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Maggio 2000

IL GIUSTO PROCESSO PENALE

 

Con la legge costituzionale n. 2 del 1999 il "giusto processo" è finalmente approdato nella Costituzione, divenendo così legge dello Stato.

I principi scritti nel nuovo art. 111 della Costituzione, che comporteranno una riconsiderazione anche del processo civile e amministrativo, sanciscono non solo la necessità di una piena esplicazione del contraddittorio e quindi della difesa effettiva, ma anche la necessità di pervenire ad una decisione in tempi ragionevoli, rendendo in tal modo espliciti e più vincolanti i principi già implicitamente contenuti negli articoli 24 comma 2 e 27 comma 2 della Costituzione e traducendo in canoni oggettivi di legittimità del processo quei diritti che fino ad ora erano concepiti come garanzia individuale.

Il nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione (che enunciava: " tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati; contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione della legge…") sancisce ora la parità fra accusa e difesa, il contraddittorio di fronte al giudice terzo ed imparziale, nonché la ragionevole durata del processo, condizione quest’ultima indispensabile poiché, come ha osservato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Mario Cicala "Non può esistere il giusto processo se non si raggiungono verdetti in tempi ragionevoli".

Il contraddittorio rappresenta il cuore della riforma: la parità delle parti nel processo passa tramite il contraddittorio ad un giudice terzo ed imparziale, ossia in una posizione di indifferenza ed equidistanza rispetto alle parti.

La nuova disposizione assicura che il soggetto indagato sia informato, in maniera riservata e nel minor tempo possibile, delle ragioni e della natura delle accuse elevate a suo carico.

Quanto al diritto di difesa, l’accusato deve disporre del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua arringa difensiva. Tra le condizioni figura la possibilità di interrogare dinanzi al magistrato colui che ha reso dichiarazioni a suo carico. L’imputato, inoltre, ha il diritto di ottenere la convocazione in aula e la deposizione davanti alla Corte o al Tribunale di testimoni a sua difesa nelle medesime condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro strumento di prova a suo vantaggio.

Il processo penale, inoltre, è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione delle prove, parte importante della riforma, destinata a riflettersi sulla gestione sui pentiti. L’articolo in esame sancisce, infatti, "la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del difensore".

La legge, infine, regola tutti i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in dibattimento per consenso dell’imputato, per accertata impossibilità di natura oggettiva, per effetto di provata condotta illegale.

Obiettivo primario dei nuovi principi inseriti nell’articolo 111 Cost., pertanto, è la piena operatività del principio del contraddittorio nella formazione della prova, in quanto "fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità".

Tuttavia, è importante notare che la parità tra le parti evidenzia la necessità di rimuovere l’ostacolo all’accesso alla giustizia rappresentato dall’onere economico richiesto per la difesa in giudizio. Si rende necessaria, pertanto, una nuova legge sul gratuito patrocinio e sulla difesa di ufficio, che superi il requisito di non abbienza per sostituirlo con quello di onere del processo rapportato al reddito familiare dell’utente, e nello stesso tempo occorre dare maggiore incisività al ruolo del difensore attraverso la nuova disciplina delle indagini difensive.

Altro fondamentale enunciato è la durata ragionevole del processo, che deve essere inteso non in senso tecnico ma comprensivo anche della fase procedimentale, nella veste di garanzia oggettiva contro illogici ed ingiustificati pregiudizi per la tempestiva definizione dell’attività giurisdizionale.

Abbiamo visto che la "ragionevole durata dei processi" rappresenta l’elemento essenziale affinché il sistema giuridico sia in grado di regolare concretamente i rapporti che si costituiscono al suo interno.

Del resto un sistema giudiziario veramente efficace e soddisfacente deve poter contare su strutture operative che garantiscano il rispetto delle leggi, evitando in tal modo che entri in crisi il servizio giustizia, con conseguente perdita di incisività e significato dell’opera dei giudici.

L’introduzione nell’art. 111 della Costituzione del principio della durata "ragionevole" del processo, che deve essere assicurata dalla legge ordinaria, unito a quello del contraddittorio, rappresenta sicuramente una novità interessante, da valutare attentamente e che impone di affrontare in modo diverso i vari temi della giustizia, da quello dell’efficienza ai limiti ed alle modalità di esercizio del diritto al silenzio, per giungere alla rielaborazione di una deontologia professionale del magistrato e dell’avvocato, rispondente alle esigenze del processo orale.

Con la legge costituzionale n. 2 del 1999, peraltro, è stato esplicitamente inserito nella nostra Carta fondamentale un principio già espressamente previsto dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall’Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

Il citato articolo 6, par. 1 della Convenzione, infatti, riconosce ad ogni persona il diritto che "la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente ed in un tempo ragionevole".

Con la ratifica della Convenzione lo Stato italiano si è obbligato ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo tale da soddisfare l’esigenza di garantire uno svolgimento celere delle cause, adeguando le strutture dell’amministrazione della giustizia.

Tuttavia, la lentezza dei processi, tipica del nostro Paese, si riflette in una cronica mancanza di funzionalità che spiega il motivo per cui il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa abbia posto sotto osservazione il nostro sistema giudiziario, nell’ambito dei suoi compiti di sorveglianza (previsti dagli articoli 32 e 54 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) sulla corretta esecuzione delle decisioni di Strasburgo.

La frequenza e l’elevato numero delle condanne pronunciate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a carico dello Stato italiano (in seguito a denunce presentate da singoli cittadini italiani, che hanno ottenuto riparazioni pecuniarie per i gravi disagi loro derivati dalle irragionevoli ed ingiustificabili lungaggini dei processi), evidenzia una disfunzione che va oltre i singoli casi denunciati, per tradursi in una permanente crisi istituzionale.

La stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in una delle ultime sentenze, emessa nel luglio 1999, ha affermato che in Italia "la lentezza eccessiva della giustizia rappresenta un pericolo importante, segnatamente per lo Stato di diritto.

Tale situazione induce a ritenere violato, nel nostro sistema giudiziario, il diritto di accesso alla giustizia, destinato a tradursi in un diniego di giustizia, che ha fatto del nostro Paese una sorta di "sorvegliato speciale" da parte degli organi di Strasburgo.

Si pensi, al riguardo, che in una delle sue ultime sessioni, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa si è occupato di 66 nuovi casi di inadempienza: di questi circa l’82% riguardavano l’eccessiva durata del processo in Italia, 8 concernevano la Francia, 2 il Portogallo, 1 il Belgio, 1 il Regno Unito.

Come ha affermato il dott. Mario Cicala nel corso della Conferenza ANM , svoltasi a Roma il 16 febbraio ed avente ad oggetto proprio la ragionevole durata dei processi, risulta di particolare importanza che gli operatori del diritto, gli avvocati ed i magistrati si rendano realmente conto sotto quali profili l’ordinamento processuale viola il principio della ragionevole durata dei processi ed evidenzino con precisione quali strutture, quale organizzazione, quali mezzi e quali comportamenti sono necessari affinché il nostro sistema giudiziario risponda a quel parametro elaborato dalla Corte europea e che considera "ragionevole" la durata di un processo che si concluda nell’arco di sei anni.

Peraltro è importante notare che la materia giustizia non faceva parte delle politiche della Comunità, ma di quelle dei singoli Stati; l’interesse dell’Unione Europea al corretto funzionamento della giustizia degli Stati membri è emerso dal recente incontro di Tampere, dedicato ai problemi dell’ordine pubblico.

Il documento approvato dal Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999 rappresenta il primo passo verso la costruzione di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia comune nei paesi membri.

Si tratta di un documento di programmazione non avente ancora un valore normativo diretto, ma che rappresenta sicuramente una prospettiva molto concreta per la cui realizzazione è già richiesto agli Stati membri un impegno per il reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie, per una maggiore convergenza nel settore del diritto civile, nonché per la prevenzione e la lotta contro la criminalità; una indicazione molto importante che richiede il massimo impegno poiché significa che presto l’Italia dovrà fare i conti non solo con la Corte di Strasburgo, ma anche con le istituzioni europee di Bruxelles.

In particolare, nel documento viene detto che "per godere della libertà è necessario uno spazio autentico di giustizia, in cui i cittadini possano rivolgersi ai tribunali ed alle autorità di qualsiasi Stato membro con la stessa facilità che nel loro. I criminali non devono poter sfruttare le differenze esistenti tra i sistemi giudiziari degli Stati membri. Le sentenze e le decisioni dovrebbero essere rispettate ed eseguite in tutta l’Unione, salvaguardando al tempo stesso la sicurezza giuridica di base per i cittadini in genere e per gli operatori economici. Gli ordinamenti giuridici degli Stati membri dovranno diventare maggiormente compatibili e convergenti".

Esso aggiunge che " in un autentico spazio di giustizia europea l’incompatibilità o la complessità dei sistemi giuridici ed amministrativi degli Stati membri non dovrebbero costituire per i singoli e le imprese un impedimento o un ostacolo all’esercizio dei loro diritti

Meritevole di attenzione è altresì la recente dichiarazione del Presidente della Corte europea dei diritti umani il quale, in riferimento alle violazione da parte del nostro paese al principio della ragionevole durata dei processi, in particolare di quelli civili, ha affermato che "la Corte potrà trattare i casi italiani in maniera più sommaria, nella speranza che le Autorità italiane ed il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa accorderanno maggiore attenzione all’obbligo per lo Stato italiano di prendere efficaci misure di carattere generale".

Tra queste ultime misure particolare importanza riveste il disegno di legge di iniziativa parlamentare n. 3813/5 dal titolo "Misure per accelerare le procedure e previsione di riparazione equitativa in caso di violazione del termine ragionevole del processo".

Tale proposta, nell’introdurre la "riparazione equitativa", parte dal presupposto che in base alla Convenzione europea dei diritti umani non è possibile adire la Corte se prima non si sono esperiti i ricorsi previsti dall’ordinamento interno per far fronte a tale violazione.

L’approvazione di tale disegno di legge riveste particolare importanza poiché consentirebbe di ridurre notevolmente il numero di ricorsi.

L’entrata in vigore, il 7 gennaio 2000, della legge costituzionale di riforma dell’articolo 111, ha rappresentato il punto di arrivo di un lungo iter parlamentare e si colloca sicuramente nell’ambito delle importanti riforme del processo penale introdotte con la L. Carotti e con la delega al Governo per attribuire al giudice di pace competenze in materia penale.

Tale riforma, infatti, nasce da una serie di disegni di legge costituzionale presentati al Senato della Repubblica (allegati alla presente relazione) che hanno formato oggetto di una vivace discussione politica non solo in sede di Commissione ma anche nell’aula di Palazzo Madama.

L’iter parlamentare, conclusosi in poco più di un anno, ha portato la Camera ad approvare questa legge costituzionale in seconda deliberazione il 10 novembre 1999 senza modificare quanto trasmessole dal Senato.

Da una attenta analisi degli atti parlamentari emerge la volontà, pressoché unanime, di formulare una norma di rango costituzionale che garantisca, soprattutto in ambito penale, l’applicazione di quei principi processuali già espressamente enunciati dall’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, con una particolare attenzione alle garanzie del contraddittorio e della formazione della prova.

Nonostante l’importanza dei cinque disegni di legge costituzionale presentati al Senato, che miravano alla modifica dell’articolo 24 della Costituzione o dell’articolo 101, 110 o addirittura all’introduzione nella Costituzione stessa di un articolo 110 – bis o 111 – bis, particolare attenzione deve essere rivolta all’emendamento n. 1.100, contenuto nella relazione discussa durante la seduta antimeridiana del Senato del 18 febbraio 1999.

Dallo stesso emerge che: la maggior parte degli emendamenti presentati sono stati ritirati o preclusi dalla formulazione del "nuovo testo" dell’emendamento n. 1.100, sviluppatosi nel corso della discussione in aula con l’intervento di quasi tutte le forze politiche.

Come si evince dalla lettura del nuovo testo dell’emendamento 1.100, esso anticipa integralmente quello che sarà il testo definitivo dell’articolo 1 della legge costituzionale n. 2/99; l’articolo 2 della legge costituzionale, invece, nasce dalla riformulazione dell’emendamento 4.100 "Sostituire l’articolo con il seguente: art. 4 (disposizione transitoria) 1. La legge regola l’applicazione dei principi contenuti nella presente legge costituzionale ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore."

Naturalmente meritano una particolare attenzione anche i sei progetti di leggi costituzionale presentati alla Camera dei Deputati (allegati alla presente relazione) e trattati congiuntamente a quello approvato dal Senato, nonché il dibattito politico svoltosi all’interno della I Commissione permanente della Camera (affari costituzionali, della presidenza del Consiglio e interni) che è durato quasi tre mesi ed ha richiesto ben 16 sedute.

Tale confronto politico ha portato alla votazione, durante la prima deliberazione della Camera, di emendamenti respinti solo in seguito a voto contrario espresso dai deputati dell’aula di Montecitorio; si tratta comunque di atti che hanno contribuito ad evidenziare e specificare i fini giuridici e sociali che il legislatore ha inteso perseguire con la legge costituzionale in esame.

Giova però un’osservazione! L’attuale situazione evidenzia come la disciplina codicistica sia in contrasto con i nuovi principi costituzionali, soprattutto per quanto concerne il "diritto probatorio".

Il Governo ha deciso pertanto di intervenire d’urgenza, attuando almeno i profili intertemporali della riforma costituzionale.

E’ stato così adottato il decreto legge 7 gennaio 2000, n. 2 proprio al fine dichiarato di "evitare che l’impatto dei nuovi principi sugli assetti processuali preesistenti determini la paralisi dei processi in corso, anche per effetto delle varie questioni di legittima costituzionale prospettabili".

Il testo del provvedimento in questione ha fatto sorgere notevoli perplessità.

L’articolo 1 del decreto legge, ad esempio, limitava l’applicazione dei principi dell’articolo 111 Cost. ai procedimenti in cui ancora non fosse stato dichiarato aperto il dibattimento. Al riguardo è stato però precisato che: "la norma costituzionale non si presta ad essere applicata a singole e concrete vicende processuali in quanto, a differenza delle norme di dettaglio, manca di una sua chiara struttura condizionale".

Alla luce di ciò si è ritenuto che l’articolo 111 Cost. doveva essere considerato, per quanto riguarda i procedimenti non ancora giunti al dibattimento, il modello secondo il quale i giudici ordinari avrebbero dovuto interpretare le norme di rito vigenti alla luce dei nuovi principi, oppure, ove ciò non fosse stato possibile, per sollevare la questione di legittimità costituzionale.

Per i procedimenti giunti al dibattimento, invece, il decreto affermava che "la colpevolezza dell’imputato non poteva essere provata esclusivamente sulla base di dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore". In ogni caso, qualora fosse emerso che il dichiarante si era rifiutato di sottoporsi all’esame a seguito di violenza, minaccia o offerta (o promessa) di denaro, le dichiarazioni precedentemente rese tornavano ad avere valore di prova dei fatti in esse affermati.

Con riferimento al decreto in esame è stata altresì lamentata l’incostituzionalità nella parte in cui lo stesso provocava una discriminatoria disapplicazione (in tutto o in parte) dei nuovi principi a una serie di procedimenti pendenti, nonché il contrasto dello stesso con l’articolo 2 della legge cost. n. 2/1999 in quanto, anziché attuare i principi enunciati dall’art. 111, si traduceva in una ripetizione della disciplina sulle letture – contestazioni senza tenere in alcun conto le efficaci disposizioni costituzionali.

Queste voci critiche sono state debitamente prese in considerazione in sede di dibattito parlamentare in occasione della conversione del provvedimento governativo; così è venuta meno la distinzione tra procedimenti in cui si è aperto il dibattimento e procedimenti in cui tale passaggio non sia avvenuto, evitando in tal modo il paventato rischio che il pubblico ministero e la difesa si trovassero ad affrontare il dibattimento con regole diverse da quelle prese in considerazione, e sulle quali confidavano per il proseguo del processo, nel momento in cui avevano scelto gli elementi probatori in base ai quali fondare le proprie condotte e richieste processuali.

Ciò ha consentito anche di evitare il rischio che i processi, per la loro durata, fossero regolati "in un primo tempo dal codice di procedure penale, poi dal decreto legge ed infine dal testo modificato" con evidente disparità di trattamento.

Modifiche sono state altresì apportate alla disposizione che prevedeva l’utilizzabilità, ai fini della prova dei fatti, delle dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari nel caso in cui risultasse che la persona che le aveva rese era stata sottoposta a violenza, minaccia e offerta, o promessa, di denaro, con la previsione che l’esistenza di tali pressioni deve risultare da elementi concreti valutati realmente in contraddittorio.

La legge di conversione 25 febbraio 2000, n. 35 non solo ha modificato il contenuto del decreto legge originario, ma ha introdotto altresì nuove disposizioni.

Così il comma 4 stabilisce che, con riferimento ai giudizi pendenti dinanzi alla Corte di cassazione, alle dichiarazioni già acquisite al fascicolo del dibattimento, e già valutate ai fini delle decisioni, dovranno applicarsi le disposizioni in materia di valutazione della prova vigenti al momento della decisione stessa, evitando in tal modo un prevedibile annullamento delle decisioni di merito pronunciate prima della riforma costituzionale.

Il comma 5 prende in considerazione l’udienza preliminare dei processi penali in corso nei confronti di imputati minorenni, prevedendo che il giudice, qualora ritenga di poter decidere allo stato degli atti, ha il dovere di informare l’imputato della possibilità di consentire che il procedimento sia definito in quella fase.

Il 26 maggio 1999 il Presidente della Repubblica, nel presiedere l’assemblea del Consiglio Superiore della Magistratura ha dichiarato: "Occorre che il Paese possa affidare serenamente la propria sicurezza, le proprie sostanze, i propri diritti, le proprie libertà, l’ordinato svolgimento dei rapporti economici e sociali, ad un sistema efficiente e celere, indipendente ed imparziale, preparato e solerte", parole, queste, che sicuramente corrispondono al desiderio di tutti i cittadini italiani che ormai da tempo ambiscono e reclamano chiarezza e coerenza dei sistemi normativi, speditezza delle decisioni, effettività della pena.

La riforma in esame riveste sicuramente una importanza notevole, nonostante la critica di coloro che ritengono che alcune disposizioni introdotte dalla riforma, ed in particolare il diritto al contraddittorio, anziché essere inserite nella Costituzione, avrebbero dovuto formare oggetto di un intervento legislativo ordinario, anche in considerazione del fatto che tale principio è rinvenibile dal complesso del nostro ordinamento costituzionale e processuale: basti pensare all’inviolabilità del diritto di difesa garantito, in ogni stato e grado del processo, dall’articolo 24 della Costituzione.

Ancora non è possibile prevedere quale saranno gli effetti del nuovo articolo 111 Cost. Non manca chi sostiene che alla luce dei nuovi principi costituzionali aumenteranno notevolmente gli "incidenti probatori" nonché le richieste di archiviazione, così come si avranno meno processi e meno contraddittorio davanti al giudice dibattimentale.

In risposta alle critiche di quanti ritenevano inutile o addirittura dannosa tale riforma, il presidente emerito della Corte Costituzionale, Giuliano Vassalli, ha più volte ribadito la necessità di tale riforma poiché le uniche fonti normative che, sino ad oggi, contenevano alcuni principi, senza i quali non si poteva parlare di parità tra accusa e difesa e di "giusto processo" erano le convenzioni internazionali che, secondo l’interpretazione maggioritaria, non hanno rango costituzionale.

Necessaria, in particolare, la costituzionalizzazione del principio del contraddittorio, strumento attraverso il quale le parti processuali concorrono dialetticamente alla formazione della prova, ed indispensabile per la formazione del libero convincimento del giudice, il quale ha il diritto – dovere di verificare l’attendibilità e la veridicità, in relazione al singolo imputato e agli specifici reati contestati, delle dichiarazioni confessorie e/o accusatorie che possono essere vere o false, o esserlo solo in parte, o, ancora, più o meno precise tra loro o con altre emergenze processuali.

Ciò ha consentito di evitare che si ritenesse legittima l’acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali rilasciate da chi, in dibattimento, si avvaleva della facoltà di non rispondere.

Questi, comunque, sono solo alcuni, ma forse i più importanti, motivi per cui il Parlamento ha ritenuto opportuno "costituzionalizzare" quei principi già presenti in molteplici trattati internazionali sottoscritti e ratificati dal nostro Paese, ed in particolare quelli attinenti all’effettività della difesa ed alla parità delle parti nel processo penale.

 

Roberta Gamberale