EAST IS EAST

 

 

TITOLO ORIGINALE:       Lo stesso

ORIGINE E ANNO:            Gran Bretagna ; 1999

REGIA:                                 Damien O’Donnell

 


L' integrazione possibile. O impossibile. Dipende dai punti di vista, o dal modo di vedere le cose e le situazioni.

Un tema che, oggi più che mai, può essere vivo, in un' epoca in cui le emigrazioni assumono proporzioni davvero massicce.

Giungendo da Nazioni molto diverse da quella ospitante, una persona porta con sè usi, costumi, tradizioni molto lontane da quelle che troverà. E, se lui stesso porterà avanti, con determinazione, i suoi usi, sarà quasi impossibile che essi procedano nel tempo, nella sua famiglia.

E' il caso di George Khaan. Pakistano, in Inghilterra dal 1937, sposa una donna Inglese, Ella, e mette al Mondo 7 figli. Questi, tranne uno, Manner (riconoscibile dal suo abbigliamento e dai suoi modi), si sentono Inglesi, e vivono come tali. Mangiano Bacon e Salsicce (che puntualmente nascondono all' arrivo del Padre). bevono birra ed alcolici (magari chiedendo un "rhum e coca leggero"), fanno sculture moderne a sfondo erotico ("ma anche questa è Arte", come dirà Saleem, il suo autore!).

Lo scontro tra il Padre ed i figli è lo scontro tra Culture. Lo spaccato familiare della Famiglia Khaan riproduce il contrasto, evidente, tra così differenti modi di vedere la Realtà. Contrasto che appare nell' ironia degli abitanti, che scherniscono le "processioni familiari" e gli strani costumi dei Pakistani. Contrasto che, pure, appare dalla reazione degli amici quando Abdul affermerà di non conoscere la donna che sposerà il giorno successivo. E, come non citare il cartello del Paese di Bradford, cambiato con la vernice in "Bradistan"?

George "rifiuta" qualsiasi integrazione, nonostante sia in Inghilterra da 34 anni (la storia si apre nei sobborghi di Manchester nel 1971) e gestisca, con la moglie, una friggitoria dove viene preparato "Fish and Chips", forse uno dei cibi da "fast food" più classici, in Inghilterra, negli anni 70. Non esita a "ripudiare" un figlio, Nazir, per aver rifiutato delle nozze combinate. Impone la sua figura di Padre Padrone a tutti.

Questo lavoro appare in tal modo anche un' occasione per guardare dentro a tradizioni a noi lontane, ma esistenti ed in mezzo a noi molto più di quanto possiamo pensare, specialmente oggi, epoca di grandi emigrazioni. E' interessante anche per poter esaminare il Gruppo "Etnico" Pakistano, i suoi modi, il suo fare "Gruppo" proprio per il sentirsi in terra ostile, in un luogo dominato da un qualcosa che tende a distruggere la propria Cultura.

Una chiusura che ha come contraltare il rifiuto da parte degli Inglesi (George dirà: "Inglesi no accettano te". Vedremo poi come, in una discoteca, i Pakistani non possano entrare). Ma il film ci permette di vedere anche come il discorso di "rifiuto" sia duplice. Ed è difficile, a questo punto, capire chi per primo "mette le barriere". Vedendo George capiamo che, almeno, entrambi (ospitanti ed ospiti) le pongono.

Ella, eroica nel suo genere, è come sospesa tra due Mondi, tra due Culture. A lei il difficile compito di conciliare l'anima Inglese dei figli e quella Pakistana del marito. Marito al quale dimostrerà amore, al di sopra di ogni tensione.

Il lavoro è tratto da una Commedia Teatrale, di Ayub Khan-Din, un autore Pakistano, forse “più Inglese degli Inglesi”, che ne cura anche la Sceneggiatura.

La realizzazione cinematografica di Damien O'Donnell ha il merito di lavorare molto sull'ironia. George fa ridere, come fanno sorridere alcune sue posizioni. Il "paradosso-realtà" di alcune usanze di queste persone suscita in noi ilarità.

Non senza, però, farci riflettere. Non solo sul ruolo della Donna nell' Islam (questo già lo conosciamo), ma sul ruolo, almeno in tal caso, di una Cultura in cui il Capo Famiglia può decidere ogni cosa, anche quando e come un figlio debba sposarsi. Un Padre per il quale la libertà individuale non esiste, ed il destino di un figlio può essere segnato ancor prima che lui possa, liberamente, vivere i suoi sentimenti, compreso uno dei più belli, se non il più bello: l' Amore.

E' bello davvero che un Pakistano abbia scritto queste cose: questo vuol dire che non si può generalizzare.

Bisogna, di certo, rifuggire dagli estremismi alla "George", o al tentativo estremo di preservare usi che, vivendo altrove, andranno inevitabilmente persi con il tempo, e con la persona che ancora li pratica al di là di ogni evidenza ambientale.

Bravo, infine, il Regista, a presentarci tutto questo con garbo, senza eccessi, con un' ironia a tratti sarcastica, amara, ma sempre ironia. La quale, aiutati poi dall' atmosfera, anche Musicale (bello il contrasto, a volte evidente, tra Musica Araba ed Occidentale), è il modo migliore per far riflettere in modo "soft", con gusto, ma in maniera di certo molto efficace.

 

Sergio Ragaini