EYES WIDE SHUT

 

Di Stanley Kubrick

 


Un titolo ambiguo, dal significato oscuro, che suona pressappoco “Grandi occhi chiusi”, oppure “Chiudere gli occhi”…oppure…un titolo che si presta a mille significati possibili, che si accavallano nella mente di chi vi riflette.

Un film che questo titolo rispecchia pienamente: un significato che sfugge, che a tratti appare chiaro, poi di colpo si sposta, cambia direzione, riprende il precedente cammino, si sposta nuovamente, corre verso un qualcosa che non riesce a raggiungere.

Una storia non-storia. Forse solo un delirio, nella notte, nel giorno, nel sogno. Un “doppio sogno” (il titolo del romanzo cui il film si ispira). O forse molti sogni, che si rincorrono senza sosta. Due persone che si guardano pur senza vedersi, che alternano i sogni dell’ uno con la realtà dell’ altro, quasi fossero eventi speculari tra loro. Evinti sovrapposti ma, a ben guardare, delineati.

Tutto, nella storia, è ambiguo, appare contorto, talvolta poco comprensibile, dalla linea narrativa confusa. Ed in una forte sospensione spazio-temporale. Un altro motivo per il quale sogno e realtà si confondono.

Kubrick ci aveva abituato a questo. Se ricordiamo il delirio di “Arancia Meccanica” o le sovrapposizioni allucinatorie di “Shining” capiamo molto bene cosa si vuole dire.  Qui, però, il regista raggiunge il massimo in tal senso, confondendo davvero lo spettatore, rallentando a piacimento i ritmi della narrazione, e trasponendo il tutto in un universo ove i termini comportamentali ed i ritmi della quotidianità perdono ogni significato, e dove si viene a creare una vera e propria “realtà parallela” nella quale i valori cui siamo abituati cadono, sostituiti da una totale libertà.

In tal senso l’ elemento dell’ inconscio, dello studio dei meccanismi della psiche, appare in modo deciso nella narrazione e nella descrizione. La liberazione totale dell’istintività ed il controllo delle reazioni sono due poli che, qui, appaiono in tutta la loro forza espressiva, in contrasto eppure così compenetrati e su piani perfettamente paralleli.

I colori: tipici del sogno o del delirio. Colori che accentuano l’irrealtà e la sospensione spazio-temporale. Tinte perfettamente volute da Kubrick, che scegliendole ha inteso comunicare, anche attraverso di esse, un messaggio molto forte.

Il rosso è sempre molto presente, in tutte le sue tinte. Rosso come passione, ma anche come forza, come presenza, come volontà di lasciarsi andare alla voluttà. Il blu ed il nero: l’oblio, la dimenticanza, l’allontanamento dal contingente, dal quotidiano, per proiettarsi con forza al di fuori. Il giallo, a tinte viranti verso l’ocra: un sapore d’antico, ma un modo per descrivere un universo a sé, al di fuori di quello già conosciuto ed a noi noto.

La sessualità. Tema molto caro al regista. Qui, ancora più che altrove, essa è descritta in modo tra il diretto e l’artistico, con una sospensione tra un’intensa passionalità e la stilizzazione di un quadro. I nudi, che talvolta appaiono nelle scene, ricordano splendidi quadri, nella loro fissità, ma nello stesso tempo nella gran comunicazione che essi offrono. L’amore per la pittura del regista, in ogni caso, non è cosa nuova, e basta pensare a capolavori come “Barry Lyndon” per capirlo.

Sessualità anche vista come aberrazione sessuale, come forte sfrenatezza, come ambiguità del rapporto. Un’ambiguità che, a tratti, vira verso l’omosessualità. Un universo sessuale in cui l’ambiguo, l’incerto, l’alterato è anche un modo per descrivere l’alterazione dell’essere umano, dei suoi complessi.

Una sessualità simbolo dei grandi problemi dell’uomo (tra cui il famoso “Complesso Edipico”). Kubrick, in questo senso, è pregevole nella sua capacità di evidenziare in modo preciso e diretto queste situazioni, ponendole in luce con una chiarezza esemplare, ove l’ebbrezza dei sensi è sempre motivo di studio, e non pura manifestazione fisica. C’ è sempre qualcosa che guarda “al di là” di se stessa. E l’unico modo che abbiamo a disposizione per capire sino in fondo il lavoro è fare lo stesso anche noi, andare oltre la pura rappresentazione, cercando di apprezzare il simbolismo che vi è dietro, che si legge al di là della rappresentazione. E’ uno sforzo, si può capire, ma deve essere fatto.

La musica: particolare, tra il tonale e l’atonale. Un bozzetto ove Ligeti si fonde con Mozart. Ove gli eventi sono un tutt’uno con la musica proposta. Una musica che, spesso, contribuisce a mescolare i piani di realtà, dando l’illusione, ancora una volta, che il divenire non sia una linea retta, percorribile in un verso o, al limite, a ritroso, ma piuttosto una sorta di struttura pluridimensionale, ove si può saltare da una rappresentazione all’ altra senza perdere la continuità della narrazione.

Un qualcosa, di davvero particolare, in cui la somma dell’ opera del grande regista si ritrova per intero, quasi a volerne rappresentare un memorabile testamento. Uno dei più grandi maestri del Cinema che conclude spingendo al massimo, forse all’ estremo, tutte le sue tematiche, accentuandole, esagerandole.

Forse l’ esagerazione c’ è, e non così “mielata”. Si percepisce molto forte. Per qualcuno questo eccesso può apparire un qualcosa che “urta”, non dispone particolarmente bene.

Ma, andando al di là di questo, si scorge la mano del Genio, cui il Cinema deve molto, e che ha saputo, con questo ultimo lavoro, lasciare un grande ricordo di sé. Un ricordo che, credo, il tempo stenterà davvero a cancellare.

 

Sergio Ragaini