IL SOFA’

(racconto bonsai di Alina Rizzi)

 

 

 

 

Il sofà è nell’angolo, dove una volta c’era un tavolo, non mio, non ho rammarichi.

E’ grande, imbarcato un po’ sfondato non esattamente stabile, ma accogliente, caldo,

rivestito d’un drappo indonesiano a ricami rossi e neri. E sopra tanti cuscini sparsi e stropicciati, che ne fanno una cuccia invasa dai peli bianchi della gatta, sempre pronta a rubarmi il posto, ad allungarsi assonnata. La coperta a volte diventa una tenda, la vela di una zattera che mi accompagna nei lunghi, infinitesimali viaggi sfiniti, nell’abbandono delle membra indolenzite dal vuoto, quando mi arrendo ai marosi interiori, alle tempeste impronunciabili che frustano la pelle come il ricordo dei tuoi baci, sul sofà.

Attorno molte fotografie che rievocano mete lontane e già scordate, i fiori di un’amica, una luce smorzata che piove dall’alto come dal cielo, il ficus che fa bosco con fronde verdi e rigogliose, piangenti nel separarmi – irrimediabilmente, dal resto delle stanze.

Ecco, questa è la zattera-nido-cuccia inventata dal cuore e dagli intenti, bandita alla ragione, ribellatasi ai giorni.

Questa è l’alcova dai colori d’oriente, il boudoir fumoso d’incensi, la grotta rischiarata dai ceri in cui ti attendo, amore. Un letto solo mio, dove il dovere non ha diritto di cittadinanza. Il letto in cui galleggio con un gatto, i capelli sparsi sui cuscini, i libri i fogli e le parole: tutti i miei averi.

Ti attendo come una concubina e una sultana, ingioiellata e scalza, nel mio vestito migliore e ad occhi chiusi immaginando il momento in cui rivedrò raggiungermi, sicuro dopo i draghi e le onde. Sì giungerai, portando un canto e quella risata. Ti chinerai tra le mie braccia, tra le mie gambe, risalendo col viso alla fonte, abbeverandoti alla mia lunga attesa che porta il ricordo dei fondali, di grotte coralline, di dune infinite. Avrò il tuo volto tra le mani allora, gli occhi che san guardare, la bocca da sfamare. E intanto con le dita stropicciare angoli e passaggi, riscoprire anfratti, immergersi interi e ristorarsi.

Oh sì che verrai amore, perché ho una zattera un letto e mille notti ancora da sussurrarti.

 

 

 

 

Tu sai che verrai come fosse il primo giorno. Tu sai che avremo più di tutti, un canto e una vela, gli occhi dentro agli occhi.

Ti aspetto.

Ammaino le ore sperando nella bonaccia, infilando parole lungo l’arco del tempo.

Verrai, e saranno canzoni…

 

… le ore precipitarono nei giorni e furono trascinate via come dalla corrente d’un fiume inarrestabile. Lei rimase, perseverante e attenta nel cogliere segnali, mentre sul suo volto l’attesa si stropicciava, gli occhi si rintanavano smarriti, le labbra assottigliavano fino a divenire una fessura in cui si incastrarono le sillabe e mille ipotesi ancora.

Le foglie del ficus s’abbandonarono sopra il tappeto sfinite dalla penombra, i fiori cedettero riarsi dalla mancanza, i ricordi di viaggio annebbiarono cautamente.

Non rimase cera da ardere, né libri da scoprire, né frasi da sigillare.

Il sofà si allontanò dalle sponde abitate come una zattera alla deriva.

E ancora lei attendeva.