TORNANDO A CASA
Presentato al Festival di Venezia 2001 durante la ‘Settimana della Critica’, e candidato ai Nastri d’Argento per la miglior regia esordiente nel 2002, il partenopeo Vincenzo Marra debutta alla regia di lungometraggi con un film amaro sulla dura realtà di un gruppo di pescatori, alle prese con drammi personali e professionali.
Un gruppo di quattro pescatori napoletani svolge la propria attività in Sicilia sulla barca di Salvatore il quale, non contento della pesca poco copiosa in acque territoriali, si spinge di notte in quelle più prodighe della costa africana; ma una notte la guardia costiera tunisina li scopre e li costringe ad una fuga repentina e furiosa che danneggia il peschereccio. È ora di tornare a casa, da quel golfo che li ha visti partire, e da quella famiglia che li ha dovuti salutare. Rientrando a Napoli, il piccolo equipaggio dovrà fare i conti con i signorotti locali che ne ostacoleranno l’attività, e soprattutto con la tragedia che colpirà Franco, il più giovane dei pescatori.
I temi trattati da Vincenzo Marra sono molti e solo
accennati: dall’emarginazione di una vita solitaria, alla discriminazione
dell’extracomunitario, alla mafia locale, il dramma dei clandestini, ma nessuno
di questi è approfondito. Distribuito dalla Sacher Film di Nanni Moretti, Tornando
a casa è un piccolo film, e tutto sommato interessante, che mostra la vita
massacrante ed ingrata di quattro uomini induriti dalla solitudine e dalla
fatica. La macchina da presa sta addosso ai personaggi, veri pescatori e attori
non-attori, seguendone da vicino e in presa diretta i movimenti, le
espressioni, ed i discorsi in dialetto napoletano. Tutti elementi di
neorealismo che si mischiano per raccontare una realtà, più che giudicarla. Una
realtà marginale e di emarginazione. Infatti, l’obiettivo della macchina da
presa si stringe su una microcomunità che vive ai confini di tutto, quasi un
mondo parallelo a quello quotidiano, in cui la notte ed il mare sostituiscono
la luce e la terra. Le parole del giovane Franco verso il compagno di reti
tunisino Samir, sono in questo senso eloquenti: “Questa barca è una galera e
una casa…la barca ti è madre ed il mare è tuo padre…Questa è tutta la vita tua,
e solo questa è la tua vita…da quando ti sei imbarcato, per il mondo sei morto,
non esisti più, non sei nessuno..”
La vita dei quattro, costretti a vivere lontano
dagli affetti ed a condividere gli spazi angusti del peschereccio, diviene
monotona e sempre uguale a se stessa; davanti ai loro occhi sempre e solo mare,
un orizzonte senza mete, solo acqua e cielo. Una solitudine questa, che Franco
riesce a condividere con Samir, con il quale parla spesso, raccontandogli di
Rosa, l’amata moglie lontana con la quale vorrebbe partire per abbandonare una
vita di sacrifici ed isolamento.
E all’interno di questa comunità ai margini si
manifesta una realtà, se è possibile, ancora più ghettizzata: quella
dell’extracomunitario Samir. Il giovane nordafricano, infatti, è discriminato
anche nella piccola comunità del peschereccio quando Giovanni, fratello del
proprietario, inveendo contro la guardia costiera africana che li ha scoperti,
si scaglia contro di lui manifestando il suo pregiudizio nei confronti di chi
reputa diverso, oppure quando a tavola Samir non siede con gli altri, ma in
disparte. Tornando a casa, il tunisino fa rientro nell’appartamento della
fatiscente e degradata periferia napoletana che condivide con altri due
connazionali, ma non c’è dialogo nemmeno qui (non a caso uno ha le cuffie nelle
orecchie e l’altro dorme), e dunque nessun motivo per restare.
I due fratelli, Salvatore e Giovanni, che hanno
puntato tutto sulla loro attività, si trovano ad essere emarginati dai
pescatori napoletani che non vedono di buon occhio il loro ritorno al golfo,
costringendoli ad allontanarsi nuovamente.
L’unico che può sperare in un avvenire diverso è
Franco, desideroso com’è di dare alla moglie un futuro sereno, ma il destino
s’accanisce infrangendo tutti i sogni del giovane. Franco, svuotato di ogni
desiderio e speranza, torna a far parte di quell’esistenza senza confini, ma
priva di obiettivi. Il suo ritorno al mare è un annientarsi, un cancellare il
proprio passato, grattando via un’identità nella quale non si riconosce più,
confondendosi fra gli altri come il più misero dei clandestini; ma, seppur senza
più niente, Franco ora non vede più all’orizzonte solo mare, bensì terre nuove
e sconosciute, e forse una possibilità per ricominciare.