tutti i lavori di modifica ed adattamento che, generalmente, possono ottimizzare l’utilizzo di una sorgente. Non solo il punto naturale dal quale scaturiva l’acqua era stato approfondito ed adattato per ottenere un maggiore rendimento, ma in prossimità della fonte era stato ricavato un vasto serbatoio dove raccogliere l’acqua durante i momenti di maggior resa, per poi poterne approfittare nei periodi di magra.
Non sono state ancora localizzate, per il momento, le sorgenti della valle delle Settefontane (definizione troppo vaga), quella in località Tor Cucherna (la zona è stata interessata da troppe fasi sovrapposte d’urbanizzazione) e quelle di Barcola (si stanno approfondendo le ricerche archivistiche per definire meglio la loro posizione).
A proposito di quest’ultima zona, è opportuno ricordare anche le fonti retrostanti il piccolo porto di Cedas. Queste sorgenti sono citate in molti documenti: nell’estate del 1868 il Comune organizzò trasporti di acqua che partivano da quest’area e si dirigevano verso la città e potenziò due ulteriori sorgenti, nel luglio 1899 venne previsto l’ulteriore prolungamento delle gallerie di captazione, negli anni 1907 e 1909 vennero effettuati alcuni
esperimenti di tracciatura delle acque del Timavo sotterraneo, con riscontri positivi anche presso le sorgenti di Cedassamare, nel febbraio del 1917 si ipotizzò un acquedotto che avrebbe dovuto collegare le sorgenti di Cedas con l’abitato di Barcola. Descrivendo il porticciolo di Cedas, è stato scritto “il rivolo puro scorre dall’alto fino alla marina; e non è il solo, altro zampillo sgorga ivi presso, da dirsi incanalato, altri ve ne hanno a/la marina, cosi che il Municipio di Trieste vi fè costruire or sono parecchi anni un Castello d’acqua, per le navi di Trieste.” (KANBLLR, 1852. Vll-7). Nonostante le numerose ispezioni, le gallerie di captazione che sono state costruite in corrispondenza di queste sorgenti, sempre ricche d’acqua, non sono state ancora ritrovate.
 
 
 

I pozzi

Analizzando i documenti e gli atti pubblici degli ultimi 250 anni, escludendo le grandi realizzazioni legate agli acquedotti, la categoria delle opere idrauliche più spesso citata è quella dei pozzi. Questi scavi nel terreno hanno, infatti, risolto il problema dell’approvvigionamento idrico per un vastissimo periodo: dall’antichità fino ai nostri giorni. Si tratta di costruzioni relativamente semplici da realizzare, che possono essere di grandi dimensioni ma anche di profondità ridotta, che non necessitano di grandi conoscenze tecniche per l’escavazione ma che assolvono brillantemente al loro scopo.
Tecnicamente un pozzo è formato da una camera di captazione, dove si raccoglie l’acqua; da una canna, scavo verticale che congiunge la camera alla superficie, e da una bocca, passaggio attraverso il quale è possibile accede al pozzo stesso.
La camera di captazione è normalmente priva di rivestimento, al fine di facilitare la fuoriuscita dell’acqua dalle fessure della roccia; la sua profondità è ovviamente legata alle condizioni idrogeologiche del luogo. La canna è solitamente di forma cilindrica, rivestita con muratura per rinforzare le pareti e d’altezza variabile in relazione alla profondità della camera di captazione. La bocca del pozzo, spesso munita di vera, è realizzata in funzione di vari scopi: deve proteggere le persone durante la fase di prelievo dell’acqua, prevenire possibili inquinamenti ed evitare la caduta di oggetti e animali all’interno. La vera può essere realizzata in semplice muratura, oppure in un solo blocco monolitico di roccia.
I pozzi più antichi sono normalmente di forma cilindrica, cioè mantengono una sezione più o meno costante dalla bocca alla camera di raccolta: sono più facili da realizzare ed hanno una resistenza maggiore. Quelli più recenti (seconda metà del 1800) assumono invece una forma “a bottiglia”, con una bocca di diametro ridotto ed una canna con una sezione che inizialmente aumenta all’aumentare della profondità, per poi diventare costante fino al fondo.
Se analizziamo le dimensioni di queste opere sotterranee, la profondità dello scavo di un pozzo può, secondo le caratteristiche locali, partire da pochi metri
giungere fino a profondità ragguardevoli. Nella città di Udine, ad esempio, il pozzo di San Cristoforo, sito nell’omonima piazza, raggiunge la profondità di 54,5 m(SELLO, 1993, pp. 40-44).
Per quanto riguarda il territorio urbano triestino, la profondità massima riscontrata durante le esplorazioni è stata di 18 m, ma probabilmente sono stati realizzati anche scavi più profondi. Per quanto riguarda il diametro della canna (escludendo la bocca che normalmente è di sezione più ridotta), si riscontrano valori che vanno da un minimo di 1,2 m ad un massimo di 5,4 m, con una media di 2,6 m. In relazione alle varie morfologie, il volume d’acqua disponibile in ogni pozzo poteva quindi variare da poche decine di metri cubi a volumi anche considerevoli.
I pozzi presenti in ambito urbano possono essere divisi in due grandi gruppi: quelli pubblici e quelli privati. Nel primo gruppo possiamo includere tutti i pozzi, normalmente di grandi dimensioni e di sicura resa idrica, adibiti ad uso collettivo, dove l’onere della costruzione e della manutenzione era a carico dell’ amministrazione cittadina. Nel secondo gruppo sono incluse invece tutte le opere d’uso famigliare, o comunque rivolte ad un numero limitato di persone. In questo caso la costruzione e la manutenzione dell’opera era a carico della ristretta comunità che ne usufruiva. Talvolta questa suddivisione è abbastanza relativa, in quanto certi pozzi privati erano spesso utilizzati, durante i periodi di siccità, anche a fini pubblici.
Bisogna inoltre evidenziare la presenza di una categoria particolare di pozzi: i fontanoni. Anche in questo caso si tratta di scavi nel terreno per la raccolta dell’acqua, ma con precise caratteristiche morfologiche e sempre d’uso pubblico. Molto spesso dei semplici pozzi venivano, con il passare degli anni, modificati ed ingranditi, passando così alla “categoria superiore”. Per questo motivo alcune cavità sono riportate nei vari documenti con le due diverse definizioni. Dei fontanoni si tratterà più estesamente nel paragrafo appositamente dedicato.
È difficile quantificare quanti pozzi siano stati scavati nel territorio urbano della città. Una stima elaborata dall’ACFGAS cita 700 pozzi, mentre un recente lavoro dedicato alla geologia della zona di Trieste ne indica 1.800 (BALLARIN & SEMERARO, 1997, p. SI). Bisognerebbe ovviamente definire esattamente i limiti del territorio urbano, ma è probabile che queste valutazioni siano da ritoccare in eccesso.
Una stima del 1882, indica che la disponibilità totale d’acqua della città ammontava a 2.254 me giornalieri, di cui 1.100 mc fornita da pozzi e fontanoni (ACEGA, 1988, p. 5). Ciò significa che, fino a circa cento anni fa, Trieste dipendeva quasi al 50% da questi tipi d’opere idrauliche.
I pozzi trattati nella presente ricerca, sono delle semplici opere di escavazione che intercettano l’acqua presente nel sottosuolo, che necessitano quindi di particolari sistemi di sollevamento per il trasporto all’esterno della stessa. Non bisogna quindi confonderli con i pozzi artesiani che nel territorio triestino, nonostante numerosi tentativi, non hanno mai portato a grandi risultati e che non rientrano nell’indagine effettuata.
 

I pozzi pubblici

Per definire quali pozzi erano considerati pubblici a Trieste, è possibile fare riferimento a varie relazioni, ma due di queste possono considerarsi particolarmente esaurienti. La prima elenca 27 cavità (fra pozzi e fontanoni) ed è stata formulata dal medico de Garzarolli e dal farmacista Boara nel 1822 (Archivio di Stato di Trieste, IRLL AO Busta 2236, Rapporto della commissione per la rilevazione dello stato dei pozzi, Trieste 24 giugno 1822). La seconda ne elenca solo 19 ed è stata redatta dalle autorità cittadine in occasione della siccità del 1868 (Verbali della delegazione municipale di Trieste, Trieste 10 agosto 1868, citati in De Vecchi et al, 1994, p. 49).
Sulla base di questi documenti si possono ricordare
i seguenti pozzi cittadini: Bianco, davanti alla Cattedrale di San Giusto, del Ghetto Vecchio, del Lavatojo, del Mare, dell’Amore, dell’Annunziata, dell’Ospedale, della Chiesa dei Gesuiti, della Marinella, di Crosada di San Lorenzo, di San Silvestro, di Sporca Villa, dietro Casa Fister, in androna Brainech, in androna della Fontanella, in androna Jasbezza, in Barriera Vecchia, in contrada Malcanton, in Guardiella, in piazza del Fieno, in piazza della Dogana Nuova, in piazza della Dogana Vecchia, in piazza Lipsia, in piazza Santa Lucia, in Pozzacchera, presso Casa Baiardi, presso Casa Baraunz, presso Casa Cosmatz, presso Casa Porta, sotto il Corpo di Guardia di Rena Vecchia e Sotto il Monte.
All’interno di questo elenco, alcuni pozzi sono facilmente identificabili, in particolare modo quelli che fanno riferimento ad una chiara collocazione (in androna della Marinella, in piazza Santa Lucia, ...). Altri sono invece indicati con delle definizioni meno precise (presso Casa Baraunz, presso Casa Cosmatz  ) e presentano quindi delle notevoli difficoltà per la determinazione della loro esatta posizione.
Consultando vari documenti, è stato possibile seguire l’evoluzione di alcuni pozzi ed i lavori di modifica che, nel tempo, li hanno interessati. È il caso del pozzo antistante la Cattedrale di San Giusto: esso è stato realizzato in tempi antichi e per lunghi anni ha svolto la sua funzione. Nel 1884, il pozzo è stato infine chiuso e, in molti testi, si riporta che al suo posto fu eretta la nota colonna sormontata dall’alabarda. Consultando le piante che riportano l’esatta posizione del pozzo, è facilmente visibile, però, come esso risulti alquanto spostato rispetto alla colonna e che quindi non vi sia stata alcuna “interferenza” fra le due costruzioni. In un progetto del 1846, è stato previsto l’allacciamento di quest’opera sotterranea con il sottostante edificio allora adibito a manicomio (un tempo sede episcopale, quindi Ospitale), sito in via del Castello n. 2, che non disponeva d’acqua a sufficienza nonostante le due grandi cisterne di cui era dotato. Non ci sono dati sicuri sulla realizzazione di questo collegamento, ma è stata ritrovata un’intervista rilasciata dallo storico Silvio Rutteri (SAN1oito, 1981), nella quale si accenna all’avventurosa esplorazione di queste canalizzazioni.
 

I pozzi privati

Se i documenti ufficiali trattano spesso dei pozzi pubblici, poche indicazioni sono riservate invece a quel
li di carattere privato. La realizzazione di queste opere, infatti, interessava solamente i proprietari del terreno in cui il manufatto si apriva e molto spesso non rimaneva traccia della costruzione in alcun atto o progetto ufficiale. L’identificazione di numerose cavità appartenenti a questa categoria risulta però facile consultando le varie mappe, antiche e moderne, che descrivono il territorio urbano. Le planimetrie, che ritraggono sia il centro che le aree di periferia, riportano spesso dei piccoli simboli circolari, che identificano la posizione dei pozzi presenti nelle varie proprietà private. F possibile così vedere come sul colle di San Giusto, ma anche in Cittavecchia ed in generale in tutto il territorio urbano e di periferia,
vi sia una considerevole presenza di pozzi di costruzione privata. Basta poi consultare la cartografia del piano Müller in scala 1:1.000 per notare particolari concentrazioni: una di queste si riscontra nella zona periferica retrostante il cimitero di 5. Anna (BALLARIN & SEMERARO, 1997, p. 82) dove, in un’area quadrangolare di 250 m dilato, sono presenti più di 16 cavità di questo tipo.
Quasi tutte le ville padronali erano dotate di pozzi
per l’approvvigionamento idrico. L’esempio più interessante è quello di villa Bazzoni, pregevole edificio neoclassico sito all’inizio dell’omonima via. Durante recenti sopralluoghi, svolti dalla Sezione Ricerche e Studi su Cavità Artificiali del Club Alpinistico Triestino, è risultato che nel parco sono presenti ben 4 pozzi, di dimensioni variabili, usati sia per le esigenze del parco stesso, sia come riserve idriche per la villa.
Allo stesso modo, erano sempre dotati di pozzi le principali fortificazioni militari, come il castello di San Giusto o il Forte della Sanza (SERI & DEGLI IVANISSEVICH, 1980, pp. 98-100), ed i vari edifici di carattere religioso. A tale proposito basti ricordare il convento di San Cipriano che presenta ancora oggi, negli orti circostanti, due ampi manufatti per la raccolta dell’acqua.

Esplorazione dei pozzi

Indagando sul sottosuolo della città di Trieste, spesso è stato possibile imbattersi in pozzi di dimensioni più o meno grandi. Nei primi anni di ricerca non è stata rivolta particolare attenzione a questa categoria di cavità, ma poi, con il tempo, è stata compresa l’importanza che anche queste risorse idriche minori potevano rivestire.
I pozzi più antichi che sono stati rinvenuti risalgono al periodo romano. Si tratta di due opere ipogee ancora visitabili sul colle di San Giusto. Il primo è posto lungo la rampa d’accesso al castello (n0 CA 21), dove è facilmente visibile la botola in pietra che ne chiude la bocca (Gttc,IIÀ & HALUPCA, p. 82). Questa è stata posta nell’anno 1930. Si tratt di un pozzo profondo 5 m, di forma cilindrica con un diametro di circa I m. Un altro manufatto, sempre d’epoca romana, è stato rinvenuto all’interno del battistero della Cattedrale (n0 CA 23):
uno scavo di piccole dimensioni, di costruzione cilindrica, con una profondità di 3 m ed un diametro di circa 80 cm. Tutte le due cavità sono rivestite in conci di pietra e s’interrompono a contatto con gli strati di roccia marnoso-arenacea (GUGLIA & HALUPCA, 1988, p. 95). In entrambi i casi, si tratta d’importanti testimonianze relative ai pozzi che, assieme ai tre acquedotti, hanno permesso la sopravvivenza e l’espansione dell’antica città di Tergeste.
Se affrontiamo invece l’argomento dei pozzi più recenti di carattere pubblico, l’esempio più rilevante è sicuramente quello dell’opera idraulica presente nei sotterranei della chiesa di Santa Maria Maggiore: il pozzo dei Gesuiti (n0 CA 19). Nato inizialmente come fonte idrica privata, presenta le seguenti caratteristiche: la canna in muratura scende in profondità per 5 m, mentre la camera di raccolta si sviluppa per ulteriori 1,5 m nella roccia marnoso-arenacea.
Come si può constatare, si tratta di un pozzo con limitate dimensioni (profondità totale 6,5 m), ma che possiede interessanti particolarità. La canna, infatti, si presenta a sezione variabile: inizia con forma ottagonale, che diventa poi quadrata ed infine circolare. Anche i materiali di costruzione sono diversi. Il pozzo è inizialmente realizzato con mattoni, per poi presentare, in profondità, pareti rivestite con pietre squadrate d’arenaria. Si tratta, molto probabilmente, di una stratificazione morfologica indicante fasi diverse di costruzione. La parte profonda del pozzo, quella formata dalla camera di captazione e dalla prima parte della canna realizzata in pietre con sezione circolare, è quasi certamente preesistente al resto della costruzione ed è stata inglobata nelle fondamenta della chiesa al momento della sua edificazione (GuGlIA & I IAI,t;ICA, 1988, p. 32).

Sono stati visitati pozzi di carattere privato in quasi tutto il territorio urbano. Fra i tanti localizzati e documentati, si possono citare due pozzi in via degli Artisti e numerosi altri nella zona di via Commerciale, in via Carpaccio, in via Virgilio, in vicolo dell’Ospedale, in piazzale Rosmini, in via Crispi, in via Giustinelli, sul colle di San Giusto, nel parco dalla Rimembranza e nell’Orto Lapidario. Si tratta di costruzioni di dimensioni medio-piccole, con profondità massima di 13 in ed un volume medio d’acqua pari a 42 mc.
Alcuni interessanti sopralluoghi sono stati fatti anche all’interno dei parchi d’alcune ville appartenute a famiglie nobili cittadine. Come esempio dalle particolari caratteristiche, si può citare il manufatto idraulico costruito nei pressi della villa Sartorio, oggi sede dell’omonimo civico museo. Nel giardino sono ancora oggi visitabili alcuni ambienti sotterranei, probabilmente appartenenti ad una costruzione preesistente all’attuale edificio. Procedendo lungo questi vani, è stato possibile localizzare un ampio pilastro a sezione circolare: dopo opportune indagini, è emerso che lo stesso non è una struttura di sostegno della volta, come inizialmente interpretato. Si tratta invece della parete esterna della canna di un ampio pozzo (n0 CA 129) che, aprendosi all’esterno, scende in profondità attraversando, dal soffitto al pavimento, tutta la sezione della galleria.
 
 

I fontanoni

Per alcuni pozzi, nei documenti del passato, è stata usata una definizione particolare: fontanone. Con tale termine s’intende di norma un motivo architettonico ornamentale costituito da una fontana di grandi dimensioni, oppure una sorgente carsica caratterizzata da variazioni di flusso e da intermittenza di portata. A Trieste con detto termine s’indica invece un pozzo, d’uso pubblico, dalle particolari caratteristiche: si tratta di scavi di dimensioni medio-grandi, coperti da una struttura a cupola, sormontati da una costruzione in muratura, dotati di sistemi di pompaggio e di vasche esterne per la raccolta dell’acqua.
Questi manufatti, se non ricavati da preesistenti pozzi, sono stati generalmente scavati a partire dal 1600, fino alla prima metà del 1800.
Lo scavo di un fontanone non si estendeva normalmente in profondità, ma si sviluppava in larghezza, al fine di ricavare un ampio vano nel quale contenere una cospicua riserva d’acqua, da utilizzare nei mesi di siccità.
Nelle liste redatte a metà del 1800, sono citati i seguenti fontanoni: della Zonta, di San Lazzaro (odi piazza della Legna), di Cavana, di piazza San Francesco (o del Borgo Francesehino ex pozzo), di piazza della Caserma, di piazza della Valle, di piazza della Legna (ex pozzo di San Lazzaro), di corte Preinitsch, di Barriera Vecchia (ex pozzo), di piazza Lipsia (ex pozzo), di piazza Scorcola.
Certi fontanoni hanno una storia ben documentata. Ad esempio quello del Borgo Franceschino è stato iniziato nel 1803, ma un forte acquazzone distrusse lo scavo ed il cantiere circostante. Ci vollero 20 anni per riprendere i lavori ma alla fine, nel 1822, vennero completati lo scavo e la costruzione sovrastante. Questo manufatto si rivelò ben presto come una delle opere di maggior resa fra quelle della sua categoria: nell’anno 1824, l’acqua di questo fontanone veniva convogliata non solo nel vicino Lavatoio Pubblico, ma addirittura nella rete di distribuzione dell’acquedotto teresiano (DE VECCHI et al, 1994, pp. 55-56).
Di altri fontanoni, invece, ci sono pochissime notizie e molto spesso, di questi, non è più identificabile, oggi, alcuna traccia.
 

Esplorazione dei fontanoni

I fontanoni erano strutture che, per una loro migliore fruizione, venivano normalmente realizzate al centro di piazze o d’ampie aree pubbliche. Per tale motivo, quando queste costruzioni esaurivano il loro scopo, erano
abbattute ed interrate, recuperando cosi lo spazio a beneficio della comunità. Nella città di Trieste, ci sono
sicuramente delle ampie cavità ancora esistenti nel sottosuolo, delle quali si è perso completamente il ricordo. Tale circostanza ha reso impossibile, per il momento, la
localizzazione e l’esplorazione di quanto oggi rimane
dei fontanoni, risultando gli stessi oramai introvabili o inaccessibili per sempre.
L’unico fontanone esplorato è infatti, per il momento, quello che si apriva in piazza Lipsia, attuale piazza
Hortis (n0 CA 293). Scavato originariamente come pozzo del convento dei padri minoriti della chiesa di Sant’Antonio Vecchio, divenne pozzo pubblico quando, con la demolizione del complesso, fu creata l’ampia spianata della piazza. Nell’anno 1822 fu quindi elevato al rango di fontanone, in occasione di consistenti lavori d’ampliamento ed approfondimento. La sua bocca venne cosi sormontata da una costruzione in muratura, dotata di un sistema di pompaggio e di vasche per la raccolta dell’acqua. Con l’anno 1865 il pozzo fu chiuso e sormontato prima da una fontana con vasca, poi da un’aiuola al centro della quale è stato eretto un busto marmoreo. La costruzione sotterranea venne cosi completamente dimenticata finché, nel corso delle recenti ristrutturazioni della piazza, il pozzo non è ritornato alla luce ed è stata possibile una sua attenta documentazione. Gli esploratori appartenenti al Club Alpinistico Tricstino, attraverso un canale laterale, hanno potuto immergersi e verificare la morfologia del manufatto: all’imbocco il diametro è di 2,5 m ma, scendendo, esso aumenta fino ad un massimo di 4,5 m. La profondità totale è di 9 in ed il fondo del manufatto si trova quindi a circa 5 metri sotto il livello del mare (SPIRITo, 1996).
Un’altra opera tuttora visibile è quella presente lungo la via Navali (n0 CA 91). Essa non viene citata in nessun documento e quindi può considerarsi, in un certo senso, ai limiti della sua categoria. Allo stesso tempo, però, presenta tutte le caratteristiche identificative dei fontanoni: si apriva sulla pubblica via (era quindi disponibile a tutti), è stata realizzata con dimensioni notevoli, la sua bocca non era accessibile direttamente ed era dotata di un sistema di pompaggio che alimentava una vasca esterna. Da una verifica più attenta, è risultato che la sua profondità ammonta oggi a 15 m e che la sua capacità totale può arrivare ad un massimo di 24 inc. Non è stato definito il periodo esatto della sua costruzione, in quanto non è chiaro se la data incisa sopra l’imboccatura (1855) si riferisce a tale occasione, oppure a dei lavori di ripristino eseguiti in un secondo tempo.
 
 

Le cisterne

Se, per quanto riguarda i pozzi, si possono avanzare alcune considerazioni di carattere morfologico comuni alle varie opere, parlando di cisterne questo non è possibile. Si tratta, infatti, di vasche coperte che, secondo il luogo dove sono state realizzate, hanno assunto la forma che più si adattava alla configurazione del terreno o alla presenza d’altre costruzioni limitrofe.
Risulta strano che un sistema di raccolta dell’acqua come quel delle cisterne sia stato usato abbastanza raramente a Trieste. La vasta presenza di tetti e di grondaie avrebbe reso facile, durante i periodi piovosi, l’accumulo dell’acqua che, conservata in serbatoi sotterranei, avrebbe potuto essere poi usata nei periodi di siccità. Nonostante la semplicità del procedimento, però, sono state ben poche le cisterne costruite in città.
Si parlò svariate volte, infatti, della realizzazione di vasti serbatoi nella valle di San Giovanni ed un ampio contenitore sotterraneo era stato progettato nel 1847 davanti alla chiesa di San Giacomo, nell’omonimo rione. Tali soluzioni furono però scartate, perché i sistemi di filtraggio e di decantazione necessari per rendere potabile e sicura l’acqua di questi grandi impianti, avrebbero comportato costi troppo elevati. Nei documenti consultati sono citate, infatti, solamente la cisterna sul colle della Fornace e quella nel cortile del Collegio dei Gesuiti. La prima risulta costruita sul colle di San Giusto, nei pressi della chiesa di Montuzza, e su una pianta topografica viene indicata con il nome “serbatoio dell’Aurisina” (Pozzetto, 1912, Tav. 12), probabilmente in relazione ad un suo collegamento, in un secondo tempo, con l’acquedotto cittadino. Da recenti indagini è stata localizzata l’esatta posizione di quest’ambiente sotterraPianta
neo e si è attualmente in attesa delle necessarie autorizzazioni per avviare l’esplorazione. La seconda cisterna rappresenta invece un caso abbastanza curioso. Questo manufatto ipogeo, infatti, è citato in molti documenti e sono disponibili numerosi suoi disegni risalenti agli anni
1841/42. Le relazioni ed i progetti la descrivono come
l’elemento terminale di un “artificioso congegno per la conduttura d’acqua, che per diversi canali e filtratoi si congiunge nel serbatoio principale” (Tribel, 1884, p. 250). Si trattava di un ampio ambiente sotterraneo a pianta rettangolare, con soffitto a volta, diviso in dodici settori da tramezzi in muratura ed alimentato da varie canalette che si racordavano alle grondaie. Il volume totale d’acqua ammontava a circa 130 mc. Nel 1984, quando incominciarono le indagini sul “Complesso dei Gesuiti” (formato dall’attuale casa parrocchiale e dalla chiesa di Santa Maria Maggiore), si cercò di rintracciare questa cisterna, della quale, come detto, esisteva una ricca documentazione. Con sorpresa, però, si accertò che tutta l’area dove originariamente si apriva quest’opera sotterranea era stata interessata da grandi lavori di ristrutturazione: proprio in quella posizione era stato infatti ricavato il piccolo teatro parrocchiale, scavato sotto al cortile al posto del contenitore idrico.
Durante le varie esplorazioni, spesso sono state rinvenute tracce di cisterne nei parchi d’alcune ville della nobiltà cittadina: erano dei sistemi di conservazione dell’acqua che si affiancavano ai pozzi, in uso finché non sono stati completati gli allacciamenti agli acquedotti pubblici.
 

E doveroso citare, infine, come le cisterne siano solitamente presenti, assieme ai pozzi, anche nelle maggiori fortificazioni militari cittadine. Il castello di San Giusto, per esempio, è dotato di un’ampia cisterna, sita lungo il lato Ovest del Piazzale delle Milizie (no CA 22). In molte occasioni per questo manufatto è stata usata, per semplicità, la definizione “pozzo”, ma una attenta verifica della struttura ha permesso di constatare che si tratta invece di un grande serbatoio di oltre 250 mc di capacità, profondo 16 m, con un diametro massimo di 4,5 m, usato per la raccolta e la conservazione dell’acqua. Le pareti perfettamente intonacate e la presenza di canalette originariamente collegate alle grondaie, non lasciano oggi alcun dubbio a proposito.
 

Esplorazione delle cisterne

I manufatti che meglio possono rappresentare questa categoria d’opere idrauliche sono le due cisterne esplorate nel parco di villa Hengelman. Si tratta di due manufatti indipendenti, realizzati a circa 100 m di distanza l’uno dall’altro, che hanno rappresentato, per un certo periodo, l’unica risorsa idrica presente nel parco della villa. La cisterna più grande (n0 CA IO) si apre in posizione centrale, in corrispondenza di un muro di contenimento. Aperta la porta di moderna fattura che oggi chiude l’imbocco, si può scendere per una ripida scali-
(Foto P. Guglia) nata di pietra, fino a giungere all’ampio bacino. Il vano presenta pareti in pietre squadrate d’arenaria ed il soffitto a botte. Sulla parete opposta, è ancora visibile il cunicolo di alimentazione, mentre il volume d’acqua attualmente riscontrabile ammonta a circa 35 me. La seconda cisterna (o0 CA 93) è stata invece costruita nella parte superiore del parco. Un portello metallico permette di accedere al basso vano sotterraneo, contenente oltre 12 mc d’acqua. Detto vano, costruito con elementi squadrati d’arenaria e con volta a botte, presenta anch’esso una ripida scala in pietra che si allunga fino sul fondo, ad una profondità di 2,5 m dalla quota d’ingresso.
Un’altra cisterna molto interessante è stata rinvenuta lungo le pendici del colle di Scorcola. All’interno del cortile del convento delle “Figlie di San Giuseppe”, si apre il vasto ingresso di questo manufatto (n0 CA 7). Dopo un vano iniziale, si accede subito all’ampio ambiente interno, largo 2 m, lungo 12 m ed alto 4 m, nel quale sono contenuti oltre 36 me d’acqua. La pai4icolarità~i questa cavità è data proprio dal modo in cui l’acqua viene captata e quindi conservata. Essendo il vano interno scavato in profondità nella roccia marnoso-arenacea, è infatti possibile, come avviene del resto anche nelle wassergailerien (PESARO, 1995), intercettare l’acqua che scorre all’interno delle discontinuità della roccia, raccogliendola poi nella parte bassa del vano, resa opportunamente impermeabile. Tutte le pareti ed il soffitto, quindi, contribuiscono all’alimentazione idrica della cisterna, come ampiamente provato dalla presenza d’ampie colate calcitiche in corrispondenza degli arrivi d’acqua più consistenti.
 
 
 

Conclusioni

La ricerca svolta all’interno del perimetro urbano ha rivelato un notevole numero d’opere idrauliche minori, in parte esplor4te ed in parte conosciute attraverso documenti e progetti descrittivi.
Non sempre è stato facile dividere i manufatti secondo i vari gruppi morfologici di appartenenza: in alcuni casi, per esempio, le sorgenti erano dotate di vasti serbatoi, oppure le cisterne erano alimentate direttamente dall’acqua sotterranea. Si hanno quindi, talvolta, cavità di carattere misto, non perfettamente inquadrabili in una sola categoria.
Tralasciando queste difficoltà interpretative, le ricerche d’archivio e le esplorazioni hanno in ogni modo permesso di tracciare un quadro abbastanza preciso di queste opere.
È emerso chiaramente come queste risorse siano state utilizzate per un lungo periodo di tempo e come il maggiore problema sia stato, oltre alla resa idrica, quello di un eventuale loro inquinamento. Quando non esisteva ancora un sistema fognario cittadino, la possibilità d’infiltrazioni era sempre presente e spesso non era sufficiente lastricare accuratamente l’area in cui si aprivano i pozzi e le cisterne per eliminare tale rischio. Per le costruzioni più prossime al mare era poi possibile l’in-filtrazione dell’acqua salmastra, specialmente in occasione di maree eccezionali.
In tali casi, spesso non si poteva fare nulla ed i pozzi interessati da tale fenomeno potevano in seguito essere impiegati solamente per abbeverare il bestiame. Poi, finalmente, è arrivata la possibilità di allacciarsi agli acquedotti pubblici cittadini. Sono così iniziate le demolizioni progressive, iniziate nei primi decenni del 1900, che hanno portato alla quasi totale eliminazione di queste cavità.
Oggi, in un’epoca dove si dà per scontato che basta aprire uno dei vari rubinetti di casa ed è possibile fruire d’acqua in abbondanza, questi manufatti sono oramai diventati delle testimonianze del passato da conoscere e, quando possibile, da salvaguardare.
Vi sono vari motivi per continuare nello studio di queste opere idrauliche minori: si tratta di costruzioni che talvolta possiedono delle interessanti caratteristiche architettoniche, che spesso presentano delle particolarità di carattere storico e che, in qualche caso, possono ancora essere utilizzate sia a tini potabili (purtroppo molto raramente), sia come riserve idriche per scopi antincendio.
È auspicabile che, per i motivi sopra citati, sia avviata una precisa catalogazione di tali risorse idriche cittadine, che tenga in debito conto, come avvenuto in altre città, degli aspetti peculiari di questi utili manufatti, realizzati con perizia ed ingegno dalle amministrazioni pubbliche e da semplici cittadini della Trieste di un passato non troppo lontano.
 
  

Paolo Guglia

(Sezione di Speleologia Urbana della Società Adriatica di Speleologia, Catasto delle Cavità Artificiali SSI del EVO)
tratto da  gli  Atti dell'VIII convegno Regionale di speleologia del Friuli-Venezia Giulia (1999)